BIBLIOTECA NAPOLETANA
DI
STORIA E LETTERATURA
EDITA DA Benedetto Croce
LE RIME DEL CHARITEO
PARTE PRIMA.
jntroduzione,
Tipogr. dell'Aocad. delle Scienze. Napoli
<
m
^
w
LE RIME
DI
^
BENEDETTO GARETH
DETTO *IL CHARITEO
SECONDO LE DUE STAMPE ORIGINALI
CON INTRODUZIONE E NOTE
DI
ERASMO PÈRCOPO
PARTE PRIMA.
Introduzione.
ì
'l^
^
3
NAPOLI
MDCCCXCII
Do
AVVERTENZA,
La collezione, che s'inizia con questo vohcme, ha un
limite, che diremo regionale. Le opere, che vi saranno
accolte, saranno opere di scrittori napoletani, ovvero opere
riguardanti cose napoletane. Ciò e reso necessario da
ragioni pratiche facili ad intendersi e delle quali gli stu-
diosi, se vogliono far cosa meno imp)erfetta, debbono tener
conto.
Quanto al genere, le opere di questa collezione saranno
di due generi; cioè: od opere letterarie, come poemi,
drammi, novelle, ecc.; od opere storielle: e queste ultime
riguarderanno non tanto la storia politica, quanto la
storia della vita sociale e dei costumi delle provincie me-
ridionali d'Italia.
Siamo venuti a questo concetto, considerando che la
letteratura e la vita sociale e i costimi sono la parte più
trascurata dei nostri studii. Alla storia politica provvede
ottimamente la Società Storica colla serie che va pubbli-
cando dei Monumenti storici.
Quanto al modo della j^uàhlicazione, i testi delle opere
saranno jyuhhlicati in edizioni critiche, e saranno accom-
pagnati largamente da introduzioni e da note, dirette ad
illustrare le materie che trattano, o le forme letterarie
che rappresentano. E, a questo modo, i volumi della col-
lezione non solo conterranno stampe o ristampe corrette
di opere letterarie o storiche, ma porteranno un contri-
buto di notizie ed osservazioni alla storia civile o alla
storia letteraria.
Con questo programma ci accingiamo al lavoro; e sa-
remo lieti se, fra alcuni anni, p}otremo dire di avere ac-
cresciuto le collezioni storiche della nostra regione di un
certo numero di non inutili volumi.
'Napoli, 1 Gennaio 1890.
Benedetto Croce.
Uii
quand'io metteva insieme queste pagine,
CHI m'avrebbe mai detto,
caro papà,
ch'avrei dovuto dedicarle:
ALLA TUA BENEDETTA MEMORIA!
u.
INTRODUZIONE
i
DELLA VITA E DELLE RIME
BENEDETTO GARETH DETTO IL CHARITEO
At te
bearunt Charites deae ministra*,
e quia, o Charitee, nomen hauris.
Fontano, Baiar. \.
I.
Fra i poeti che dal 1450 al i$oi cantarono l'amore
nella corte degli Aragonesi napoletani , il Chariteo è
senza dubbio il migliore: migliore anche di quell'unico
che potrebbe competergli quel posto: il Sannazaro; il
quale, data tutta la sua giovinezza alla composizione
^^\V Arcadia, pare che ben poco si curasse delle sue rime
amorose '; nelle quali ei segue troppo da vicino il mo-
dello petrarchesco, e riesce alquanto freddo e stentato.
E neanche come poeta politico il Chariteo ha rivali
fra i suoi contemporanei napoletani : che pochi d' essi
s'interessarono, e questi pochissimo, alle lotte interne
ed esterne di quella dinastia, che per loro era sempre
straniera ': solo il Chariteo, connazionale degli Arago-
* Infatti quelle « vane e giovenili fatiche », composte in gran parte
tra il 1480 e il 1304,61 non le pubblicò che nel 1330 (Napoli, Suitzbach):
neir istess' anno che uscirono le rinne del Bembo.
' Poche poesie politiche nel Canzoniere (Napoli, Morano, 1S83)
di P. J. DE Jennaro (son. xiii , canzz. 11, iv , v, son. xlvii ecc.); po-
chissime in quello del Sannazaro {Rime, Padova, Cornino, 1723; canz
XIV, sonn. lvi-vii); qualcuna in quelli di G. F. Caracciolo e degli altri
rimatori minori.
XII INTRODUZIONE
nesi, dei loro disegni, delle loro ambizioni, delle loro
speranze e dei loro timori si fece adatto interprete e
banditore caldo e appassionato a tutta Italia : egli fa
il poeta politico ufficiale di quella corte.
Poeta d'amore, non seguì servilmente le situazioni
amorose del Canzoniere-, ma cercò contemperare il pla-
tonicismo di quello con la poesia eretico-elegiaca, più
umana, più adatta a quell'epoca che rievocava con
tanto entusiasmo la vita pagana, di Properzio e di 0-
vidio; poeta politico della più potente e florida mo-
narchia italiana del quattrocento; ha tutti i diritti, e
dal lato artistico e dallo storico, alla considerazione
degli studiosi della storia della letteratura nazionale.
Ai quali il Chariteo come personaggio storico, — e fu
una delle più belle ligure del suo tempo, — è poco noto ;
e del poeta son fin troppo conosciuti, più che alcune sue
belle qualità, certi suoi in qualche modo esagerati di-
fetti. —/Della sua vita accertarono alcuni fatti, prima
di tutti , il Mazzuchelli S poi Raimondo Diosdado Ca-
ballero -, e, in più gran numero, Bartolommeo Capas-
1 Nelle schede inedite degli Scrittori d'Italia, ai ff. 563 r-566 v del
Codici! vaticano , n° 9265: 2° scompartirnento « Manuscritto del \
Conte Giovanni \ Maria Mazzuchelli » 5° scompartimento Scrittori
Italiani \ C. \ 9 \ che è la 6* busta, contenente gli articoli Canardo-
Carli. Ivi son , per la prima volta, tutte le notizie e le testimonianze dei
contemporanei sul Ch. , sulle edizz. delle rime ecc. ; ma rimase scono-
sciuto a tutti quelli che parlarono del n. — Su queste schede inedite,
che io ebbi agio di studiare a Roma, anni fa; v. E. Narducci, Intorno
alla vita del e. G. M. ed alla collezione de'' suoi mss. ora posseduta
dalla bibl. Vatir. (estr. dal Giorn. arcadico, t. CXCVII; LII della
N. S.,p. 78).
' Ricerche critiche appartenenti all'accademia del Fontano scritte
da Ramondo Diosdado Caballero ; s. a. né 1. ; ma certamente Ro-
ma, nel 1797. Oltre che di molti accademici pontaniani, di Alfonso I
e di altri mecenati napoletani, del sec. XV (pp. 29-145); parla delle
due edizz. originali delle rime del Ch., della patria, del nome, della
sua venuta a Napoli, della professione e degli uffici], della famiglia,
INTKODUZIONE XUI
SO '. — Di una gran parte delle rime, primo e solo, il
D'Ancona parlò competentemente"-; ma egli, incalzato
dalla tesi che s'era messa dinanzi, dato solo uno sguardo
dell'amore per la Luna, del suo viaggio a Roma, degli amici e ne-
mici ecc. (pp. 3-2S). Di quest'opera rara ho potuto studiare V esem-
plare posseduto dal comm. F. A. Casella; un altro, postillato da A.
Gervasio nel 1807, nella bibl. dei Gerolamini , in Napoli. Fu scritto
specialmente per correggere e completare il poco e male detto sul n. dal
TiRABOscHi {Stor. della lett. ital. , t. VI, P. Ili, cap. Ili, xvi, ediz.
Class. Ital.); il quale aveva parlato del Cli. , senza averne letto, nep-
pur frettolosamente, le rime ; come fece anche P. Napoli Sionorei.i.i,
Vice.ììde. della cole, nelle due Sicilie'^, Napoli, 1810, III, pp. 461-62 Dal
Caballero derivò « una biografìa piuttosto lunghetta », vista in Ispagna
dal mio amico B. Croce, a p. 163 delle Memorias para ayvdar à for-
mar un dìccionario critico de los escritores calai anes y dar alguna
idea de la anf.igxta y moderna literatiira de Catalvàa. Escriblólax
el limo Sr. D. Felix Torres Amat ecc. ecc. (Barcelona, Imprem-
pta de I. Verdaguer, 1836).
* Sul vero cognome del Cariteo antico pontaniano , a pp. 37-52
del Rendiconto delle tornate dell' accad. poni. , &. V (Napoli, pp. 37-
52, 1857). Segui il Capasso e il Caballero, per la parte lùogratìca,
Camillo Minieri Riccio, a pp. 318-337 delle Biografìe degli accad.
alfonsini detti poi pontan. dal 1442 al 1543, s. a. né 1., ma Na-
poli (estr. ààW Italia Reale, 1880-82). E dal Capasso trascrisse prin-
cipalmente il Ciavarelli , Cariteo e le sue opere volgari (estr. dal
Propugnatore , voi, XX): sul quale v. la mia recensione nel Giorn.
xtor. d. lett. it , XI, pp. 218-230; e La letteratura di Torino, III, 15.
'^ Del secentismo nella poesia cortigiana del secolo KV , a pp.
131-237 degli Studj sulla letter. ital. de' primi secoli, Ancona, Mo-
relli, 1884; e Milano, Treves, 1891, differente dall'altra solo nella co-
pertina. U Gaspary (Geschichte d. ital. Lit., Berlino. Oppenheim, 1888,
11, p[). 329-30; e nella trad. ital. di V. Rossi, Torino, 1891, voi. II,
P. I, pp. 305-6); segui internmente il D'Ancona.— Oltre a tutti quelli
ricordati nelle nn. preced. , studiarono e citarono le rime del u.:
L. NicoDRMo , .Addizione copiose . . . alla bibl. nap. del dr. A". Toppi
(Napoli, Castaldo, 1683, pp. 58-59); Gian Vincenzo Mkola , in alcuni
appunti mss. (bibl. Nazionale di Napoli, xml d. 27), pubblicati, fuori
ili una nota finale, da cui si sa che li scriveva intorno al 1788, dal
Ciavarelli , pp. io5-ii7(cito dalla stampa); Michele Tafuri, Epi-
tal. di G. Altilio ecc. (Napoli, Stamp. Simoniana, 1803I, pp. xiii-xvni,
XXI. xxvii-viii, 64-67 e n»?.; Michele Arditi, Esame de' tit. in forza
de' quali ha la d. casa di Monteleone ecc. (Napoli, 1803), pp, 7, 13,
XIV INTRODUZIONE
fugace a qualcuno dei brani più belli, volle in qualche
altro trovare alcune delie cagioni di quella maniera
tronfia, strana e svenevole, di quel preseceutismo che
caratterizza tanto le rime dell' improvvisator aquilano
e dei suoi confratelli; i quali, a vero dire, pare che
derivino più direttamente dalle esagerate e gonfie poe-
sie giovanili di Antonio Tebaldeo.
Kestava, dunque, quanto alla vita, a licfrcarno tutti
i fatti nelle pubbliche carte che ci rimangono ancora
di quel tempo ; a ordinarli ; a riunirli alle testimo-
nianze dei contemporanei, ricavandone tutte le dedu-
zioni possibili '; e, quanto alle rime, a studiarle una
per una, notandone i plagi e le imitazioni, specialmente
dai poeti latini - e dal Petrarca ; i pregi e i difetti ; e
la fortuna loro nelle ristampe e negli imitatori; e ten-
tar, finalmente, per quanto era possibile, di tratteggiar
la fisonomia dell'uomo, del letterato, del poeta ; e questo,
tolto di fra i mediocri, fra i quali malamente si trova
oggi collocato ^, riporre nel posto che egli occupava al
13 sgg., 51, 175 ecc.; G. Roscoe , Vita e poni, di Leone X, trad.
Bossi (Milano, Sonzogno, 1816-17), t. I, pp. 103-3, 109, 114-13, 209;
11, 129, 288 sgg., 311; III, 258; U. A. Canello, St. della lett.ital.nel
sec. XF/ (Milano, Vallardi, 1881), pp. 183, 199: Tallarigo-Imbria-
Ni, Nuova crest. ital. (Napoli, Morano, 1883), voi. II, 345-33; eJ altri
«he ricorderemo in seguito.
1 I docura. di cui mi servo, inedili finora, eccetto i nu. II-III, V,
XI-XII dei pubblicati dopo V Introd , ed il IX pubbl. in parte, furon
tutti ritrovati da me nei registri aragonesi dt^l R. Arcliivio di Napoli.
- Solo il Meola., Op. cit., pp. 114, 116, 117, ricopiato in gran parte
dal CiAVARELLi, pp. 70-74, accennò a due o tre delle più facili tra le
infinite imitazioni o traduzioni da' poeti latini.
3 Si veda, p. es., R. Fornaciart, La leti. ital. ìiel primi qnat. ser.
(Firenze, Sansoni, 1883), p. 163; e nei loro Man. della lett. ital. il
Torraca, I, 468-470, ed il Casini, IH, 346, 363. È nominato appena
dal GiNGUENÉ {Hlst. litt. d'Italie. Parigi, 181 1 ; voi. Ili, p. 348);
da G. Maffei, St. d. lett. ital. (Firenze, Le Monnier , 1833), voi. I,
p. 196: dal Settembrini. S^t. d. lete ital., I, 280: dal Fornaciari ,
INTRODUZIONE XV
SUO tempo , fra i migliori artisti che nel quattrocento
poetarono in volgare.
Se nella corte fiorentina, per le rime d'amore, eb-
bero il primato il Poliziano e Lorenzo de' Medici; e,
nella ferrarese, il Bojardo e il Tebaldeo; nella napo-
letana, più spesso e con più entusiasmo, si ripetettero
le canzoni amorose del Sannazaro e del Chariteo.
II.
Si chiamava Benedetto Gareth. 1 nostri vecchi avevan
tanto fantasticato su quel misterioso Chariteo ! ' 11 buon
Bis. stor. d. leu. ital. , 56 ; dal FiNzi , Lez. di st. d. lett. ital. , II, 25 ;
ina in quasi tutte l'altre storie della nostra lett. neppure il nome.
1 Men di tutti il gesuita A- Ruggiero (Xeapol. literat. TJieatrum,
Oratio hah. in Neap. in repet. stud., 1617, p. 21); assicurando che
Chariteo era [iseudonimo del card. Jacobo Seripando, « qui Chariteus
olim est dictus ; fortasse quia in sinu Charitum enutritus sexcentas
versibus Charites appingebat »; e in nota: «poeta cultissimus, cuius
panca sui)ersuat manuscripta, sed praeclarissima»'.!: clV. Napoli Signo-
RELLi, Vicende, III. 464. — Il Toppi {Bibliot. «apotoana, Napoli, 1678,
p. 314), non sa se «Carideo... sia nome o cognome»; il Quadrio, St. e rag.
d'ogni Poes., II, 213, afferma che il cognome era «de'Caridei». Il Meola,
Op. eie, p. 112, crede Canteo nome poetico, ma ricorda «che Monsignor
Sabatini, vescovo d'Aquila, in quella vita che scrisse del medesimo, in-
sieme con l'altra di Elio Marchese, intende dimostrare, che fosse suo
naturai nome, quello di Cariteo; siccome afferma Francesco Daniele,
che ebbe aggio di veder queste vite, rimaste nei mssti del Sabatini , che
non mi è riuscito di trovare». — E vi furon veramente delle famiglie
napoletane e di Pietradifusi chiamate Carideo, nel secolo scorso (Mi-
NiERi Riccio, Op. rie, pp. 322-323). Il Mazzuchelli {Op. cit., p. 566 v)
ricorda raons. Caritei , vescovo di Sebenico; un Adelfo ed un Filandro
Cariteo, e quell'Andrea Cariteri, chiamato da alcuni Charitevs (v, an-
che Negri, 7s^ de' fior, scritt., p. 33). Io poi ho trovato nel Repert.
Com. della Somm., f. 16 v,un «Cariteo Mormile» (147S); e nel Rep. de'
div. off. e henef. regii, f 247 r, un «Gio. Ger. Cariteo, regio capit.
in Sulmona» (1522-26).
XVI INTRODUZIONE
Crescimbeni , leggendo male un brano della Vita del
facondo Poeta Vulgare Seraphino Aquilano per Vin-
centio Calmeta composta * , e confondendo tre accade-
mici in uno , lo aveva chiamato Attilio Musefilo Cari-
teo^; il Caballero proponeva come «vero cognome...
Caradeu, vero casato catalano, che significa faccia di,
D*o», «Grazia, ovvero Grazioso, mascherato alla
greca in Chariteo » ^ Il Capasso , che aveva pensato an-
che lui ad un Graziano, mostrò invece con due docu-
menti alla mano, « che il proprio cognome del Canteo
era Garrecta o Garetto , e che al medesimo egli solca a
quanto pare preporre il nome accademico col quale era
generalmente conosciuto » ^. Ma anche quest'ultima for-
' Innanzi alle CoUettanee Grece- Latine-e \ Vulgari per diversi
Alidori I Moderni-nella Morte de lar- | dente Seraphino Aquila-
no... (Bologna, jjer Caligola Bazalìero , 1504): v. la descrizione ia
Renier, G. Visconti, p. 6 n. Anni fa studiai, in Roma, l'esemplare
dell'Alessandrina: m , f . 51 , f."^ 2''. — Ivi si legge: « Fioriva in Na-
poli anchora un'altra Academia de litterati la qual sotto l'auctorità
e reverentia dil Fontano nel portico Antoniano a lochi e tempi se
congregava, Jacobo Sanazaro, Attilio, Miisephilo Chariteo & altri as-
sai eruditi, e di perspicace ingegno». Correggendo V Attilio \q Alti-
lio, e mettendo una virgola dopo Musephilo , ai sarebbe inteso bene:
V. Tafuri, p. xvm, n. io. L'errore del Crescimbeni fu ripetuto dal
Quadrio, Op. cit., II, p. 213; nel Catal. Bihl. Caxanat. , Roma, 1761,
II, p. 106; e dal Mazzuchelli, f. 563; ma cfr. Tafuri, pp. xin-xiv ,
n. i; e Capasso, p. 43.
- Istoria della volg. poesia, III, p. 301.
3 Op. cit., p. II.— Egli aggiunge che se Caradeu è il cognome vero
del Chariteo, il nipote di costui potrebb'esser quell'Oritheo, di cui alcuni
versi latini nel voi. VÌI, p. 27 dei Carmina i/I. Poetar. Ital. (Firenze,
1719-24); perché questo « nome. ■ . formato dalla voce latina os , e
dalla greca Theos, corrisponde a maraviglia al significato di Caradeu »,
'^ Op. cit., pp. 48 e 50. Il Capasso conobbe solo il II dei Docum.
pubblicati da me, e quello in n. 2 a p. su. Il primo l'ebbe da A. Ger-
vasio, che l'aveva già comunicato al Melzi, Dision. di opere anonime e
pseudonime, I, p. 176; ma il Melzi ed il Gervasio credevano che il
Garectus di quel docum., piuttosto che cognome, fosse «nome di uffi-
cio presso la real persona». Il Capasso fu il primo a dimostrare che
INTRODUZIONE XVII
ma era leggermente latinizzata. I documenti ce la pre-
sentano, invece, un po' modificata, trascritta anche in
diverse maniere, ma, sempre, un po' più alia spagnuola,
e congiunta, fortunatamente, al nome Benedetto. Or,
tra le forme Garrett, GarretJi, Garret, Garet, Garetho,
Gareth ', ho preferita l'ultima, più vicina al Garetus
•di una ricevuta scritta, manti propria, dal Chariteo ^,
e avente 1'// di due altre di quelle trascrizioni.
era invece tin vero cognome; anche contro il Tafuri (Op. cit- , p-
XIV, n.); il quale, trovando sotto i diplomi aragonesi la firma Chari-
teus , ritenne che questo era «il suo casato», perché «se diverso, o
finto fosse stato cotal suo cognome » , non si sarebbe trovato « in
carte di pubblica autorità ». — Col Capasso, Minieri Riccio, p, 321, n.
j ; Tallarigo, G- Fontano (Napoli, 1874), P. I, p. 134; D'Ancona,
Seceut., p. 176; CiAVARELLi, pp. 13-14; Gaspary, Die ital. Lit. , II,
pp. 301, 330, — ma nella trad. ital. voi. II, P. I, p. 280, 306, ha già Be-
nedetto Garret (?), senz'altro ; certamente dal Giorn. stor. d. leu. ital.,
XV, p. 328; — ed altri.
1 Nei docum. trovo: Caritei Garreth catalani {Esecut. della Somm.
voi. 9 , f . 11); Domino Cariteo Garet secretarlo.. . Domino Ca-
riteo Garret {Curiae della Somm., voi. 25, ff. 35 v e 57 r); Bene-
decto Garret , dito Cariteo {Ced. di tesor., voi. 134; f. 100 v); Be-
nedicto Garect noìninato Cariteo. . . Benedicto Cariteo . . . Caritey
Garetj... lìfnedicto Garret dieta Cariteo... Caritey Gareth... Bene-
dicto Garetho diclo Caritheo; Charitlieo Garrett {Sigili. deWa. Som-
mar., voli. 33, f. Ili v; 37 ; 40, f. 70; 45, f. 137); Tutti i brani ri-
guardanti il nome e coguome vedili raccolti nel I dei Docum. Il march.
L. Geremia {Il figlio del Poìitano, il nome del Cariteo ecc., in Lega
del bene, a. IH , n." 43 ), fin dal 1888, pubblicando solo i nn. iv e
vili di quel docum., aveva fatto conoscere il nome del n., e accetta-
to, |)el cognome, anche la forma Gareth. — Questo cognome non era
raro in Barcellona: una Margherita Garret, scrittrice religiosa, vi-
veva nel convento di Santa Isabella di quella città, sulla fine del cin-
quecento (ToRRKs Amat, p. 274). É noto poi il poeta portoghese Giov.
Batt. de A Imeida Garrett ( v. Th. Braga, Curso de hist. da litt.por-
tugueza , Lisbona , p. 378 sgg. ).
• In un foglio volante, nel voi. 37 Sigili.: « Ego Chariteus Gare-
tu.s . . . Chariteus manie propria » ; pubblicato per intero dal Gere-
mia, l. e., e nel n. iv del I dei Docum.
XVIII INTRODUZIONE
Barcellona — lo dice Ini stesso, — fu il « dolce luogo
dove nacque > '; pare, verso il 1450: perché, dopo il
i^oi '^, scrivendo la Metltamorphosi , si diceva « non
ancor vecchio », e « ne la grave età», dopo il 1503 e
qualche anno prima del 1509, quando componeva la
Pascila^: vale a dire che, nel primo decennio del se-
colo XVI, egli doveva essere tra i cinquanta ed i ses-
sant'anni.
In patria dovette restare ed aversi completa l'educa-
zione classica, sino a tutta l'adolescenza. Perché, quan-
d'egli, quasi vecchio , ritorna col pensiero al fiume, al
monte dell' «alta, avita, prima patria sua» *; ei li ri-
* Son. IV, 4 — Dice chiaramente Barcellona (o Barcino) sua patria ,
nei sonn. V, 14., CCXIV, 9; vi accenna, ricordando il LIobregat ed
il Monjuich ( V. la n. i a p. xix ) , nei sonn. IV , 7-9 , CGVII , 2-3 ,
nella canz. XX, 6, io, nella Pascha I , 46-47. E quindi inutile citar
qui il « Chariteo bifolco, venuto da la fructifera Hispania » e il pastore
(i Barcinio » del Sannazaro {Arcadia, ediz. Sclierilio, Torino, 1888,
pp. 22, 290). — Il dubbio del Tiraboschi (Op. cit. , t. VI, p. 1261 ), e del
GiNGUENE (0/3. cit.. Ili, 548), l'asserzione del De Sarno [Fontani
vita, Napoli, 17Ó1, p. 20), che lo fa napoletano; l'incertezza del Na-
poli SiONORELLi {Vicende, III, p. 462), e di altri, mostrano solo ch'essi
non conoscevano le rime del n.
' I, 113-114:
... in summa in vecchio,
non vecchio ancor, del tutto mi conversi.
E allora si trovò {Ib., 106 e 108) anche mutato
da biondo in bianco il pelo...
e
da giovenii pensier libero e sciolto.
3 I, 1-4:
lo son colui che, nel fiorente aprile
de mia fugace e vaga primavera,
cantai d'Amor, con dolce lira umile;
or, ne la grave età...
* Sonn. IV, 5; CLXXII, 13; CXCII , i; canz. XX , 9 ; Pascha, I,
38 ecc.
INTRODUZIONE XIX
corda coH'affetto e col desiderio di chi v'abbia tra-
scorsi, non gli anni inconscii dell'infanzia, ma quelli,
pieni di sogni, della prima giovinezza. — Egli rivedeva
allora il suo Llobregat scorrere tortuosamente fra rosse
collinette, coperte d'ulivi, eoo le sue acque giallastre
sino al mare; e il roccioso Monjuich cadere quasi a
picco, dalla parte del mare, e scendere dolcemente a
pojigi e valloncelli, verso la città '. Presso quel fiume fu
nutrito — egli dice in un sonetto, — dal « latteo petto
delle Muse » '\ studiando i poeti greci e latini: né que-
sto era studio da potersi compiere molto prima dei
vent'anni: cioè verso il 1470, Ora, poiché ia quest'i-
stesso sonetto, scritto durante la sua dimora in Koma, —
che, fu, come vedremo, tra l'agosto 1501 ed il maggio
1503, — egli dice di esser stato in Napoli treutacinque
anui^; si può quasi dar per certo ch'egli lasciasse Bar-
cellona, e, attraversato l'azzurro Tirreno *, ponesse il
piede sul lido napoletano, tra il 1467 e il G8.
* Il Llobregat ed il Monjuich son chiamati dal n., dai lor nomi la-
tini, Rubricatiis e Mons Jovis: il « purpureo fiume » (son. IV, 9), il
« roseo Rubricato » (canz. XX, 6, e son. CCVII, 3) e « vermiglio fiu-
me » {Pascha, I, 46-47); e il « sacro, santo monte di Giove » (son.
IV, 7, canz. XX, io, Pascha, I, 46). —r Ciò che ne dico, è tolto da
una descrizione che me ne fece Tamico B. Croce, visitando, nel 1889,
quei luoghi.
» Son. CCVII, 2-4:
... quand' io fui nato
presso il sonante roseo Rubricato,
mi nutrio de le Muse il latteo petto.
3 Son. cit., 5-6:
Napol mi tenne poi nel bel ricetto
sette lustri.
* Nella canz. X, 71-72:
il lito
del bel Tirreno mar, tranquillo e cheto.
XX INTRODUZIONE
Il giovinetto, biondo', gentile, cólto, e, per giunta,
catalano , cioè compatriotta degli Aragonesi , non do-
vette aspettar molto per esser ben accolto nella corte
reale e nel circolo dei letterati dei Fontano. E nell' una
e nell'altro lo troviamo di già fin dal 1482; quando, di-
rigendo il suo son. XCI ad Alfonso d'Avalos, marchese
dì Pescara, che era col duca di Calabria, allora capitan
generale della lega contro i Veneziani, molto lontano
da Napoli; chiama « comune signore » del D'Avalos e
suo, Ferrandiuo , principe di Capua; e chiede notizie
di Andrea Matteo Acquaviva, di Gabriele Altilio e dei
Sannazaro: tutti, com'è noto, accademici pontaniani '-.
Ma solo dopo la rovina di Antonello de Petruciis e
dei figliuoli, incomincia, per dir così, la vita pubblica
del nostro^. Il 18 agosto i486, cioè cinque giorni dopo
l'arresto dei congiurati *, lo troviamo di già «conser-
vatore del regio sigillo grande», 0, per dirla nei la-
tino della ca^ncelìevia,, perceplor jurium regii sigilli ma-
gni \ Questo ufficio era stato tenuto, pare fin quasi al
^ Nella Metliam. I, 105 (cfr. w. 2 , p. xviii) , per la ricordata sua
trasformazione in vecchio , 1 suoi peli di biondi divengon bianchi.
2 V. le nn. a quel son.
3 II n. non accennò mai , fuorché nel son. CU , copertamente , alla
seconda congiura dei baroni , né mai ricordò nelle rime , finché re-
gnaron gli Aragonesi , alcuno dei congiurati ; e nemmeno il povero
Giovanni Antonio de Petruciis , che , dal « forno della torre di San
Vincenzo », in un pietoso son. (riferito in seguito), lo chiamava « Cha-
riteo mio». Molti di essi celebrò, invece, nella Pascila, scritta, dopo il
1503, quando dei principi aragonesi viveva solo il primogenito di don
Federigo, prigione in Ispagna.
* Il 13 agosto: V. Passaro, Giornali, Napoli, 1785, p. 46; Notar
Giacomo, Cronica, Napoli, 1845, p. 159.
5 Ed anche « Chariteo perceptore dele intrate del Sigillo » :
« Magnifìcus Cariteus regius perceptor sigilli magni pendentis apud
Regiam Cancellariam ecc. » (Sigili., voi. 37, f. 151 ecc.). Nel Repert.
Sigili., p. 433: « Libro d'Introito et Esito del Sigillo della regia Can-
cellarla dalTiS d'agosto i486 e fin ad ultimo di Decembre detto », e
INTRODUZIONE XXI
gioruo della sua caduta, da Antonello, e qualche volta
dal suo primogenito Francesco, conte di Carinola*. E
come al De Petruciis, nella carica di segretario di stato
era succeduto il Fontano, sin' allora segretario del duca
di Calabria e della cancelleria del re-; così in quella
di percettore dei dritti del regio sigillo, il Gareth; il
quale, fino allora era stato « familiare » del re e « re-
gio scrivano »: ossia uno dei segretarii minori della can-
celleria « scrivania » regia , come allora solevasi an-
che chiamare la segreteria di stato ^ Tanta stima del
nostro dovevan fare Ferrante I ed il duca di Calabria!
K quella carica doveva esser di non poca importanza e
di non poca fiducia, se il De Petruciis l'aveva riserbata
sotto, a p. 43S : « Chariteo Percettore ». Nel voi. 35 Sigili. : « Restancia
dubia in computum Caritei annorum i486, 1487... » ; ed, ivi stesso,
tre polizze, dell' 8 novembre i486, di Vito e Giovanni Pisanelli e di
Giovanni Longo a « messer Chariteo conservatore del regio sigillo
grande », per danaro ricevuto nella loro « andata in Puglia, appresso
lo signor Fontano secretarlo della Maestà del Signor Re ». — La no-
mina originale del Ch. a percettore manca: ma v. il I e II dei Docum.
1 Nel Repert. Sigili, (p. 39), Antonello de Petruciis è ricordato
come « Perceptore delli Introyti del magno siggillo » , dal 1438 al
1482 (dall' 86 all' 87 mancano i registri). Intanto, con la data di
maggio 1480 (Sigili., voli. 33; 34, f. 163): «Per lo signore France-
sco de Petruciis so' state consignate le chiave del sigillo ad Anto-
nello de Aversa » : e : « Per lo signore Messer Francesco de Petru-
ciis per commandamento del signore secretano suo patre me foro
consignate le chiave. del sigillo del consiglio ».
2 Secondo il Tallariqo (P. I, p. 243) ed altri (Arch. stor. camp.
I , f." 2 , p. 82), il Pontano non prima del 15 febbrajo 87 successe al De
Petruciis, decaduto l'ii agosto 86. Ora, perché nel Libro d'introito
( 18 agosto 86), cit. nella m. 5 a p. xx, si trova a p. 438, in primo
luogo : « Al Signor Joanni Pontano Secretarlo del Re »; mentre non
compariscon affatto l'abate Rugio e Giovanni de Cunto che firmano
gli atti dall'agosto 86 al febbraio 87? Il Pontano non era a Napoli
negli ultimi mesi deir86 (v. la n. cit.); e quindi quei due segretarii
regii, non di stato, ne dovean far le veci.
3 Nel III dei Docum. (1494) : « Nobilis et egregius vir Cariteus Gare-
ctus Scriba et familiaris noster dilectus ».
XXIl INTRODUZIONE
sempre per sé. Per questo ufficio egli aveva una « pro-
visione de onze dudece lo anno » , ossia ya ducati ; che fu
sempre solito di prendere in tre rate, di 24 due. ognuna'.
Il percettore del regio sigillo doveva risiedere, na-
turalmente, presso il segretario di stato, che allora
era il Fontano. Ora tutti i primi ministri degli Arago-
nesi ebbero quasi sempre la segreteria in casa loro, per
disbrigar più sollecitamente e comodamente i loro af-
fari. Di modo che il Gareth dovette passar tutti que-
sti anni, prima e dopo il i486, «in la nova Cancelleria
fabricata in casa del Fontano secretarlo del Signore
Re»'; e perciò, forse, l'abitazione del nostro era, co-
me vedremo, molto vicina a quella di Gioviano^. Ivi il
Gareth stava, giornalmente, in compagnia di quel Gio-
vanni Fardo, tante volte ricordato dal nostro nelle ri-
me: anch'esso spagnuolo e poutaniano, e che, come
« doctus licteris grecis et latinis», doveva occuparsi a
comporre le lettere regie ''; e di Gerolamo e Fabio Lo-
* Ecco la nota del primo pagamento rimastoci : « Chariteo per-
CEPTORi. — Ultimo aprilis 1487 : Per una terza de la provisione ad
ragione de onze dudece lo anno: ducati vintiquactro. — Ultimo au-
gusti: Per una terza; ducati vintiquactro. — Ultimo decembris: Per
l'ultima terza: ducati vintiquactro » (Sigili., voi. 33, f. 116 r; e cosi
nei voli. 37, f. i2q; 38, f. 91; 39, f. 97 ; 40, f. 83). — EuellI dei Docum. :
« et dudici onze che ipso Chariteo se ha retenute per l'oltìtio de la
Preceptoria del nostro grande regio Sigillo, che ipso exercita » (1491).
2 Cosi nella nota delle « Despese facte » per quella fabbrica « co-
minciata ali XV de novembre 1487 » (Sigili, voli. 35, f. 151 ; 37, 1".
130 v). L'istesso fecero il Gareth (v. la n. 3 a p. xxx ) , e il Pisa-
nelli {Sigili., voi. 44, f. 168 v), quando furon creati segretarii dista-
to. — Nel marzo 1493, per «la moria in Napoli» la «Caucellaria... le'
residentia in Aversa » (Sigili. , voi. 40, f. 106 : cfr. Passaro , p. 56).—
Ecco ora un bigliettino del segretario al percettore , di quelT anno
(1493): «Domine Charitee, exequate la voluntk del Signor Re. Ioauni
Fontano » {Sigili., voi. 40, f. 70).
3 La casa del Fontano era nella strada tuttora detta Purgatorio
ad Arco , e quella del n. nel vicolo ora detto della Pietrasanta : v.
a p. LI.
* « Messer Joan Pardo el quale serve in Cancellaria & è homo do-
INTRODUZIONE XXMI
pis, padre e figlio, che ebbero , 1' un dopo l'altro, 1' uf-
ficio di « tassatori » * : per la morte di quest'ultimo,
molto stimato dal Fontano e forse accademico anche
lui, il nostro, in un sonetto al figliuolo di lui, Camillo,
confesserà poi di aver pianto « lagrime di sangue » '^
Il Gareth mantenne quest'ufficio per dieci anni: cioè
sino al principio del regno di don Federigo (1496) ', Fer-
rante I veramente, nell'agosto i486, gli aveva concessa
quella carica «ad eius vite decursum»^ Alfonso II, dopo
pochi mesi dalla morte del padre, con un privilegio del
20 settembre 94 , avendo « respectum ad grata pluri-
mum fructuosa, accepta et fidelia servitia per ipsum
Chariteum predicto serenissimo Kegi , genitori nostro
cto in greco et ia latino : previsione de cento cinquanta ducali » {Si-
gili-, voi. 33 ; 23 marzo 1487).
* « Hyeronimo Lopiz , taxatore » dall'Si al luglio 91; quando, « ob
mortem quondam Hyeronimi Lopis, patri», fu conceduto a « Fabio
fìlio, ad eius vitae decursum officium tasatoris omnium licterarum et
privilegiorum emanantium a Regia Curia, cum provisione »; nel 94 ri-
confermatogli da Alfonso II {Privil. della Cane, voi. 5, f. 135). Nel
98 occupava ancora il suo ufficio (Repert. Sigili., p. 438; Sigili , voli.
44, f. 158; 47).
» V. le mi. al son. CXCVII.
3 Ci rimangono solo 7 registri d' introiti ed esiti del gran sigillo ,
durante il tempo che il n. fu percettore II primo (Sigili., voi. 35) ,
ha questo titolo : « Computum Caritei Regii detentoris juriura Sigilli
Magni a primo januario 1487 per totum mensem decembris dicti an-
ni ». E poi i voli. 37 (1490), 38 (149!), 39 (1492), 40 (1493). 41 e 42
(1495-96). — Nelle Ced. di tesar., voi. 134, f 100 v. quest'unico ricordo,
con la data del 3 novembre 1489: « Da Benedecto Garret, dito Ca-
nteo, perceptore deli denari se exigeno del Sigillo grande dela can-
cellaria : ducati tricento vintitrè , tari due et grana cinque: per lo-
banco de Francesco Palmeri. Disse sonno per cuncto de li denari
sonno pervenuti in sue mano del dicto Sigillo : d. ccc.xxx.in ; t. ii ;
gr. V». Anche del tempo ch'egli era percettore (1489-1492) ci restano
quattro ricevute del Ch., firmate manu propria, per notar Benvenuto de
Luca di Andria, percettore del piccolo sigillo presso il viceré del Prin-
cipato Citra; e tre, poi di Pascasio Diaz Garlon, di G. Antonio Candi-
da e di un Marchisino , per il poeta (v. i nn. i e v del I dei Docum.).
* Dal III dei DocuM. ; ma cfr. anche il II, dei 15 ott. 91.
XXIV INTKODUZIONE
et domino colendissimo memorie recolende , nobisque
prestila et impensa, queve prestai ad presens et pre-
stiturum de celerò speramns de bono semper in melius
continuatione laudabili»; gli riconfermava r« offici iim
perceptorie iurium et introytum magni . . . pendentis si-
gilli ac etiam parvi ', cum annua provisione unciarum
duodecim, consequendarum et retineudarum per eum
ex pecuniis et iuribus dicti magni sigilli, ac cum lucris,
emolumentis et obventionibus solitis et consuetis ad
dictum perceptorie officium spectantibus et pertinenti-
bus» ^ Gliela mantenne, insieme all'altra di suo segre-
tario di stato, Perrandino, durante il breve esilio ed il
breve regno ^; e pure don Federigo, nei primi mesi del
suo, come si rileva da questa noterella del percettore
che successe al nostro: «Dice haverse retenuto messer
Caritheo per la sua provisione de mesate tre , videlicet
dal primo de novembre 1496 fino a l'ultimo de Jennaro
1 Nei docum. fiao a quest'epoca (1494) il Chariteo è detto sempre
« perceptor sigilli magni ». Ma neil'Sy: « Angelo Cypha perceptore del
Sigillo piccolo residente in lo Sacro Consiglio » ( Sigili. , voi. 35 , f.
96); nel 91 e nel 93 si ricorda un «Ippolito Fontano percettore del
sigillo piccolo residente in Cancelleria», e, sotto Y Introytus Sigilli
Parvi: «Ippolito Fontano _pe*ieò' Secretariuni)) : allor Gioviano (Sigili.,
voli, 38, f, 81 ; 40, f. 52; Reperì. Sigili., p. 487). Su questo Ippoli-
to, V. Ardi. stor. nap., XIV, 784-785; e Arch. stor. camp. ,\ , f.» 2,
pp. 101-102.
2 Dal III dei Docu.vi.
3 Di questo tempo sono anche queste due nolerelle (Sigili., voi. 41, ff.
48 67 V ; ripetute nel voi. 42, f. 53): «Spese facte per lo perceptore
durante la ahsencia del Signor Re Ferrante secundo dal Regno : in
Isola et Sicilia. — Dice el dicto perceptoi-e bavere despiso per lo bi-
sogno dela Cancellaria durante la predicta absencia in Iscla et Sici-
lia ; tanto per carte pecorine et de papiro, per cera et calende, corno
per altro bisogno dela dieta Cancellaria: in tucto docate xixxvi, tari
mi ». « Perceptori. Havese retenuto messer Chariteo, conio perceptore
del Sigillo ducati cento trenta dui , che so' per la sua provisione de
XXII mesate, ad rasone de ducati sei el mese: videlicet dal mese de
Jennaro 1495 fin a l'ultimo d'octobre 1496».
INTKODUZIONK XXV
1497: ducati deceocto » '. Il uuovo « perceptore dele in-
trate del sigillo grande pendente del Signor Ee, da li
XYlili. de (lecombro . . . 1496», fu Giovanni Pisanelli ,
«commendatario dell'abazia della canonica d'Amalfi » ",
e fratello di quel Vito, che era allora segretario di stato
di don Federigo.
Quando Ferrante II, il 21 febbraio 1495, vedendosi
tradito da tutti, distrutto l'arsenale, le stalle e le case
suo, affidato al marchese di Pescara il Castel Nuovo,
partiva cou la sua flotta da Napoli, abbandonando la
città ai Francesi, vincitori, e ripetendo le parole di Da-
vid: « Nisi Dominus cu'^todierit civitatem, frustra vigi-
lai qui custodit eam » ^; egli aveva al fianco, come suo
primo ministro. Benedetto Gareth. Il Fontano, che Fer-
randino, salendo al trono poche settimane prima (4 feb-
braio) aveva trovato e mantenuto segretario di stato;
forse « per timor di perdere i suoi poderi » di Napoli ,
non aveva voluto seguir nell'esilio il povero re.
Questa nomina del Gareth a primo ministro, Ferran-
dino l'aveva dovuta fare l'istesso giorno della partenza,
« quando la sera fecero vela e andaro a Procida » *.
^ Sigiti., voi- 42, f. 129 V.
' Sigili., voi. 44, f. 162. — Il voi. 43 ha questo titolo :« Inlroitus Sc
Exitus Regii Magni Pendentis Sigilli anni Prime Inditiouis H97 &
1498 per perceptorem Ioaniiem Pisaneliiun ». Ed al 1'. 156 v, con la data
del 14 agosto 98: ccDominum Caritheum precessorein percei)lorem di-
cti sigilli»; e al f 157 r: «messer Caritheo olim perceptore del regio
sigillo». E cosi anche nel V dei Docum. (v. anche a p. xxxiv), del
13 dee. 98; quando don Federigo ordinava di «fare spedire li canti dati
per Cariteo in questa Regia Camera, continenti lo introito ed esito dello
nostro sigillo pendente» — Per G. Pisanelli v. Com. della Cane, voi.
IO, f. 154 (i497)-
3 Dblaborde, L'expédition de Charles Vili en Italie, Paris, Di-
dot, 1888, p. 559. — y.Psalmi (in Vetus 7Vst. , Parigi , Didot, 1878,
voi. II ), cxxvt , 1.
* Passaro, p. 68: e cfr. Notar Gtacomo, p. 1S7.
XXVI INTRODUZIONE
Da quell'isola appunto, otto giorni dopo, il 28 febbraio
partiva una credenziale di Ferrandiuo a Lodovico Sforza
per Loisio Kipol, con questa sottoscrizione: Ex nostra
felicissima classe prope Frocidani ultimo februarii 1495 :
Chariteus ^ D'allora in poi tutte le lettere e le carte
di Ferrandiuo; e nell'esilio, in Precida, in Ischia, in
Sicilia, in Calabria, e durante i venti mesi del suo re-
gno, in Napoli; hanno a piedi, in latino, il nome ac-
* A. GERVASio.sur un esemplare del De Sarno, Pont, vita (bibl.
dei Gerolamini, di Napoli), alle parole (p. 56): «quod [Regnum] cura
iterum recuperasset Ferdinaiidus junior, studio in Joviauum ad invi-
diam converso , a quovis munere dejecit , in cujus locum Chariteum
suffectus est » ; annotò : « Il char. fsicj signor Mazzucchelli con sua
lettera da Milano 14. Decembre 1812, rispetto al Cariteo, mi fa av-
vertire, tra l'altro, quanto segue: « Io vidi una sua soscrizione origi-
nale in calce ad una Lettera di Ferrante Juniore , in cui sta espresso
il solo nome Chariteus. Essa è diretta al nostro duca LuJovico Sforza
da quel Re fuggitivo , che vi segnò la data : Ex nostra felicissima
classe prope padam (probabilmente Patta") vAtimo februarii 1495.
Da tal lettera eh' è di nessun conto, essendo una semplice credenziale
per certo M. Loisio Ripol , impariamo che il Cariteo aveva seguito
Feri'ante , mentre il Fontano forse, più che per altro, per timor di
perdere i suoi poderi, era rimasto in Napoli. Quindi altresì è da cor-
reggersi quanto asserisce il Sarno alla p. 36, che il Cariteo successe
nella carica occupata prima dal Fontano solamente dopo il ritorno del
suo patrone in Napoli , poiché il veggiamo di già segretario finanche
nella partenza. 11 Muratori, Ann. 3 Ital., ne insegna che tal partenza
segui a' 21 Febbraio 1495, e la lettera, da me veduta colla firma del
Cariteo, è, come dissi, de' 28 dello stesso mese ed anno ». Questa no-
tizia manca nella biografia che del n. scrisse Giovau Maria Mazzuchelli
(v. n. 1 a p. xn); morto nel 1768. Il corrispondente del (ìervasio, co-
me si rileva da'mss. di quest' ultimo, è l'abate Pietro Mazzucchelli,
che pubblicò le Lettere ed altre prose di T. Tasso, Milano, 1822.
Egli lesse certamente padani l'abbreviatura padam: che, dai 21 ai 28
febbraio 1495, Ferrandino era appunto a Precida: v. Notar Giaco.mo,
p. 187, e Passaro, p. 68; il quale aggiunge (p. 69): u In questo giorno
38 di febraro 1495 -quando fu spedita la «credenziale » pel Ripol.; sul
quale v. Sanudo, Sped., di Carlo Vili, Venezia, 1883, pp. 331 , 333,
573 1 639; -lo signore re Ferrante II s'è partuto da Precida, et è an-
dato ad Ischa ».
INTRODUZIONE XXVII
cademico del poeta, o solo o con la solita forinola Do-
minus Brx mandavit milii Ciiakiteo *.
Intanto, com'era pur troppo naturale, una tale dimo-
strazione di fedeltà da parte del nostro verso i suoi Ara-
gonesi, non poteva passare inosservata ai ministri fran-
cesi di Carlo VITI; tanto più quando si venne a sapere
che una si bella azione era stata premiata con la ca-
rica (li primo segretario di stato. E mentre il Fontano
ed il Sannazaro, rimasti a Napoli, non ebbero a sof-
frir nessun danno materiale dalla conquista francese;
il nostro s'ebbe, e subito, confiscati tutti i beni*. Il
1 Molti diplomi e lettere con la firma ilei n. già a stampa. Con :
Rex Ferdinandus Dominus {Rex) mandavit rnihi Chariteo: del 17
luglio 95, al monastero di Moutecassino (Gattola, Ad Hist.ah. cassin.
acces., p. 570); del 20 nov. 95, al capitolo di Brindisi (Caballero, p. 13).
Con : Rex Ferdinandus Charitexts {Secretariv.s) : del 19 febb. 96 (Tu-
TiNi, Orig. e fond. de' Seggi, Napoli, 1644, p. 264); del 22, 27, 31 lu-
glio, del 20 e 21 settembre, del 18 e 29 ottobre da Sarno, sempre del 95
(Sanudo, Sped., pp. 531, 533, 572, 587, 588, 637, 639hdeir8 e 16
aprile 96, da Foggia (SAXUDO,Z)/arn, I, coli. 109-10, 11 2- 13); e quelli
posseduti da Ant. Chiarito (De Sarno, Pont, vita, p. 36, n. 6). Di
altri « tre o quattro » con la sigla A. , interpretata Attilio (v. la n. 1,
p. xvi), assicurò l'esistenza «in una casa antica uapolitana » il Meola
{Op. cit., ms. , f. 13). Dei moltissimi che saranno nell'Archivio, mi son
capitati sott' occhio solo i seguenti, nei registri Privileg. della Somm. :
8 genn. 96, in Sarno (II, 136); 28 mag. , 8 agosto, i sett. ed 8 apr.
95, in Tropea (X, 33, 66, 88, 208); 22 giugno 96, 23 agosto 95 (Vili,
63 V, 214) ; 6 e 17 agosto 93 ( XII , 30-31 ; XVIII , 37 ) ; 24 nov. 95
(LVIII, 158) : tutti col Doìninus Rex mandavit mihi Chariteo Tre let-
tere di Ferrante II {Licter. reg., voi. 8, nn. 842, 846), del decembre 03
e del genn. 96, da Sarno; e tutte le concessioni citate nei voli. 41 e 42 e
qualcuna del 44 Sigili, son firmate Chariteus o Chariteus secretarius.
* Nel fuggir da Napoli , il Gareth ebbe appena il tempo di met-
tere in salvo i suoi libri ed i suoi manoscritti in casa del Summonte;
come si rileva da una lettera di quest'ultimo ad A. Colocci, ripubbli-
cata da noi, per intero, nell'XI dei Doccm. : «Tuct'i libri suoi, fin ad
una minima chartuccia foro per me servati in casa mia, et prima no-
tati , quando lo bon gentilhomo seguio la fuga del suo Re Ferrando
secundo. in la prima invasione di Francesi, .^«6 Carolo Regen.
XXVIII INTRODUZIONE
7 marzo del 95, — appena due settimane dall'entrata
dei Francesi in Napoli ', — Carlo VI II ordinava dal
« castello Capuane civitatis nostre Neapolis » che « om-
nia et qaecumque bona Caritei Garreth catalani, ob no-
toriam rebellionem per ipsum centra nos et statum no-
strum commissam et patratam, seguendo partes Ferdi-
nand! de Aragonia, ostis nostri, olim ubicumque per Ca-
riteum ipsum possessa » , fossero concessi in perpetuo ai
« nobilibus viris Goffredo de la Hala, scutifero, et
Joanni de May, secretario nostro, fidelibus nostris di-
lectis » ; ed ai loro eredi e successori «utriusque sexus,
natis iam et in antea nascituris»: qualunque si fossero
quei beni: «mobilia, stabilia, jocalia, aurum, argen-
tum, nomina debitorum et debita ipsa et quacumque
alia jura et bona ad Cariteum ipsum quomodocumque
spectancia et pertiuencia et que spoetare poterunt, tam
in regno quam in quacumque civitate, castro, loco et
terra, olim per ipsum Cariteum possessa et tenta, tam-
quam res proprias nostras et ad nos legitime et pieno
jure devolutas » ^
Ma, giusto quattro mesi dopo, il 7 luglio. Benedetto
Gareth rientrava trionfalmente in Napoli , al fianco di
Ferrandino, così come 1' abbiam visto nella partenza:
sempre vicino al suo re, a Procida, ad Ischia, in Sicilia ^
in Calabria. 1 Napoletani, stanchi oramai dei Francesi,
partito Carlo Vili già fin dal 20 maggio* con una parte
del suo esercito, rivolevano il loro eroico re giovinetto;
e, il giorno precedente, veduta apparire la sua flotta, di
* A « li 21 di febraro 1493 d' domenica alle 22 liore è intrato in
Napoli lo re Carlo de Pranza » (Passaro, p. 68).
5 V. il IV dei DocuM., finora inedito, nel voi. 9. Esecutor. della Somm.>
fif. I ! - 1 2 V.
^ Era a Messina , negli ultimi d' aprile ed il principio di maggio
(Sipill., voli. 41, f. 1 v; 44, f. 102).
■♦ Notar Giacomo, p. 192; ma il Passaro, p. 72, ha 24.
INTEODUZIONK XXIX
« circa 69 vele», nel golfo di Napoli, inalberaroDo sui
campanile del Carmine la bandiera aragonese, e sona-
rono « ad araie ». Intanto una barca s'allontana dal li-
do : il « Monaco , pescatore de la piazza de lo Merca-
to», va a portar al re la nuova che «la terra era de
Sua Maestà»: e, poco dopo, Ferrandino approda «alla
Magdalena de lo ponte fora Napole ». Ivi una gran
folla di gentiluomini e di popolo si gettavano a terra
per baciargli il piede: il re li abbracciava e li bacia-
va. Montato poi « sopra uno gruosso cavallo nigro ....
cavalcai verso la terra, armato con una corazzina cher-
misina inchiovata d'oro, in mezzo allo marchese de Pe-
scara , da mano destra ; et , da mano sinistra , il Chari-
teo, poeta di quello tempo; et isso con lo stocco nudo
in mano; che molti Napolitani, per andare ad basare la
mano, se feréro, perché lo afferravano lo stocco. E Iti-
era aspettato con gran desiderio; dove entrai per la
porta de lo Mercato, dove stevauo li Pranzisi, lo pren-
cipe de Salierno et altri signuri italiani de la parte
angioina, con grande guardia. Ma li Napulitani, che
accompagnavano lo signore re ne fecero poca stima, et,
come liuni, andavano con le arme in mano ammaz-
zando tutti quelli che contradicevano a lo signore re
Ferrante II. E, vedendo questo, li Franzise .... subito
incomenzaro a fuggire dentro lo Castiello Nuovo et alle
castelle. Dove tutto lo puopolo, e tutte le gente anda-
vano gridando per Napoli: — Ecco, cha Dio ci ha man-
dato lo vero Messia ! — Et incomenzaro a lo andare
incontra a quilli Franzisi , che erano de fora la caval-
laricia, dove stavano tutti armati et a cavallo . . . per
causa, che havevano sentito la terra gridare: Fierro!
Fietro!. Ke Ferrante, voltato a lo Chariteo, sentendo
dire : Fierro! , Fierro! , dicono che le disse: — Ferrum est
qicod amant! — : versi de Jo venale, nella satira » ^
' Dal Passaro, pp, 76-77; corretto su i mss. — Nella frase di Giove-
XXX INTRODUZIONE
E COSÌ tutto il resto del 95 , o a lato di Ferrandino,
nelle scaramucce contro i Francesi , per le vie di Na-
poli; 0, col Sannazaro, presso al suo marchese di Pe-
scara \ nell'assedio del castel della Croce, presso Pizzo -
falcone; sulle cui mura Alfonso d'Avalos, il più fedele
amico e protettore del nostro, cadde, ucciso a tradi-
mento -;o, in fine, a casa sua, dove, sin dal 4 agosto,
era stata fabbricata « la Kegia Cancelleria » ^; e dove
il suo duplice ufficio, di primo ministro e di percettore
del sigillo, dovevan allora continuamente tenerlo occu-
pato. — E restò a Napoli anche l'anno seguente, durante
tutto il tempo che Ferrandino « caminava per il Regno
con il suo esercito cacciando li Francesi » : il re si fa-
ceva accompagnare da « messer Tomaso Regulano » ;
il quale, come il Gareth, l'aveva già seguito in Sicilia,
e si morì poi arcivescovo di Amalfi *.
NALE (Satirae, eJiz. Hermann, Lipsia, 1S62; VI, 112), la stampa ed i
rass. del Passare, eccetto uno (bibl.Naz. di Nap.: s, b, 1), hanno, in luogo
di amant, damnant, che non farebbe dir più a Ferrandino: «essi gridano
/ferro /, perché amano me, nel cui nome c'è la parola ferro ^ì-.'v. il
Vecchioni, nella Dissert. che precede i Giom. del Passare, pp. 104-105 :
ed il Faraglia , Ardi. stor. nap. II, p. 636, n. i ; che ricorda l'epigr.
del Sannazaro, Ad Ferrandum regem (Epigramm., II, ix, in Ope-
ra latine scTÌpta, ex secundis curia J. Brouklmsii ., accedunt . ■ . no-
tae P. Ulamingii, Amsterdam, 1728): « Ex ferro nomen libi... ».
^ Per il n., v. la Metham. II, 118 sgg. ; ed ivi, in n. ai vv. 121-123,
quelli del Sannazaro {Visione nella morte del D'Avalos, vv. 52-
54, 79-81; in Opere volgari, Padova, Cornino, 1723, pp. 407 sgg.).
2 V. la n. ai vv. 1 12-1 18 della Metham. II.
3 « Dinari despisi in la fabrica de la regia Cancellaria in casa de
messer Caritheo : in cuncto del sigillo » {Sigili., voi. 42, f. 56 sgg.).
La nota, che va dal « 4 augusti 1493 » al 1° novembre 96, contiene l;i
spesa della «calze», dei «trabi»; dei « chiovi », delle « petre » , dello
«tabule di castagna e d'abete», di «tre intagli de porta e tre de fi-
nestra»; del (I fabricatore , mastrodascia e intagliatore de le prete»;
d' «uno ingegno per saglire lo rapillo»; per «impiombare la pecto-
rata de le scale»; per «la cancella della Cancelleria», per «reconciare
lo focularo e lo camino de la Cane, quando se ce posse foco »; per una
gran quantità di «tabule veneciane» ecc. ecc.
^ MiNiERi-Riccio, p, 328, n. IO : « Al fol. 257 del processo ilella U-
INTRODUZIONE XXXI
Ed il 24 luglio di quell'anno lo troviamo nel duomo
di Napoli, a « pubblicare », in luogo del re,— che era al-
lora ancor lontano da Napoli, all'assedio di Atella '; —
la lega couchiusasi tra il re d' [nghilterra, T imperator
Massimiliano e Ferrante II. «A dì xxi de luglio 1496,
de iovedì, a le xx bore fo notificato per la cita de Na-
poli , per hanno reale , corno lo Serenissimo re de In-
ghilterra era intrato in lega contro de re de Franza,
et come lo serenissimo Re de' Romani, nomine Maxi-
miano, era facto frate iurato con la Maestà del signore
re Ferrando. Dove, la domenica sequente, decto la
messa in la mayore ecclesia de Napoli, presente mes-
sere Caritheo, secretano della predicta Maestà, per
quillo fo publicata dieta lega. Et la sera foro fatte le
luminarie » \
Quando, in quest' istess'anno, il marchese di Manto-
va, Giovau Francesco Gonzaga, verso i primi d'aprile,
venne a Napoli, «mandato dalla signoria di Venetia in
favore» di Ferrandino, con 400 uomini d' arme altret-
tanti stradioti, e 300 fanti ^; il Gareth stette, come se-
gretario del re, « apresso il marchese » ; e, quando que-
niversità di Apice con Gio. Angelo e Claudio Pisanelli nel S. R. C,
in banca di Vincenzo Borrelli , nel 1552, il reverendo Berardino de
Franco, di Napoli, cancelliere di Ferrante II,... testimone, depose che
« conobbe molto bene messer Tomaso Regulano, quale serviva detto
Re per Secretarlo, perchè Carideo, secretarlo ordinario, restò in Na-
poli, et detto Re caminava per il Regno con il suo esercito, cacciando
li francesi ; e detto messer Tomaso Regulano era huomo onorato et
andò in Sicilia ... e ritornò con detto Re, et era di gran credito ap-
presso il Re predetto; e detto messer Tomaso morse in Roma in mano
di eSso testimonio; e era arcivescovo d'Amalfi, quando morse ». Sotto
una lettera di Ferrandino ( Sanudo , Diarii , I, coli. 128-29): «. R'x
Ferdinandus : Tho. Regulanus , pr.° secrP •». Il Regulano è ricor-
dato nei Sigili, voli. 41, f. 68; 44, f. 102: v. anche Arditi, Op. cit.,
p. 198.
1 Sanudo, Diarii, I, col. 245 ecc.
"^ Notar Giacomo, pp. 206-207.
3 Passaro, p. 95.
XXXII INTKODUZIONE
sti si recò in Puglia a riunire le sue alle forze di Fer-
rante II, il nostro, forse, v'andò anche lui per «tener
bene accompagnato il prefato illustrissimo signor mar-
chese» '.
* Tutto ciò si rileva da due lettere di Ferrandiuo - (Foggia, 16 a-
prile) : la seconda diretta al n. - presso il Sanudo {Diarii, I, coli. 105-
109): I. « Copia di un'altra lettera dire Ferratido al prefato mar-
chese di Mantoa. — Illustrissime Marchio , cugnate et frater carissi-
me. — Per lettere dii magnifico Chariteo nostro secretarlo, haverao in-
teso con quanta soiicitudine et presteza la signoria vostra vience ad
trovare, et come a li 14 dil presente era già arivata a la Grota Me-
narda , che ne haverao havuto grandissimo piacer , et ne pare omui
hora mille anni di vederla et abrazarla. Et perchè rispondemo al
prefato nostro secretarlo distesamente dil parer nostro circa lo ve-
nire di vostra signoria, non diremo altro ad questa parte, remeten-
done ad la relatione sua... — II. Copia di la lettera di re Ferando,
scripta a Chariteo suo secretarlo era apresso il ìnarchexe... Secre-
tano nostro dilectissimo. Havemo havuto la vostra lettera de 14 , et
con grandissimo piacer inteso che lo illustrissimo signor marchexe
sia arivato in la Grota, et se advicina con tanta presteza ad noi. Ren-
gratiarete la signoria sua da nostra parte quanto più porete, et lo
confortarete ad venirsene con tute le gente ad Asculi et li fermarse,
ateso che li inimici sono allogiati qui vicino ad tre miglia, et credimo
seguirano lo camino Ihoro di andar ad readunare et ricoperare la
dohana. Et porla essere iacessero pensiero voltar la via de là per So-
tocandela, et però seria molto ad proposito che sua signoria si trove
ad Asculi , in dove haveriamo da fare testa grossa per rompere dieta
doana a li inimici, quando faceseno tal disegno, Tuta volta, teneremo
advisata la sua signoria di passo in passo de tuti i motivi Tarano di-
cti inimici, secondo loro anderano. Cussi ne porimo governar, et que-
sto è lo parere nostro fin qua, lìenchè el desiderio è grandissimo che
havemo di vedere lo prefato signor marchete, et ne pare omni hora
mille anni fin che lo abraciamo. Gran piacere havirao havuto de la
demostratione che '1 prefato signor marchese ha fatto in Apice , né
se posseva aspectar altro de la sua signoria, excepto cose magnanime
et generose , -maxime per lo benefìcio et stato nostro , et honore de
la illustrissima Signoria de Venetia. Rengratiaretene la illustre si-
gnoria sua da nostra parte per mile volte , et ne tonerete avisati de
passo in passo de tutti li progressi de sua signoria. Del venire vo-
stro qua , maxime in com^pagnia del prefato illustrissimo signor
marchexe, havemo havuto gran piacere, et cussi ve con foriamo ad
INTKODUZIONK XXXllI
Ma prima che fluisse quell'anno, un gran dolore, il
più grande l'orse della sua vita, l'attendeva. Quasi un
anno dopo ch'era morto il marchese di Pescara, il 7 ot-
tobre, quando la fortuna cominciava tìnalraeute ad ar-
ridergli, moriva Ferrandino, a ventisett'anni ! E se vo-
gliam credere a uno storico spaglinolo, il Chariteo , an-
che negli ultimi momenti, era al fianco al suo re; e fu
proprio lui che avvertì della disgrazia il principe don
Federigo, a cui, per dritto, spettava il trono '.—Con la
data dell' 1 1 di quel mese, c'è, sur un registro dell'Ar-
chivio di Napoli, questa malinconica nota: «.... libe-
rato per tre gramaglie: zo è per \o perceptore , creden-
zero et taxatore del sigillo, cumo officiali de Corte, in
la morte del signor re, Ferrante secundo » '.
11 Gareth, dopo la morte del suo re, non perdette im-
perseverar in tenerlo bene acconipagniato et visitato da nostra parte
che ne sera carissimo "d. Ai 23, il Gonzaga s'incontrò con Ferrante
II, (I cou tanto triumpho et piacere, quanto mai fosse visto iu questo
niundo, et strettamente si abbracciaro... » (Passaro, p. 97).
' Sigili., voi. 41, f. 67. — Come segretario è ricordato pure in due
note d'uHiciali della Camera della Sommaria che ricevevano « certani
Euchari quantitatem », ai 22 decembre 93 e ai 19 decembre 96: Do-
mino Cariteo Garet secretarlo: pan. 11 »; « Domino Cariteo Garret,
p. II » (Cuì'iae della Somm. , voi. 25 , ff. 33 , 37). — Ed anche come segre-
tario lo ricorda il contemporaneo Matteo degli Afflitti, nella cccii
delle sue Deciòiones (Napoli , Antonio de Caneto, 1309); «nella qua-
le , trattandosi di un privilegio di Ferdinando II, e varie cose dispu-
tandosi intorno a quello; il Sagro Consiglio reputò monca la pruo-
va di uno de' litiganti , quia non examinari fecit Chariteum secre-
tar ium dicti Regis, per cuiiis manus litterae Regis scribehaìitur n
(Arditi, Op. cit., p. 78).
■^ CuRiTA, Hist. del rey don Hernando el Cathol. , Saragozza,
1610; voi. V, p. idi: «El mismo dia que fallecio [Ferrante II], el
Infante don Fadrique Principe de Altamura su tio , siendo avisado dal
de Chariteo Secretarlo del Rey, se fue al castillo del Ovo, acom[)a-
liado del general della Setioria de Veneeia, y fue nombrado ,
y eligiJo por Rey ».
XXXIV INTRODUZIONE
mediatamente la sua caiica di segretario: la manten-
ue, di fatto, pare, o sino all'ultimo dell'ottobre, come
si rileva dalle ultime note rimasteci dei suoi paga-
menti'; sino all'ultimo del novembre 96: perché il
primo pagamento fatto al suo successore, Vito Pisanelli,
ha la data del primo decembre di (quell'anno "^ Di no-
me, poi , egli restò segretario ancora per un altro po'
di tempo: perché, al primo maggio 97, troviamo tut-
tora registrato: Messer Charitheo secretano del signor
Ee^; e molti diplomi di don Federigo, tra il decembre
96 e l'agosto 97, seguitano ad avere la firma: Cha-
riieus *. E dell'istesso re, con la data -del 13 decembre
1498, abbiamo tuttora una lettera agli «Illustrissimi et
Magnifici Viri » della Camera della Sommaria, in cui si
ordina di « fare expedire li cunti dati dal Chariteo », e
che « li siano . . . admissi tutti li dinari bavera pagati ,
non solamente per le cose pertinente al serviti© del si-
gnor Re don Ferrando nostro nepote de gloriosa memo-
ria; ma etiam tucti quilli che sono stati pagati de poi
la nostra felice successione, tanto per despese et pro-
' Sigili., voi. 41, f. 69 V (e voi. 42, f. 82) : u Domino Cariteo Re-
gio Secretario. Dice el dicto messer Cariteo haverese reieiiuto ia cun-
cto de sua provisioue, corno secretario del Signor Re, per uno anno
ad docate trecento » ; e « per octo mesate: zo è dal primo de marzo
del presente anno 1493 per tucto lo mese de octobro d"i dicto pre-
sente anno, ad rasone de docate trecento lo anno, docate duecento cor-
rente »; e « per uno anno integro: zo è dal primo de novembre de lo
presente anno 1495 P^"^ tucto lo mese de octofro de lo anno 1496, ha-
verse retenuto ad quella rasone docate trecento ».
- Sigili, voi. 44, f. 163 : « Al magnifico messer Vito Pisanello, se-
cretario del Signor Re , incomensando dal primo de dicembre pro-
xime passato 1496 d,
3 V. la n. 2. p. XX.X.V; e Repert. Sigili., p. 533.
* Sigili., voli. 41 (al f. 70: Post obitum Regis Ferdinandi : lo
od. 1496), fl'. 71 r-v, 76 v-77 ; 44 (1496-97), ff'. 47 v, 74, sempre Cha-
riteiis; mentre gli altri diplomi Vitus [Pisanellus]; ed anche Pon-
tanus (voli. 43, f. 62 e 44 , f. i). Il nostro, immediatamente dopo il
Pisanelli, anche nel Repert. Sigili., ff. 533, 599 (1497).
INTRODUZIONE XXXV
visione ordinarie, quanto per provisione pertinente al
ditto Cbariteo, come al secretario della predetta Mae-
stà ... et corno perceptore olini de dicto sigillo » '.
Con le due cariche di segretario e di percettore, te-
nute contemporaneamente sotto Ferrante II, il nostro
metteva insieme una « provisione annua » di 372 duca-
ti ^ Ora don Federigo, con un privilegio del 7 novem-
bre (jC>, firmato in Gaeta, — non si sa so di sua propria
volontà per domanda del poeta: che ai poeti egli vole-
va molto bene: — accresceva quella « provisione annua»
da 372 a 400 ducati ; concedendogliela « sua vita duran-
te ... . per substentatione rei famiiiaris eiusdem » ; e
facendogliela pagare dalle entrate del regio sigillo •*.
* Nel V dei Docum. , piiblilicato per la prima volta dal Vecchioni
nella Dissert. ai Giornali del Passare, p. io6.
2 La « provisione » del percettore era di 6 ducati mensili , quindi
72 annui (v. p. xxii, e la n. i); quella dei segretarii regi, di 300 an-
nui (v. la n. 3, p. xsxiii). E tanto avevano anche avuto il Porcello, il
Panormita, il Pontano.
3 Sigili. , voli. 42, f. 103 v; 44, f. 159: « Charitei Secretarli concessio
ad vitam ducatorura quadrigentorum singulis annis, super introitibus
regii magni Sigilli: taxata nihil quia secretarius (anche nel voi. 41,
f. 87) »; « Chariteo : priìno may 1497. A Messer Charitheo secreta-
rlo del Signor P^e per la sua provisione de una mesata ad ragione de
quactrocento ducati per anno secundo la forma del suo privilegio ».
E sotto a quest'ultimo (e cfr. anche voi. 45, f. 157) « ... In Piegistro
Esequutoriarum Camere Summarie numero primo a f. 224 usque ad
f. 223 registraturn est regiura privilegiura datum in civitate Cayete
70 novembris 1496. Sub anno forma expeJite fuerunt exequutorie diete
regie primo May 1497 Camere in forma: quo quidem privilegio con-
ceditur eidem Charitheo per regiam maestatera annua provisio du-
cat. 400 sua vita durante... ex juribus regii magni Sigilli per substen-
tatione rei famiiiaris eiusdem.. . ». Il privilegio , cui qui si accenna ,
non esiste più nell'Archivio. — In quel!' istess' anno, al 5 giugno , al i
luglio, al 24 agosto: «Al dicto ms. Charitheo per la sua pro-
visione de una mesata per dieta ragione secundo lo dicto suo pri-
vilegio » (/6. , f. 159)- — E nei due anni seguenti {Sigili., voli.
45, f. 157 ; 46 e 47) : « Domino Charitheo ultimo augusti 1498. Ad
ms. Charitheo Garrett tricento et sedece ducati , uno tari et dudece
XXXVI INTRODUZIONE
Ferrante II era morto quando non aveva potuto an-
cora ricompensar bene chi l'aveva amato tanto, chi gli
era stato tanto fedele, chi gli aveva resi tanti servigi!
Il Gareth, percettore del sigillo per dieci anni, e, per
due, segretario di stato, evidentemente, non s'era ar-
ricchito, come Antonello de Petruciis '. I poeti eran
dunque poco fortunati: lo stesso era avvenuto al Fon-
tano con Ferrante I e con Alfonso II ; ed il Sannazaro,
posposto da don Federigo ^ quando divenne re, ad al-
tri cortigiani , fu lui poi che aiutò col suo il povero so-
vrano spodestato ^
Anche durante il 96 , il Gareth aveva occupato altri
due ufficii; ma di essi non posso dar altro che la sem-
plice notizia, quale me la danno i documenti. Al 27 mar-
zo è notato: « Charitel secretarli nofariatus sine ^oie-
state: taxata nihil quia secretarius »; e, altrove: « Cho-
ritei confìrmatio offitii magistratus penes Commissa-
rium asseciirationis vassallormn : taccata nihil quia se-
cretarius » ^
grane, ad complimento de tricento vinte octo ducati, quadro tari et
sedece grani, lo resto per lo alagio; et so' in cuncto de la sua pro-
visione de quattro cento ducati se li paga supra li denari del sigillo
omne anno per ordene del Signor R,e secundo la forma del suo pri-
vilegio : li quali li so' stati pagati in più jornate et partite » : « Do-
mino CMritheo: ultimo Aiigvsti 1499. Liberato al dicto ms. Cari-
teo docate tricento octanta quactro ad complimento de docate quat-
trocento : lo resto per lo alagio » ; e « in alia mano. . . docate sidece
et grana xviii et so' in cuncto de quello ipso dice devere bavere per
la sua provisione de li anni passati » ; ed anche come resto di questa
« eodem die in alia mano, docate cinquanta coi-rente , . .. quale el S.
Re vole li siano pagate secundo Io ordine de Sua Maestà ».
* Cfr. Capasso, p. 39 n. 3,
'^ Giorn. star. d. lett. ital., X, 206.
^ G. B. Caispo, Vita di G. Sannazaro, Roma, Zannetti, 1593, p. 20.
* Sigili., voli. 41, f, 27 (e 42, 1". 31 v): 44, f. 16 (cfr. Repert. Si-
gili, f. 5,15).
IN'TKODUZIONE XXXVIf
Dovett'esser nel 1501, dopo la caduta degli Arago-
uesi e dopo la partenza di dou Federigo per la Francia
(6 settembre), che il Gareth lasciò Napoli e s'andò a
stabilire a Roma '. Tristissimo, nell'abbandonare la «se-
conda patria sua» % in cui era vissuto tanti anni,
invaghito, innamorato
del suo ilolcior divino ^ ;
e Posillipo, e Mergellina, e il Chiatamone, e il Sebeto,
e le colline verdeggianti di cedri e di lauri *; dava un
malinconico addio a quelle belle rive, ai suoi amici na-
poletani, in uno dei suoi più belli sonetti; ad imita-
* Alla sua partenza da Napoli, alia sua dimora in Roma, accenna
egli stesso nelle rime (sonn.CLXXII,CLXXV-VII, CLXXIX, CLXXXVI,
CCVII) : ed il Summonte, nella cit. lett. al Colocci : «... ad tempo che
ipso [Chariteo] fó in Roma». — Quanto all'epoca del viaggio, il Ca-
BALLERO (p. 19), fra !e molte date che gli si presentavan probabili)
non si seppe decidere a sceglierne una: assodo solo- tenendo presente
il son. CLXIII - eh' esso era dovuto avvenire dopo che Lodovico d'A-
ragona fu fatto cardinale (1496 97).
2 Son. CLXXU, j-2, 5-7:
Seconda patria mia , dolce Sirena .
Partenope gentil
con tal dolor ti lascio e con tal pena,
qual, lasso!, io mai soffersi in nulla etade:
a dio, amici! , a dio, dolci contrade! .. .
Le imitazioni dal Sannazaro (Epigr. , III, ix, e son. l.xvu) neWe nn.
a quel son. — Il Meola, al solito, spropositando, dice che questo son.
fu scritto dal Ch. fp. io6, ». i) « forse partendo per seguire in Fran-
cia (come fece) il suo Re Ferdinando II d'Aragona»!! E cosi anche
il ClAVAREM.I, p. 22.
5 Son. CCVII, 6-7.
* Son. CCVI, 12-14:
Pausilipo t'invita e '1 tuo Sebeto,
la Platamonia fresca e Mergellina,
sotto odorati cifri e '1 bel laureto.
XXXVin INTRODPZIONE
zione del celebre epigramma e di un sonetto del San-
nazaro ; che , in quegli stessi giorni , lasciava anche
lui, la sua Mergellina, per seguire il suo re, nell'e-
silio. — Il Gareth , temendo dai nuovi conquistatori
francesi i danni sofferti dai primi, nel 95, quando da
Carlo Vili gli furon confiscati tutti i beni, dovette al-
lontanarsi dalla città, prima che v'entrassero il D'Au-
bigny e le milizie di Luigi XII (4 agosto 1501)'.
A Roma trovò subito nuovi mecenati, nuovi amici,
nuovi accademici , che non gli fecero risentir molto la
perdita dei suoi Aragonesi e dei suoi D' Avalos, la lon-
tananza del Fontano, del Sannazaro e degli altri amici
napoletani. Ivi conobbe il celebre banchiere senese, A-
gostino Chigi, il magnifico protettore di artisti e di let-
terati; a cui egli, poi, diresse un altro dei suoi sonetti :
bello, ancorché parafrasi del Non omnis moriar e di
altri luoghi oraziani , predicenti la propria immortali-
tà; e non poco importante per la biografia del nostro -.
Più intima amicizia strinse con Angelo Colocci, cui poi
diresse pure un sonetto pieno di lodi ^ Il letterato je-
sino, ch'allora s'accingeva a pubblicare le opere di Se-
rafino Aquilano ^, doveva stimar non poco chi dell'A-
quilano era stato e guida e modello; ma come dovette
accrescersi la sua stima, quando il nostro, in una delle
sue visite, parlò a lui, così accanito raccoglitore di ma-
1 Passaro, p. 127; Notar Giacomo, pp. 242-243.
' SoD. CCVII, I, 12: « Augitstin mio... di GvUi Etruschi eterno
onore ».— Sul Chigi v. le nn. a questo son. ; ed, ora, A. Venturi,
La Farnesina, Roma, 1890 (CoUez. Edelweiss).
3 Son. CLXXIX, I, 9: « Colotìo . . . Quand'io te vidi in Roma ».—
Il Colocci era stato a Napoli nel i486 e nel 91 (v. Lancellotti, nelle
Poesie ital. e lat. di m. A. C, Iesi, 1772, p. 11, 12 sgg.); ma pare
che in nessuna delle due volte avesse avvicinato e il Gareth e gli altri
pontaniani (v. Tafuri, Op. cit. , p. Lxxvi, n.).
* Fu pubblicata in Roma, il 5 ottobre 1503,235/- maestro Ioanni
de Besichen.
INTRODUZIONE XX XIX
Descritti proveuzali, di un «libro di Poeti Limosini »,
posseduto da lui; e quando gli mostrò «la traduzione
de le rime di Folchetto di Marsiglia, in un poco di qua-
derno in quarto di loglio »! '. E, per mezzo del Colocci,
dovette conoscere quel Piero de' Pazzi, tiorentino, fra-
tello di Cosimo, arcivescovo di Firenze; e Marco Ca-
vallo, il poeta anconitano celebrato anche dall'Ario-
sto % e cortigiano dei cardinali Alessandro Farnese e
Giuliano Cesariui, giuniore: tutti amici e accademici,
che il Colocci, dopo la morte di Pomponio Leto, ac-
coglieva nella sua casa al Quirinale e nei suoi celebri
orti ; e che il nostro ricordò, poi, con tanto affetto nelle
sue rime ^. — Naturalmente, non ritornò a Napoli pri-
ma che i Francesi non ne fossero partiti : il che av-
venne nel maggio del 1503. Kestò, dunque, in Koma
due anni circa: dalla seconda metà del 1501 alla pri-
ma del 1 303. Ed era certamente in Napoli nel settem-
bre di quest'anno, quando moriva Inico d'Avalos, mar-
chese del Vasto *.
Napoli, allora, dopo la lotta tra Francesi e Spagnuo-
li, era rimasta a Ferdinando il Cattolico; il quale la
lasciava governare dal suo viceré e luogotenente ge-
nerale Consalvo di Cordova, il gran Capitano, il famoso
vincitore dei Mori di Crranata, uno dei più perfetti cor-
tigiani e guerrieri del tempo. 11 Gareth, spagnuolo,
non aveva nulla da temere da un governo di Spagnuo-
li; anzi, per tante importanti cariche occupate sotto
quattro re aragonesi , — che per quanto poco ben visti,
' Dalla cit. lett. dei Summonte. — Del coti, delle rime provenzali
posseduto dal n. e della traduzione di Folchetto, parlo più appresso.
* Ori. Fiir. xi.ii, gì.
3 Nei sonn. CLXXXVI, CLXXV.
■* Nel cant. che scrisse per la morte di questo D'Avalos (vs. 4) :
Io, vicino a Vesevo, or piango e ploro.
XL INTRODUZIONE
eran sempre aragonesi e congiunti di sangue agli Ara-
gonesi spagnuoli , — poteva aspettarsi di non esser del
tutto trascurato. Infatti, poco dopo giunto a Napoli, do-
vett' essere nominato da Consalvo governature del con-
tado di Nola; se, già ai 27 di marzo 1304, il gran Ca-
pitano ordinava all'esattore « de le intrate » di quel con-
tado di «pagare per lo tempo che» il Chariteo «vacò
in dicto governo, così comò se soleva pagare a li altri
governatori soi precessori » \
Ai 5 luglio di queir istess' anno , Cousalvo, trovandosi
in regiis et reyinalibus felicibus castris cantra Caye-
tam, ordina al «mastro portulano de Puglia et Terra
de Bare » di dare « al magnitico et nostro carissimo
Chariteo.... trecento ducati lo anno, ad beneplacito,
sopra le intrate che perveneno in sue mane ; . . . in
excambio de li quactrocento ducati che havea de pro-
visione del Serenissimo Re Federico, ad vita soa, so-
pra lo derictu del segillo grande, et de septanta dui
altri ducati, corno conservatore de dicto sigillo» -. Dun-
que, in luogo dei 472 ducati, concessigli da don Fe-
derigo, per tutta la vita; 300, a beneplacito del gran
Capitano: meglio di niente; ma il povero poeta, alla
line di quell'anno, non aveva ancora ottenuto nulla; e
chi sa , se , in appresso , li ebbe mai ! Ci resta , in latti ,
' V. il VI dei DocuM. finora inedito, nei Privil. della Somm. voi. 14,
f. 68. — La nomina del Ch. a governatore di Nola non l'ho trovata; ma,
di essa e del docum. cit. nella n. seg. , v'è un ricordo nel Bor-
RELLi , A-pparatus ad antiquos cronologos illustrandos (mss. del-
la bibl. Nazion. di Napoli), II, pp. 231-32: « Notamentorum Provi-
sionum Magni Capitanei, lib. prhnus, 1504 : Chariteus h. ind. du-
catos 300 annuos ad beneplacitum, in excambium d. 400, quos habe-
bat a Rege Federico in vitam super dirittibus magni Sigilli et d. 27
prò conservatione d. Sigilli — Idem fit Gubernator Comitatus Noie «.
2 V. il VII dei Docum., finora inedito, nei Privil. della Somm., voi.
14, f. 74.
INTRODUZIONE XLI
un'altra lettera di Consalvo, del i6 ottobre di quell'an-
no, agli ufficiali della Camera della Sommaria, in cui
si diceva che, poiché il « magnifico Caritheo » non aveva
potuto avere i suoi 300 ducati né dalle « intrate del
mastro portulauo de Puglia et de Terra de Bari » . né
dalle «tratte de Calabria et de Puglia», com'egli a-
veva posteriormente ordinato: gli fosser pagati dalle
«intrate de la dohana de lo sale di Napoli per uno
anno tantum ». E gli ufficiali della Sommaria scrisse-
ro, non prima del 23 decembre, agli arrendatori del
fondaco del sale, della città di Napoli, perché l'ordine
del Gran Capitano fos^e eseguito '.
II 20 aprile del i5r2 è l'ultima volta che il nostro è
ricordato negh atti pubblici. In quel giorno egli si pre-
sentava innanzi al notar Teseo Grasso, per dichiarare
che l'Estaurita di San Pietro ad Arco, che stava «a
lato del cortile di Santa Maria Maggiore », aveva il
permesso di «capere aquam e puteo in domibus ipsius
Charitei»; pagando 20 ducati de carlenis'.
Quasi tre anni dopo, il 28 luglio «515, era già morto.
Il Summonte, scrivendo, in quel giorno, una lettera
* V. il vili dei DocuM. , anch'esso inedito, finora, in Parùum della
Somm. , voi. 61, f. 33 r-v.
'■2 Da un docum. trovato e riassunto dal Capasso pp. 48-49 , nel
protocollo di notar Teseo Grasso degli anni r5ii-i2 (Arch. notarile
di Napoli), f. 37Ó r-v: e pubblicato per intero da me nel IX dei Docuxi.
Qui solo i brani più importanti: « Eodem die eiusdem, ibidem [die vice-
simo mensis aprilis... 1512, Neapoli] in nostri presentia constitutis
magnifico Cariteo Garrecta de Neapoli agente ad infrascripta omnia
prò se eiusqne heredibus. et successoribus es una parte: et venerabili
dompno Auibale de Lacu de Neapoli, sindico et procuratori venerabilis
extaurite Sancii Petri de Platea Arcus, constructe et hedificate intus
ecclesiam Sancte Marie Mayoris de Neapoli . . . Cariteus sponte as-
seruit corjun nobis dictam extauritam egisse capere aquam a puteo
ipsius Caritei, sito in domibus dicci Caritei , sitis in platea de lo Da-
XLII INTRODUZIONE
al Colocci, diceva: «lo bon messer Chariteo di felice
memoria ».— Ma, veramente l'epoca della sua morte si
potrebbe anche far risalire a più mesi addietro. In fatti,
nella sua lettera, il Siimmonte ci fa sapere che «la mar-
chesana di Mantua, essendo qua [ a Napoli ] solicitata
non so per qual via » cercasse di vedere il libro de' poeti
provenzali, posseduto dal Chariteo; ma quel manoscritto
aveva, già preso il volo fuori di Napoli: era a Roma:
per mezzo del Summonte, l'aveva comprato Angelo Co-
locci dalla vedova del Chariteo ^ E poiché la marche-
sana di Mantova, Isabella Gonzaga, era stata a Na-
poli dal 2 al 17 decembre del 1514^; vuol dire che in
quel tempo il poeta era già morto.
lil.
Gran parte della sua vita ei l'aveva, dunque, passata
in corte di quattro re aragonesi e del primo dei viceré
spagnuoli : per quasi vent' anni , nei suoi piìi begli anni ,
egli s'era aggirato, familiare del re e scrivano della
regia cancelleria, percettore del grande sigillo e pri-
ctulo regionis sedilis Nidi, civitatis Neapolis.juxta dictam ecclesiam
Sancte Marie Mayoris, viam piiblicani et alios confines; et diclam
aquara a dicto puteo axportasse per aqueductum usque ad puteum cur-
tis (cortile) diete extaurile: prò qua captione aqne dicium procura-
torein solvisse ipsi Cari tee ducatos viginti de carlenis... videiicet due.
duodecim per niauus dicti dompni Anibalis et alios ducatos octo ad com-
piementum diclorum due. viginti per manus doiupni Antouii de Bal-
dantia de Neapoli... » Cfr. anciie gli Ada visit. Cappell. di monsignor
Annibale de Capua, voi. del 1580, f. 892 v; cit. dal Capasso, p. 48.
* Summonte, nella lett. cit.
^ Passaro, p. 313 : « Al li 2 di decembre 15 14 de sabato circa un'hora
di notte intrò iu Napoli la Marchesana di Mantua con molte gente,
... e stette in Napoli quindici giorni ». — Per la Gonzaga il Ch. scrisse
nel 1306, un son., come diremo più appresso.
INTRODUZIONE XLIIl
mo segretario di stato, per le sale di Castelnuovo e di
Castelcapuano , al fiauco di Ferdinando I d'Aragona e
dei suoi figliuoli e nipoti, e di Consalvo Hernandes di
Cordova, duca di Terranova.
Ma più stretta, più intima familiarità ebbe solo con
Alfonso e Ferrandiuo. La sera del 20 agosto 1489 , il
duca di Calabria, convalescente di una febbre terzana
che l'aveva tenuto a letto sin da' primi di quel mese,
fece venire, per suo sollievo, « certe farse, fra le quali
fu Jacobo Sannazaro et Chariteo ; et de ciò l' illustre
signore prese grande recreatione et piacere * ». Alfonso
amava moltissimo i buffoni e u'avea dintorno non po-
chi "; e forse dovev' avere in conto di tali anche i poeti,
se li chiamava, quando aveva bisogno di ridere. — E
vogliamo sperare non per l'istessa cagione, il Sannazaro
ed il Chariteo si sarebber dovuto trovare a Lecce, an-
che insieme, tra il decembre dell'SS ed il gennaio di quel-
ristesso anno 89, nel seguito del duca di Calabria, a
passarvi le feste del Natale e capo d'anno; ma probabil-
* J. Leostello , Effemeridi delle cose fatte per il duca di Cala-
bria {1484-1491), Napoli, De Rubertis, 1S83, p. 251. Nel ms. pa-
riteo (p. Il), corretto giustamente in Cariteo dal Miola; benché fra
i rimatori napoletani del tempo vi sia un cavalier Periteo ( Rimai-
napol. del quattr., Caserta. 1885, p. 141 : cfr. Giorn. star, della
lett ital., Vili, 322). — In un ms., appartenente a B. Capasse ed inti-
tolato: « Perché fu composta, e da chi la canzona solita cantarsi il
capo dell'anno, che comincia « Io te canto in discanto », si dice che
alle nozze di Ferrante II (1496) «il Fontano et Sanazzaro , che ivi
erano, ferno recitare non so quanti di quelli loro glioramari uapolita-
neschi, et Carideo, che Barcinio é chiamato dal San7iazzaro nel-
l'Arcadia , essendo costui secretarlo del Re, fé cantare mille sue
Frottole fatte da lui in lode della sua Luna, di cui egli sotto no-
me d'Endimione era mirabilmente invaghito ». Se questo ms. non
fosse una falsificazione, com'a me pare, si potrebbe asserire che an-
che il 21 agosto 89, il Sannazaro ed il Chariteo dinanzi ad Alfonso,
dicessero delle frottole, dei monologhi, non rappresentassero delle
farse, Cfr. B. Croce, Teatri di Nap., Napoli, 1891, p. 18 e 769.
' Croce, Op. cit., p. 23.
XLIV INTRODUZIONE
mente il Galateo , che li aspettava per far loro gli onori
di casa, li aspettò invano'.
Ben altra stima faceva dei poeti Ferrandino : altra
natura, altro carattere: vero principe del rinascimen-
to, venuto sii in tanta fioritura di classicismo: prode,
cólto, gentile. La sua adolescenza era trascorsa lieta,
— quando il Regno, per l'accorta politica dell'avo,
riposava, almeno apparentemente, — fra libri, armi e
divertimenti. Per poco gli aveva insegnato la poetica
quel Giovan Paolo Parisio, che fu poi il celebre Aulo
Giano Parrasio; ma, in seguito, fin dal 1483, gli fu sem-
pre a lato, come maetro, precettore e segretario, Ga-
briele Altilio, il catulliano poeta e vescovo di Policastro ^.
* In fine d'una epistola del Galateo ali'Altilio (Tafuri, pp. Lxiv-
XLv): « Ego, Diis et Alphonso volentibns, hic in Japygia ohe saturnalia
peragam cum Actio et Chariteo. Bene vale. E Lupiis V. nonas Octo-
bris [3 ott., 1488] »: v. anche La Giapigia e varii opuscoli di Antonio
DE Ferrariis detto il Galateo, Lecce, 1868, nella Coli, di scritt. di.
Terra d'Otranto, I-III), voi. Ili, p. 143. — Per saturnalia ho inteso
le vacanze dei Natale e del capo d'anno; ma quei giorni il duca di Ca-
labria li passò in Napoli e solo nell'aprile 89 lo troviamo a Taranto
(Leostello, Op. cit., pp. 187 sgg., 209).
' Per testimonianza dell'istesso Ch., nei vv. 103-107 della canz. VII,
tutta in lode del principe di Capua:
Le Muse t' han nudrito et educato
ne le braccia lV Altilio, tuoChirone;
e 'n mezzo al sacro fonte d'Elicone
Febo ti die' la dotta lira in dono,
per man del gran Barrhasio ;
che è certamente il Parrasio, il quale occupò ufRcii importanti nella corte
aragonese (1492-97): v. le mi. a' vv. cit. E, citando questi vv., il Ta-
furi , p. XXX : a Ignoro all'atto chi sia il Barrasio : ... vi è stato un Gio.
Marrasio », siciliano che stette a Napoli a tempo di Alfonso I : v. su
di lui il VoiGT, Il risorg. dell'ani, clas., trad. ital., 1888, voi. I, pp.
494-493. — V'era una famiglia Barrasio a Napoli (v. Borrelli, Op. cit,
I, p. 940); e verso la fiue del sec. XV un «Francisco Barrassio regio
consigliere et presidente di Camera» {Repert. Comune; Esecutor.
della Semm. voi. 9, f. 47; Curiae della Soram.; voi. 25); ma non sarà
certamente questi il maestro di poetica di Ferrandino.
INTKODUZIONE XLV
Etliicato da tali maestri, s'intende perché egli amasse
circoudarsi di poeti, egli stesso scrittore di strambotti :
nei momenti piili gravi della sua vita di re, lo sentiamo
ripetere versi di Davide, di Giovenale e del Petrarca '.
•Amava la musica ; e si sa eh' egli détte il suono ad
alcuni versi di Virgilio, che furon poi cantati dalla dol-
ce voce del suo Chariteo^. E amava le giostre, i balli
e le maschere, il giuoco ^: fu, insomma, una delle figure
più beile e simpatiche del suo tempo: i contemporanei,
vivo, lo amarono, lo adorarono; lo piansero e lo rim-
piansero , morto ■*.
Né il nostro doveva esser caro a Ferrandino solo per-
ché poeta: egli possedeva in grado eminente tutte le
doti di un ottimo cortigiano del quattrocento: gli Spa-
gnuoli , com'è noto , eran « maestri della Cortegiania » ^.
Il Summonte lo dice « bon gentilhomo », e « gentile
e raro spirito »; che « si dilectava parlare poeticamen-
te, o vero da Oortesano; in le quali doe l'acuità ipso
era (come ciascun sa) così eminente e singulare » ''. —
E, come ogni buon cortegiano, era anche motteggia-
tore faceto ed arguto. Dei suoi motti e delle sue fa-
' Nella sua corte, oltre l'Altilio ed il Ch. , fu per tre anni (1492-
9.1. ) Seratino Aquilano (v. più appresso). Fu anche in molta intimità
con Bernardo Dovizi da Bibbiena, l'autore della Calandra: cfr. Una
awent. atnor. di Ferdinando d^ Aragona ecc., Bologna, 1862. —
Strambotti di Ferrandino nel cod. riccardiano 2752 (Torraca , Bi-
scus. e ricerche lett. , Livorno, 1888, pp. 122, 124; e a p. 133 uno
stramb. di lui) — Pei versi di Davide e Giovenale , v. p. xxv e xxix; per
q'ielli del Petrarca {Tr. della morte, I, S9-91): v. Passaro, p. 107.
2 P. Cortese, De cardinalatii . 11 : riferito a p. xlix.
•* V. Leostello, pp. 1S6, 266; il voi. 130 delle Ced. di tesov. (1490);
la canz. VII del n., vv. 77-79.
* V., per es., Castiglione, Il cortegiano, ediz. B. di Vesme, Firenze,
1854: pp. 35. n6, 138.
» Castiglione, p. 95.
6 Nella lett. cit. al Colocci.
XLVI INTRODUZIONE
cezie ce ne ha conservati un buon numero il Fontano»
in quella gran raccolta d'aneddoti che è il suo trattato
De Sermone \ Ed eccoli tutti: « Est eiusdem generis nec
* Napoli, per Sigismundum Mayr , «509: "bb. IV, V, ff. e v t'-e
VI r, f VI r-v. — Lodovico Domenichi li volgarizzò e lì inserì nella sua
Historia di detti et fatti notabili di diversi principi et huomini pri-
vati moderni, Venezia, Giolito , 1537, pp. 607-608, 612-613, e Firenze,
1362, p. 47; ma cito da quest'ultima : u In Napoli al tempo della guerra
correva una moneta contrafatta, et falsificata: però dolendosi un gen-
til' huomo, & dicendo ; che egli non sapeva hoggimai più ciò che s'ha-
vesse; il Caritheo persona faceta, con viso molto accomodato alla burla,
disse: sia ringratiato Dio ; che io ho da rallegrarmi assai con la no-
stra amicitia , poiché finalmente ho ritrovato un' huomo , amicissimo
mio, il quale veramente si può chiamar ricco: perchè ricco è colui ,
che non sa ciò che s'habbia » ; e a p. 37 : « Era uno, che lodava molto
i Francesi, i quali havendo con gran prestezza passato l'Alpi & l'A-
pennino , in pochissimi giorni erano entrati in Terra di Lavoro con
grosso esercito a piedi , e a cavallo. Era quivi uno altro , il quale
forse haveva ciò molto per male, ma però lo dissimulava, che disse :
— Assai maggior maraviglia è , che il Re Federigo in cosi pochi dì
di Re si sia fatto marinaro. Perciochè essendo spogliato del Regno,
s'era messo sopra alcune poche galee, & con esse ito in Francia a
trovare il Re Lodovico. In queste genti vi fu una banda assai grossa,
& valorosa di soldati, la qual portava una chiocciola per insegna. Di
questa banda essendoci nuova , come in una quistioue, che s'era fatta
in Roma, n'erano stati tagliali molti a pezzi, & col lor sangue have-
vano insanguinato Campo di Fiore ; disse il Chariteo : che diranno
bora questi Enniani:
Cochleas herbigenas, domiportas, sanguine cassas? ».
Il terzo motto del Ch. riferito dal Fontano, è tradotto solo nella pri-
ma delle due raccolte cit. , a p. 613: « Ragionavasi sotto k loggia del
Fontano dell'uso della fecce del vino, et eh' ella era per ciò con gran
diligenza cerca da mercatanti. V erano di coloro che dicevano , che
di questa cosa u'havea poco in terra di Lavoro, perciochè ella fa vini
debolissimi et molto acerbi. Perchè, disse allhora il Chariteo con quella
sua solita galanteria, et singoiar destrezza d'ingegno; se i mercatanti
cercassero bene ne corpi morti de Francesi, non troverebbono paese
veruno, dove ne fosse maggior doviiia, che quivi ». — Per il motteggio
nel sec. XV, v. anche il Burckhardt, Civil. del .ter. del rinctsc., trad.
ital., Firenze, 1876, I, pp. 216-217.
INTRODUZIONK tLVII
minore quidem gratia, Charitei dictum non incelebre.
Cum enim Neapoli iactaretur numus belli tempore ad-
ulteiata materia, querereturque e notis eius quispiam,
quod nesciret iara quid haberet; tura ilie vultu quam
maxime ad jocum accomraodato: — Est - iwinit - diis im-
ìnortalibiis , quod yratias agam , gratulerque amicitiae
ìwsfrae; tandem cnim Iwminem inveni, et amicum qui'
dem hominem et vere divitem. quando divitis est hóminis,
nescire quid habeat. — .... Ab commemoratione etiam
versus cuiuspiam Celebris , Poetaeque maxime noti ma-
nant tacetiae et argutae et gratae. Consederant mecum
meis prò fori bus idem hic Marinus [Tomacellus] et Pe-
trus Compater , homo iucundissimus , magna senectute
tres, cano capite omnes, uullis deutibus, multis tamen,
ac prope tercentenis aunis. Praeteriens igitur adolescen-
tulus demiratus cum esset tris aunosos vetulos, albentibus
capillis, maxime hilari vultu, et iocari cum praetereun-
tibus et arridere salutantibus, hic Marinus in ipsa illa
adolescentis admiratione tanto cum lepore Vergiliauum
effudit illud:
tercentum alvei tondeut dumeta iuvenci • ;
ut risum non tenuerint, senem qui audierunt, eo in con-
sessu, tam opportune, adeo praeter expectactionem , ac
perque concinne modulantem. Isque confestim risus in-
gemiuatus est, nam derisni cum haberetur a nobis, qui
praeteribat iuvenis, obeso corpore , obesiori ingeiiio ,
maxime obesis moribus, tum a f'estivissimo et perque
concinno iuvene Petro Summoutio et festive admodum
et pervenuste est Vergilianum aliud, quauquam dimi-
diatum e Georgicis:
• . . longatnque trahens inglorius alvum';
* Georgicon (in Opera, ediz. Ribbeck , Lipsia, li
- Georgicon, iv, 94; ove; latamque.
XLVIH INTRODUZIONE
ut protractus risus fuerit in Charitei adventiim, qui a-
iiimadvertens senum trium tam aequalem canitiem : —
Quid, - inquit, - hic ad fores? : an inalgesce.re cupitis?;
ciim Alpes videamus nivihus oppletas undequaque con-
canescere. — — Prosequebatur quidam mirificis Galles
laudibus, summa celeritate Alpes, Apeniiinumque tran-
sgressos paucissimis diebus in Campa iiiam contendisse,
magnis pedestribus, atque equestribus copiis; ibi homo,
qui aegrius fortasse id ferret, dissimularet tameu: At,-
inquit,- multo id admirabilius, Federicum tam brevi e
Rege remigem factum esse; siquidera spoliatus regno
pauculas in triremes sese receperat; quibus post ad
Ludovicam Regem in Galliam est delatus. lis in copiis
raauus quaedam fuit nec exigua, uec male strenua,
cuius insigne esset cochlea. Hac e manu cum fama es-
set, non paucos Komae, tumultu exorto, caesos, suoque
sanguine Florae campum cruentasse; hic Chariteus:
— Quid nunc,-iu(i\ih,-d/,ceìit Enniani isti:
Chocleas herbu/enas, domiportas, saiigvuie cassas? '
Erat sermo porticu sub nostra de usu resinae vina-
ceae, quodque ea summo studio couquireretur a mer-
catoribus. Erant qui dicerent Campaniam inopem eius
esse, quod vina haberet et teuuiora, et permultum aci-
da. Idem tum Chariteus, quo solet tum suo ilio lepore,
tum summa iugenii dexteritate: — Si busta, -mqvi\i,-
' Questo verso, dal Charileo per ischerzo piobabilmente attribuito
ad Ennio, fra i cui frammenti non fu mai ( v. Q. Enni Carminum rcli-
quiae , ediz. L. Muller, Pietroburgo, 1884), è foggiato su quello ricor-
dato da Cicerone nel De divi»auo>ie (in Scripta, ediz. Klotz, P. IV,
voi. IL), ii,cap. 133: «Ut si quis medicus aegroto imperet, ut sumat
Terrigenam , herbigradam, domi portam, sanguine cassam
potius quara hominum more cochleam dicere ».
INTlvODUZlONK XLIX
Gallica per scrutari curae sit mercatorihus , nullam eius
generis resinae rcf/ioìiem fcraciorem hac invenerint. — »
E quest'altro suo motto ce l'ha conservato, woWApo-
hfjoticum ad Nicolaum Leoniceum, Antonio de Ferra-
riis: « Non infacete Chariteus noster dixit: — Duos Ar-
jdnates , Mar inni armis, Ciceronem vcrins, et servasse
Bf'ììipiihlfcam, et perdidisse ^ — . »,»*^^^
Conosceva anche l'arte del crfmo; l'abhiam già det-
to; ma ce lo conferma lui stesso nelle rime, e l'Altilio'-'
ili una lettera al nostro ^:/< Tu interim lyram intende,
ut cum plusculum ocii fuerit, te canente illa audiamus ;
nara si accentus tuus accesserit, ne Miisis quidem ipsis
(pace quidem illarum dixerim), invidebis». E che co-
deste non siau delle pure frasi poetiche, ce lo assicura
1)0Ì un contemporaneo; «Simplex ( caneudi ratio) au-
lem est ea, quae laiiguidius modificata cadit; ut eos
P. Maronis versus iufiexos fuisse videmus , qui , Ferdi-
nando II auctore, soliti sunt a Chariteo poeta cani ^ ».
Dopo la morte di Ferrandino, egli si ritirò, come già
aveva fatto il Fontano, qualche anno prima, dalla vita
pubblica. Durante i sei anni del regno di dou Federi-
go, e dopo il suo ritorno da Roma — accettata solo, e per
breve tempo, la carica di governatore di Nola — sino
1 Op. cit. , voi. II, p. 53.
- Per esempio, nello stramb. XXIII, 1-2:
... mentre ch'io canto il mio desio
fra gli amici con voce dolorosa.
•'' Ripubblicata nel XI dei Docum.
^ Paolo Cortese, De cardinaìatu, n, cit. dal Caballero, p. 23. Ed
il Sannazaro negli endecasillabi In nialedicuni ( Spicilegium roma-
num , Roma, 1842, t. Vili, p. 511):
Fontano quoque vel iubente seras
dernntat Chariteus ad lucerna?.
VII
L INTRODUZIONE
alla morte, visse sempre, — costrettovi fors' anche dalla
podagra e dai dolori artitrici, che, più d'ogni altro male,
lo tormentaron per quasi tutta la vita ', e pe' quali forse
moiì, — nella quiete domestica, circondato dall'affetto e
dalle cure della moglie, «morigera» ed «esempio raro
di fede e d'onestà - », e delle sue non poche figliuole ^;
* Si rileva dal Fontano , ^Egidms (Napoli, ex officina S. Mayr,
1507), f. hiii r. Il Charileo, che discute da più tempo di teologia, viene
interrotto cosi dal Fontano e dal Pardo : « Font. : Tibi quidem, Charitee ,
videndum est, qua nam via progrediare, cum 2Jodager ipse sis, medico-
runique maxime indigeas opera, quorum olficium est, ad materiam potis-
simum studia, curationesque suas referre. Char. : Ista quidem periiide di-
cuntur a te, Fontane, ac si ignores, uaturam ipsam ea ratione podagria
consuluisse, quo doiorem minus sentiant, lingua ut uterentnr loquaciore . .
Fard.: Equidem ego te vel inter loquendum risissem , Charitee, nisi
de religione, deque re publica Christiana sermo esset habitus; dum phy-
sicos tam imprudenter , ne parum pudenter dicam, ipse in te provo-
cas. Concedatur tamen hoc podagrae , articularibusque doloribus ,
de quibits tam saepe quidem iaces... Haec ego tecum habui, Chari-
tee, quo pacem tibi cum physicis procurarem, quorum opera et sto-
macus et pedes isti tui tam saepe indigeant ». — Ed anche Giano
Anisio (Satyrae ,\,ix, i sgg. : riferito più appresso), ricorda Va. stil-
lam capitis e la podagram del Ch. — Nei vv. 79-81 della canz. XIV :
Canzon, nata d' infermo, inferma e manca,
tu vedi iJ tuo difetto:
rimanti in questo letto.
E nella canz. XV, i, 4-11 :
Crudele autunno ,
a me tanto avversario
sei, che d'acerbi lutti
fai parte, e d'aere freddo, ombroso e negro;
tanto, che l'animo egro,
per la contagìone
del duol, ch'ognor rimembra,
a le meschine membra
d' incurabili morti è già cagione.
2 Son. CCIX, .-2 :
Raro esempio di fede e d' honestade,
morigera moglier, più ch'altra alcuna.
3 V. qui appresso , a p. liv.
INTRODUZIONE LI
nella sua biblioteca, tra i suoi poeti, e nella conver-
sazione dei suoi più cari amici, e specialmente di Pie-
tro Siimmonte, e di un suo nipote, Bartolommeo Ca-
sassagia, catalano *.
La sua casa era posta nel vico « de li Dactoli », oggi
(Mia Fictrasanta , e precisamente « prope et retro »
la chiesa di Santa Maria Maggiore , « juxta domum
Dominici de Giptiis et piateam publicarn - »: a pochi
passi dai portici e dalla cappella del Pontauo, e d;il
palazzo ilei D'Avalos, marchesi del Vasto; e poco lon-
tana da quello del duca d'Atri, Andrea Matteo Acqua-
viva, e dall'altro di Antonio Guevara, conte di Poten-
za; tutt'e due amicissimi suoi, che ricordò non poche
volte nelle rime '. Su questa casa vi fu, almeno sino al
secolo XVI , una lapide con questa iscrizione *:
Ferdinandi Alfonsi secundi filii, Ferdinandi nkpotis ,
Alfonsi pronepotis, pPvIScipìs optimi liberalitate ;
* Per la sua biblioteca v. la lett. del Sbmmonte ; pel Casassagla, i>iii
appresso , a p. lvii.
2 V. la n. 2 a p. xu — Il vico del Dattilo da tempi antichi sino al
principio del sec. XV si chiamò anche del sole e della htna; nel sec.
XVI anche Mormorato: v. Capasso, p. 51 e n. t.
3 Capasso, p. 52. — Dal quale si rileva che le case del Fontano, dei
D'Avalos- Vasto, delTAcquaviva e dei Guevara erano: la prima, ove
ora il palazzo dei principi di Teora, di fronte all' « elegante tempiet-
to » del poeta; la seconda, dirimpetto a Santa Maria Maggiore, « ove
reggevasi il Tribunale della Sommaria»; la terza a Porta Donnorso,
poi « aggregata al Monastero della Sapienza »; l'ultima nel largo Re-
gina Coeli.
^ Da alcuni Notarti, estr. dal Bolvito (bibl. Brancacciana di Napoli :
II. A. io, p. 4) : « Quelle case passate {sic) la porta piccola di S. Maria
maggiore da la piazza de la Sapientia si leggea sopra la porta il seguente
epitaffio: Ferdinandi — liberalitate; fureno del Cariteo poeta in tempo
di re Ferrante primo {sic), et per quanto si dice fu di natione catala-
no». Ed in margine, di carattere del Tutini: «Non si vede più que-
sto epitafio in quel luogo, ma fu trasferito dentro il cortile di France-
sco Festinese alla Pignasecca sopra Io Spirito Santo, dove si Tède».
Questa notizia mi fu comunicata dal comm. Capasso,
LI! INTRODUZIONE
ma veramente egli l'aveva acquistata sin dal 1491 dalla
società AeWsi Secreti a di Santa Maria Maggiore ^ e « con
sentenza de'Compromissarii Apostolici data a 25 Dicem-
bre 1499 », confermata a Cariteo Regio Scribac « sub an-
nuo censu ducatorum 7, ex eo quia dieta Ecclesia minat
ruinam, et ipse Chariteus promisit illam instaurare, con-
cessa prius sibi dieta domo ut super ea exaedificare
possi t '^ ».
Il Gareth era mediocremente agiato; ma la sua abita-
zione quantunque « non vi fulgesse né auro né avorio ^ »?
era splendida, elegante., nitida; e il padron di casa, ele-
gantissimo anch' egli e pieno di buon gusto. « Ac tametsi
familiaris res tua domesticaque supelex sit etiam medio-
crior, - gli diceva il Fontano, dedicando a lui, «splen-
dentem hominem», il suo trattato De Splendore *- in
hac tamen ipsa mediocritate, spiendidum te quacumque
in parte domesticae supelectilis, ornatusque familiaris,
ita prestas ac geris, ut admirari non minus nitorem,
quam laudare modum ac mensuram in illis tuam , et
velimus et debeamus; presertim cum hunc ipsum nito-
rem tatiquam natura tibi iusitum etiam in iis quae so-
lius sunt ingeuii ubique ac semper praeteferas '* ».
' « Quella che ora è la congregazione del SS. Salvatore, posta ac-
canto all'accennata Parrocchia» (Capasso, p. 51).
^ Negli Acta visit. Cappell. cit. , p. 238. — La casa del Ch., « allorché
la Chiesa di S. Maria Maggiore nel 1589 fu conceduta ai PP. Chierici
regolari Minori , dovette incorporarsi nella fabbrica del Monastero ,
ora Quartiere dei Pompieri» (Capasso, pp. 51-52).
3 Son. CCX, 1-2, 5-6:
Non fulge nel mio albergo auro né avorio,
la vana ambizione in odio tegno...
Felice quel, che...
... stato iimil non have a sdegno! ;
^ Pubbicato per la prima volta, insieme ad altri trattati, a Napoli,
per Joannem Tresser de Iloestet et Martinuni de Am&terdam Alma-
nos, nel 1498.
5 I. I. PoNTANi ad Chariteitm , de Splendore : prologus, — Ad
FiN'TltODUZlONE LUI
Alla povera moglie, — che aveva un nome non bello,
Petronilla, e che gli amici pontaiiiani tradussero nel piìi
poetico Nisea \ — dirigeva un sonetto, poco prima del
1509, in cui la confortava a sopportar con coraggio quei
a maggiori affanni » che la sorto aveva riserbato alla
loro età avanzata : il Gareth aveva allora sessant'anni
suonati:
non t'attristar, se la sorte importuna
ne dà maggiori affanni in questa etade!
Iddio avrebbe certamente rimunerate le loro buone a-
zioni e la loro « pietà », là ove avrebbero sentito
splendeutera hominem de splendore disserere, Charitee dulcissime, etiam
si nulla intercedat henivoientiae ac familiaritatis gralia, ipsa tamen ratio
praestari hoc a me debere, it hortatur & inbet, quippe cum materia
ipsa consentiat cum artifice. . . Iure igitur lihrum tibi hunc de splen-
dore vendicasti , imo & fecisti tuum. In quo quidem ( cultum enim
atque elegantiam novi tuam) satis scio multa desiderar! a te posse ,
quae a me suni , aut negligenter omissa aut per inscientiam ignorata.
Tu vero. Charitee, quae tua est laenitas, quodque in carminibus etiam
nostrìs facis ut siquid inertiae in iilis deprehenderis, facilitate id tua
induigenter condones, in hac item disputatione siquid aut praetermissum
a nobis fuerit, aut forsitan ignoratum, vel sponte id tua, vel rogatus
etiam atque etiam condonabis ». Dall'ediz. cit. nella n. prec, f. miii r-v.
' Fontano, ^gidius, f. hii r : « Pont.: Ego te, Charitee, quod diu-
tius mussitantem intueor, quo nara mussitatio ista evadat tua, vel a-
venter videre expecto , ni res Portasse uxoria negocium tibi afferat ,
in re praeserlim familiari ac molestiarum piena. Char.: An fortasse ar-
bitraris Petronillae uxori inditum nomen a petrone ac vervece se-
ctario? (sic enim quidam e priscis illis eum vocavere): quod videlicet
gregem mihi filiarum uxor comparaverit... ». — Furono il Sannazaro
ed il Fontano che le dettero il nome di Nisaea ( v. a p. lv ) ; tra-
sformato poi in Nifaea dal Tallarigo-Imeriani (iV. Crest. ital., II,
346, n. 5), che v'annotarono anche: « Forse, la signora Cariteo era nata
Nifo?»!! — «Potrebbe essere che ancor le mogli dei Font^niani go-
dessero la galanteria di prendersi ancor nomi Accademici » (Caballe-
Ro, p. 14). Nel ms. cit. del Meola si trovano due capitoli del Compatre
Generale, cioè Pietro Golino. e di Manilio Rallo, intitolati tutt' e due
In nvptiif! Charitei: che riproduco nei X dei DocuM. , quantunque io
li creda falsificazione del Meola.
LlV INTRODUZIONE
felicità maggiore,
ciie non s'intende da i corporei sensi ,
né scende nel mortale umano core! ^
Gli ultimi anni della sua vita dovette passarli in
lina certa ristrettezza. La morte immatura di Ferran-
diuo, la caduta della dinastia aragonese, e forse la
poca simpatia del gran capitano e dei viceré suoi suc-
cessori per i letterati e per i poeti: quindi i quattro-
cento ducati , concessi al poeta da don Federigo « per
substentatione rei familiaris » , ridotti a trecento , ed
anche così mal pagati ; avevan dovuto gettarlo quasi
nel bisogno! E, come se tutto questo non bastasse, la
signora Petronilla gli aveva regalato un bel numero di
figliuole : « gregem filiarum . . , quae — è il povero ma-
rito che parla, — illam sequantur et ad rem divinam
atque in tempia, et ad invisendas per urbem puerpera^,
ad celebrandas item uuptias ac festos dies ^ ».
Non aveva dunque tutt'i torti d'attristarsi la signo-
ra Gareth! Ma su questa fecondità della povera donna
in partorir sempre femmine, scherzavan gli amici del-
l'Accademia: il Sannazaro ne faceva uno dei suoi belli
epigrammi ^
1 Son. CClX, 3-4, 12-14.
' Fontano, ^lEgidhis, 1. cit. ; continuazione del brano ivi riferito.
Cfr. anche E. Gothein, Die Renais. in Snditalien (in Citltvrentwi-
chbmg niid-ltaUetis, Bresiavia, 1886), pp 420-421.
3 Epigramm., I, xi, p. 186. — Riferendo « cette belle Epigramme »
il Menagio {Menagiana, Amsterdam, 1713, voi. Il, 295), scrisse che il
Sannazaro l'aveva scritto «pour consoler un Princesse qui étant grosse
souhaitoit avec passion d'avoir un fils, & qui cependant n'accoucha que
d'une fille ». L'errore fu corretto con molta erudizione dal La Mon nove
{Ibid., voi. IV, pp. 303-304), che ricordò quanto del Chariteo e della mo-
glie avevan detto il Fontano ed il Sannazaro.
INTRODUZIONE LV
De partu Nis.«.e Charitei conjugis.
Dum parit, et lonpas iterai Nisaea querelas,
sciiiditur incerta sedidoiie polus.
Pierides puerum, Charites opiaie puelianr.
bis Veuiis, ast illis docla Minerva favet.
Astat amaiis Veneri Mavors. Fhoebusque Mluervae:
magiiaiiitiinsque aequa Juppiter aure sedet:
cum subito aurato surgit p'ier improbus arcu,
et coeiuui notis terrilat omne miiiis.
Assensere metu superi. Pater ipse Deorum
risit, et Aonias jussit abire Deas.
Exsultat palma Veiuis, et nascente puella
augentur Cliaritos, Cypria turba , Deae.
Né, in tante angustie, pare che l'affetto fra i due
couiugi si raffreddasse mai: cosi almeno da un epi-
gramma del poeta dell'amor coniugale'.
ht. NlSEA ET CilARlTEO
Ora Terentiolae myrrham flant, pectora nardum
dulcidiae, stacten labra liquori tua.
Colligit haec Nisea simul , conspergit et aura
• ambrosiae, quam fiat crinibus ipsa suis.
Pyxide mox parva viridi circundala myrto
dedicai, et ponit, Cypria diva, libi:
optai et ut pariter cum coniuge trausigat anuos:
quod Nisea cupit, quod Chariteus avet.
Dopo la morte del « povero marito » la povera donna
fu costretta a vendere, come dicemmo g'à, al Colocci, e
per mezzo del Summonte, uno dei più preziosi mano-
scritti posseduti dal poeta: il «Libro di Poeti Limosi-
ni»; e lo stesso Summonte ci dice che, in quel tempo,
« havea fatte alcune commodità '^ » , alla vedova. Ma ,
1 J. J. Fontani, Eridavus, I , f. riiii r; stampato a Napoli insieme ad
altre poesie, per S. Mayr, nel 1505.
' Summonte, nella leti. cit. al Colocci.
LVI INTliODUZlONE
dopo il luglio 1515 , non si sa più nulla né di lei né di
alcuna delle molte sue iigliuole '.
Essa era forse amalfitana "^ ; e forse della famiglia
di quel Massimo Corvino, vescovo d'Isernia, che il Ga-
reth aveva nominato nella Resiìosta contro i malluoli
come congiunto a sé « di sangue e d'amore ^ », E ti-
• Non apparteneva certamente alla sua famiglia quel « Garreclo de
lo Conestabele cozone del re», e quel «Garrecta de lo canto», ricordali
spesso nelle Ced. di tesor., voli. 83, f. 203 v; 119, f. 196 v, f. 134 v,
f. 2)6 v; 137, f. 15 V, ecc.
2 Caballero, p. 15 : « Non disprezzerò la opinione di chi (?] inter-
pretando il Fontano (lib. 2 de Hortis Hesper. cap. de limonibus, et
earum cultu) volesse che il Chariteo prendesse moglie in Amalfi, o
piuttosto ella [la signora GarethJ fosse Amalfitana». Ivi, infatti , il
Fontano chiama Chariteia la regione amalfitana; e l'amico Sum-
MONTE {Loca quaedatn in Urania, Hesperid. hortis etc. propter ter.
novit. alieni fonasse obscuriora, in fine ilei De Fortuna del Fontano,
Napoli, S. Mayr, 1512, f giiii r), postilla : « ut Chariteum amicum ce-
lebret ».
■^ Resp. cantra li mal., 223-24 :
E tu, Corvino mio, poi eh' io ti mostro,
che di sangue e d' amor son teca giunto.
Questa parentela tra il n. ed il Corvino è confermata anche dall'AL-
TiLio nella lett. al Ch. , che gli aveva inviata l'elegia ( I , xi ) del
Sannazaro In maledicos detractores , in difesa dei pontauiani. a E
degno di osservazione , come l' Altilio avesse quivi con ammira-
zione osservato quei versi, ne' quali vien lodato Massimo Corvi-
no, senza ricordar poi niun altro di quei letterati, che dal Sanna-
zaro vengono con più l'agione esaltati ; ma sapendosi esser quello un
[)arenle del Cariteo, a cui la lettera è diretta, appar chiaro, che volle
rendersi grato all'amico » (TAFURi,pp. xxxvn-vni). Anche nel Poeta
Personatus (Fontano, Antonius , cit. più appresso) il Chariteo
vien ricordato insieme al Corvino. — Che la signora Gareth fosse
poi una Corvino, lo pensarono il Caballero, p. 13 ed il Capasso ,
pp. 40-41 ,1.5; ma il primo soggiunge che « simil congiunzione di
sangue potrebbe ancor provenire dal matrimonio di qualche figlia del
Ch. con qualche parente del Corvino ». — Il Meola, p. no, pur crede
che il Ch. avesse sposata una sorella del Corvino, la quale «Corvina
fosse ditta, tale ricordandoci il di lei nome (?) il Sannazaro in quell'epi-
IXTKODUZIONE I-VU
glio forse di qualche sorella del poeta e di un Bil-
dassai're Casasages, catalano ', era quel «joveue », rietto
semplicemeute dal Sumuionte « lo uepote del Cliariteo^!>,
e che si chiamò Bartolouimeo , nato anche in Catalo-
gna, e « versato — cioè vissuto — in Franza » : «per-
sona certo oltra lo ingegno modestissima, et diguo ne-
I)ote di tal zio »; e, in mezzo « a molte e molte occu-
pazioni » e «oppresso in uegocii », « exercitato pure
assai sì in legere, come in scrivere cose thoscane».e,
come vedremo, con « non poca dextrezza in interpretare
lo idioma e la poesia limosina * ».
IV.
Nella tranquillità della vita domestica dovette subito
darsi alla correzione, all'ordinamento, alla pubblica-
zione delle sue rime. La prima edizione, infatti, pre-
parata durante il 1505, si pubblicò il 15 gennaio 1506.
Questa stampa è irreperibile, ora ^; ma non dovea es-
ser molto rara nel secolo XVII e sulla fine del XVIII,
gramma dove loda il suo parto, che poi dovè a*<jenitori premoiiie, se
ci attesta il Summonzio che non lasciasse di sé figliuoli (1)».
1 V. le nti. al sou. CCXII, diretto ad un « Baltasar », che potreb-
b'esser questo « Baldaxarro Casasages catalano », che, nel 1497, P^'^"
sto « circo cento ducati contanti al Signor Re , graciosamente » ; ed
a cui, in queir istesso anno son dati dalla regia tesoreria « mille du-
cati; et sonno per altri tanti ne li so" stati cesi per Paulo Tholosa dela
Summaiia de xxvl con contracto con la Regia Corte a di primo de de-
cembro proxime paxato » (Ced. di tes-. voli. 139, f. 102 v; i6o, f. 671)-
- SUMMONTE, lett. cit.
•* Una copia doveva essere « nella libreria segreta del Collegio Ro-
mano », sulla line del secolo sc<)rs0 ; quando la studiò il Caballero,
p. 5; ma non si trova più nella bjbl. Vittorio Emanuele di Roma , che
ereditò gran parte di quel fondo.
vili
hXlil INTRODUZIONE
quando la videro e la ricordarono il Chioccarelli \ il
Nicodemo -, il Crescimbeui ^ il Caballero * e Lorenzo
Gitistiniaui ^.
E, mettendo insieme tutte le poche notizie forniteci
da costoro, possiamo anche darne una des.crizioue. È
un volumetto iu -4", sulla cui prima carta si legge so-
lamente: Opere del Charitro, e su l'ultima: F/ne della
Operetta di Chariteo impressa in Napoli per Joamie
Antonio de Caneto Paviensem, anno Domini lòOG a
dì 15 Januario **. È in « caratteri rotondi "^ » ; e « la
puntatura . . . non consiste in altro, che nell'uso del
punto fermo, de i due punti, e del sopraccennato se-
gno [/ = , J "* ». A tergo della prima carta: Al virtuo-
sissimo Cavaliere Cola Balagno prologo di Chariteo
in lo libro inscripto: endimion à la luna: e, dopo que-
sto Endimion , una Canzone di Chariteo de Lode del
Serenissimo Signor Principe de Capua , dedicata A
r Illustrissimo Segnor Don Alfonso Davalos Marchese
di Pescara, Gran Camerlengo del Pregno Ncapolitano;
ed un'altra Canzone di Chariteo intitulata Ar agonia.
' In uno zibaldone di noLizie (nella Na/.ion. di Napoli: xiv. o. 19).
che servirono per il Be ili. script, neapolit., al f. 28 v. si cita l'ediz.
del 1506, poi la citazione fu cancellata: evidentemente perchè il Chioc-
carelli, considerando che il Chariteo era spagnuolo. pen.'^o hene di non
parlarne, come di fatti non ne parlò, in quell'opera sua.
* Op. eie, p. 58.
•* Istor. della volg. poes. , I, 412-413. E da lui il Ma/,zochelli ,
Op. rie, p. 564 V, ed il Quadrio, Op. ciC, II, 213.
* Op. cil., p|). 5-6.
5 Saggio storico-o-it. i-ulla tipng. del ì-egno di Nap., Na|ioli, 1793,
|i. 125. V. anche Brijnet, Manuel, I,coll. 1082-3; Graesse, Tremar,
ll.p. .22.
6 Giustiniani, p. 123: Nicodemo, p. 58 ; Caballero, pp. 5-6.
" Giustiniani, p. 125.
^ Crescimbeni, Op. cit. , 412-413: «Ed in questo proposito molto
può valere un' impressione delle Rime del Cariteo intitolate Endimion
a la Luna, fatta in Napoli per Gio. Antonio di Caneto l'anno 1506,
vivente l'Autore, e per avventura anche presente, perciocché si vede
correttissima; la puntatura... ».
INTRODUZIONE LIX
La perdita di essa ci sarebbe assai mea dolorosa, se
noi ne possedessimo qualche ristampa. Or, fortunata-
mente, una ristampa c'è; e non una sola: tutte le edi-
zioni venete delle rime del nostro ' non sono cheripro-
duzione fedelissima della napoletana del 1506/In es-^e
le rime son pubblicate nell' istesso ordine-^i questa:
cioè prima V Endiniion, con la dedica ed il prologo al
D'Alaj^no; poi la canzone per il principe di Capua, cou
l'islesso titolo e l'istessa dedica al marchese di Pesca-
ra; tiualinente la canzone « intituluta Aragonia».
Una sola differenza c'è: nelle venete, haVEncUmion
e le due canzoni , si trovano gli Sirammotii di Chari-
teo, che nella napoletana pare, almeno, che non ci fos-
sero. Se non che, coloro che parlarono di quella prima'
stampa, potettero ben credere che gli Strammotti fa-
cesser anche parte àeW Eadimlon: di fatti son tutti
amorosi , son tutti diretti a queir istessa donna , per la
quale era stato scritto V Endimion.
Se è così, e par certo che cosi sia, possiam dire che
anche la stampa napoletana del 1506, come le ristampe
venete, si divideva in tre parti: V Endimion , che com-
prendeva sessantaciuque componimenti: cioè quaranta-
cinque sonetti, cinque canzoni, tre sestine, cou altret-
tanti madrigali e ballate; e sei poesie in settenari! ed
endecasillabi incatenati; i trentadue Strammotti:, le due
canzoni politiche.
Circa quattr'anni dopo, nel novembre del 1509, il
Garcth pubblicava , faceva pubblicare , una seconda
edizione deile sue rime; ma l'edizione riuscì quasi del
tutto nuova: e per il grau numero dei componimenti
aggiuntivi, e perché i già pubblicati eran stati intera-
mente rifatti, e i giudicati giovanili e scadenti del tutto
soppressi. Questa bella, completa e definitiva edizione
^ Di queste ristampe |)arlerenio in seguito.
LX INTUODUZONE
delle rime del nostro, fatta certamente sotto gli occhi
del poeta , ebbe anche la fortuna d'esser tipograficamen-
te curata da Pietro Summonte: il fedele editore delle
opere del Fontano e dell'Arcadia del Sannazaro '.
È un in-S", in bei caratteri rotondetti, e, segni d'in-
terpunzione, il punto, anche in luogo del punto e virgo-
la, l'interrogativo e la parentesi curva; con i fogli non
numerati, e col registro a-v iiii , « excetto M eh' è quin-
terno ». Sulla prima carta: tutte le opere 1 volgari |
DI CHARITEO; e qui un elenco di tutte le parti in cui si
divide la raccolta''; e all'ultima carta, dopo gli Errori
de la stampa, si legge: Impressa. In Napoli lìer Maestro
Sigisnmndo Mayr Alamanno con somma diligentia di
F. Summontio ne l'anno M. DVIIII. del mese di JSfo-
vembre, con privilegio del Illustrissimo Viceré S gene-
ral locotenente de la Catholica Maiesta, che per .X. an-
ni in questo Regno tal opera non si possa stampare, ni
stampata portarsi da altre parti sotto la pena in esso
contenuta ^.
Oltre i moltissimi componimenti nuovi , inseriti tutti ,
insieme alle due canzoni politiche dell'edizione del 1506,
neW Endimione , eran quivi pubblicati per la prima vol-
ta due poemetti: la Mefhamorphosi , in quattro canti, e
la Pascila in sei; una liisposta contra li malivoli; due
1 L' ediz. dfW A7'cadia nel 1504; le opere pontaniane dal 1505 al
1512. — Nel registro n." 4 (lei Notamefìtnriitn prorisionnin III Do7r>ìn)
magni Capitanei ann. 1504, ora perduto, al f. 77, v'era un ordine
di Consalvo al Summonte di pubblicar le opere dei pontaniani ; del
quale ci resta solo un sunto nel Reperì, dei Privi!, della Canr.ell. ,
f. 74: « Pietro Snmmovte 7wpnlitann: ordine che il detto Pietro
babbi pensiero di fare stampare le opere del Fontano , del Salazaro
(aie) et altre». V. anche Minieri Puccio, 7? /o^r.,pp. 419-20.
'■ Abbiam riprodotta questa prima carta in principio della nostra edi-
zione, a p. 5.
3 La Nazionale e la Universitaria di Napoli posseggono ciascuna un
esemplare di questa edizione: di esse mi son servito per la stampa del
testo; un'altra copia è nella Riccardiana di Firenze.
INTROnUZIONK LXl
cautici : uuo per la morte del marchese del Vasto, l'al-
tro sul Dispregio del mondo; sette canzoni religiose ed
una morale. Ìj Endimione poi aveva subite queste mo-
dificazioni: i quarantacinque sonetti eran divenuti due-
ceutoquattordici; le cinque canzoni, venti (compresele
due canzoni politiche già pubblicate nel 1506); alle tre
sestine n'era stata aggiunta un'altra; alle tre ballate
due nuove.
Eran però stati del tutto esclusi dalla nuova edizione
i due prologhi iu prosa, i sei componimenti in endeca-
sillabi incatenati ed i treutadue Stramniotti: evidente-
mente com'opei'a giovanile.
II Proloyìio di Cliariieo in lo libro inscritto Endimion,
col quale il poeta aveva « donate » al « virtuosissimo ca-
valier misser Cola D' Alagno» « li suoi amorosi versi, a
le sorde orechie de la sua candida Luna in vano sparsi»:
quelle «swe mal composte Eime, tanto da lui desiderate»;
e l'altro, premesso alla ('amone de lode del sprenissimo
]rrincipe de Capita, e diretto « a l'illustrissimo signor don
Alfonso d'Avalos, marchese de Paschara , gran Caraar-
lengo del Regno Napoletano» sono gli unici esempii di
prosa letteraria scritta dal nostro: prosa, s'intende, quale
poteva scriversi da un dotto, anche poeta, del quattro-
cento: tutta luoghi comuni di Virgilio, di Orazio e di
Properzio, mal cuciti insieme, in una forma latineggian-
te, dura e stentata '.
Gli endecasillabi e gli Strammotfi a,p^SLVÌene\a,no ad
una maniera che il poeta aveva del tutto abbandonata
iu seguito: maniera popolareggiante che poteva piacere
al volgo, non alle persone cólte ed ai letterati: essa ac-
cusava una certa improvvisazione e una certa trascu-
raggine artistica; e il Chariteo voleva esser tenuto dai
' I due «prologhi» son pubblicati neW Appendice alle rime, a pp.
459-462 della nostra ediz.
LXII INTRODUZIONE
suoi contemporanei , come da' posteri , un poeta d' arte
e non un improvvisatore : e di ciò , se non i posteri ,
s'accorsero bene, come vedremo, i contemporanei.
Il contenuto di que' sei componimenti di strofe più
o meno lunghe di endecasillabi con rima al mezzo , e
spesso con un settenario iniziale , è su per giù quello
istesso della poesia amorosa popolare: lodi sulla bel-
lezza dell'amante; lamenti dinanzi alla sua finestra;
lettere, benedizioni, imprecazioni e maledizioni a lei;
ma ia forma, il frasario è servilmente petrarchesco'.
Pur tuttavia, qua e là trovi qualche ricordo della lirica
erotica romana; e il non trovarlo in una poesia del se-
colo del rinascimento sarebbe molto strano.
Ecco, per esempio, una delle più felici trovate ovi-
diane '^ , che poi non disdegnò far sua anche Federigo
Schiller '' :
. . . Excute poste serani!
Falliimir, an verso sonuerunt cardine postes,
raucaque coacussae signa dedere fores ?
Falliniiir. Ininilsa est aiiiaioso ianua vento.
Kì milii , quHni longe s[)em tiilit aura nieani !
in questi endecasillabi ":
' Vedi le nn. a quelle rime, pp. 427-439 della nostra ediz.
■- Amorum I, vi, 48-52 (ediz. Merkel, Lipsia, 1877).
s Die ErivarW.ììg in Sdmintliche Gedichte, Stuttgart, 1831, p. 157:
Ilòr' ich das Plòrtchen nicht gehen'^
Hat nicht der Riegei geklirrt'^
Nein, és war des Windes Welien,
der durch diese Pnppeln achwirrr,.
Fu notato dal Gaspary, Ital. Liter. II, j). 331, a proposito di uno
strambotto di Serafino Aquilano, imitalo come vedrenw, dalla poesia
del n.
■i Vv. 35-41 della IP delle canz. escluse dalla stampa del 1509: e che
inseguito chiameremo, per lirevità, «giovanili».
INTRODUZIONE LXIII
Deh , dolce uscio beato , — deh , apre ornai !
Remedia a tanti guai. . — Lasso !• che sento?...
Misero me!... fu il vento; — et io credeva
che la porta s' apreva ! — L* alma afflitta ,
per 1 eiiché veda fitta — la speranza ,
prende d' amor baldanza — e tanta fede ,
ch'ancora, oimé !, se crede — esser beata...
E rispecchiano il bel (juadretto lucreziano ' :
At lacrimans exclusus amator limina saepe
florìbus et sertis operit postisque superbos
unguit amaracino et foribus miser oscula figit;
questi altri ':
Quante volte da sera , — o belle porte ,
m'avete visto, a morte — già vicino,
piagner fin al matino , — inanzi al sole,
oi'iiando di viole — e di ghirlande
ambe due queste bande — e tutto il loco...
Nello scrivere i suoi trentadue Strammotti ', il Chari-
teo, più che le ottave vive allora sulle bocche del popolo
napoletano, dovette aver certamente presenti le imita-
zioni letterarie che del rispetto toscano avevan tatto i
cortigiani di Lorenzo il Magnitico *.
1 De rerum natura, iv, 1169-71 (edi-:. Bernays, Lipsia, Teubner,
1879).
- Oanz. giov. cit. , 22-26.
^ Cosi sempre nelle ediz. venete che li coiitengoiiu: v. anche il D'An-
cona, Secent. , p. 163, n. 3.
•* Il D'Ancona nella Poesia pnpol. ical., p. 132 era d'opinione che il
Chariteo nello scrivere i suoi Strammotti, non avesse fatto altro che
voltare « in lingua letteraria le torme vernacole», e che i due tentativi
d'imitazione popolale sorti contemporaneamente a Firenze e a Napoli,
fossero indipendenti l'uno <lairaltro; ma nel Secent., p. igo, aggiunse che
al Chariteo forse «era noto che il Poliziano in Toscana dal cantar villa-
nesco aveva dedotto i Rispettici-, e che «foi-s'anco» quella degli Stram-
motti «era una forma ch'ei prendeva direttamente dal popolo pugliese
lAlV INTRODUZIONE
Negli Strammotti del barcellonese cercheresti invano
la spontaneità, la semplicità, la grazia e l'arguzia dei
canti schiettamente popolari; il t'ondo è costituito in
gran parte dal frasario petrarchesco e da qualche i-
mitazione dei lirici latini *: ma, qua e là, senti pure
un eco degli Strambotti di Luigi Pulci e dei Rispetti
di Angelo Poliziano. Furon forse la prima opera del no-
stro; e furon forse scritti verso il 1480, quando, dopo
la venuta di Lorenzo de' Medici a Napoli (1479), la corte
napoletana entrò in più intime relazioni con la fioren-
tina ; ed i cortigiani aragonesi non disdegnarono di sci-
miotteggiare i loro confratelli medìcei. Il Poliziano era
fin troppo noto agli accademici pontauiani -, perché le
cose sue non fosser subito lette e con una certa avidità
ed anche con un po' d'in vidi uzza. Che poi gli Strambotti
del Pulci fosser conosciuti da' poeti napoletani, oltre che
da qualche verso di quelli, trasportato di pianta negli
Strammotti del nostro ', mi par di poterlo arguire da
e siculo, per bisogno o va{?hezza di novità. DelTa quale orirrine diretta
potrebbe anche dare indizio il tatto, che alcuni di cotesti Strumhotti
sono interamente identici ai siciliani, alla cosi detta aitava siciliana di
due rime quattro volte alternata, anziché formare un'ottava toscana e
jjerfetta ». Se non che de' trentadue componimenti del n. solo sei man-
tengono la forma metrica meridionale; gli altri venlis^i serbano quella
del rispetto toscano, come diremo più appresso.
' V. le nostre nn. agli Stratnniutti , pp. 442-53 della nostra ediz.
- V. G. RoscoE, Vita e pont. di Leone X, I, pp. 100-103; ^ ^'■^ Schiì-
RiLLO, ueW Introd. aìVArcadia del Sannazaro, pp. clxix-clxsvi.
3 II Poliziano nel xxiv° dei Rispetti spicciai, (ne Le Stanze, l'Or-
feo e le rime, ediz. Carducci, Firenze, 1863):
Pietà, per dio, pietà, pietà: eh" io moro
ed il nostro {Str. V, i):
Pietà, pietà, per dio, ch'io moro a torto;
e cosi il primo, nei Risp. cont., in, òij, 72:
E tu, donna crudel, cagiou sarai...
.... ch'io mora disperato
INTKOUITZrONE LXV
ciò: die i versi 7-8 del xxxii" strambotto del Horentino:
però olii pone il suo aiiuir in teniiii;i.
zappa in nell'acqua À in arena semina;
e il Chakitko (67/-. XIII, 1-2):
Donna crndel, per culpa vostra e mia,
si perderà quest'alma desperata.
Il Poliziano, /. e. . vi, 56:
clie tu sia nien bella u pili pietosa:
e il Chaiutico {Str. XXVI,. 3):
Or fussi tu men bella e più pietosa.
E cosi questo verso di L. Pulci {Strambotti, ediz. A. Zenatii, Firenze,
libr. Dante, 1887), xv, 5:
Con teco intendo vivere e morire,
e proprio quello del Chariteo (Str. Xll, 1) :
Teco vorrei pur vivere e morire;
benché l'uno e l'altro possan pur derivare, indipendentemente, dall'o-
raziano (Od. Ili, IX, 24) :
'l'ecum vivere amem, tecum obeara libens.
E questi altri del Chariteo (Str. XXIX, 1-4):
alma, o spirto mio , o nutrimento
ile la mia vita stanca et atTannata,
o fermo del mio cor sostenimento,
ri|)0S0 de la mente tormentata,
o del mio grave ardor suave vento;
ricordano subito quelli quasi simili del Pulci (Str. i, 1-2, 6):
guida di mia alma e di mia vita,
mantenimento de' mia sensi afflitti , . . .
sostegno di mia nv^rabri S'^ontilti
LXVI INTUODUZIONE
si ritrovino, COSÌ leggermente modificati, neW Arcadia
del Sannazaro ^:
ne l'onde solca et ne l'arene semena,
e '1 vago vento spera in rete accogliere
chi sue speranze fonda in cor de femina.
Dai quali il Pulci non potè certo ricavare i suoi , per-
ché egli morì nel i484^;,quando il romanzo pastorale
del napoletano era ancora da venire ^
Tutte le poesie contenute nel Libro di sonetti et caii-
2oni di Chariteo intitulato Endimione, — e d'ora in
poi, nominando V JEndiniione , intendiamo solo della se-
conda sua redazione, — quanto all'argomento, sono amo-
rose, politiche e storiche.
Quelle d'amore comprendono un centocinquanta so-
netti, una dozzina di canzoni * e tutte le b. diate ed i
madrigali.
^E^ì ama d' amore ,« pudico e onesto'' » una donna
che chiama Luna, perché, come la luna, è unica « nel
mondo » , è bianca , è fredda , è pudica ^. È naturale
e questi altri del Poliziano (Risp. sptcc. xxw , 1-3):
conforto di me che ti mirai
e del mio tristo cor pace e riposo,
o rimedio solenne de' mie' guai.
1 Ediz. cit. , p. 135.
- Gaspar,y, Ital. Lit., II, p. 267.
•^ ScHERiLLO, Introd. àW Arcadia , p. xl.
' Son quasi tutti amorosi i sonetii àeW Endimione dal T al CLXX.\'II",
eccettuati più d'una ventina, d'argomento storico; ed, in gran parte,
le canzoni I-V, IX-XV.
5 Son. 1,7:
Il tanto onesto e si pudico ardore.
*^ Son. XXIII, 4, 5, 7, 9-10:
è con iusta cagion chiamata Luna,
non so! perché nel mondo è sola et una...
ma perché basta ad agghiacciar Vulcano...
Fu preso il suo candor da l'alto cielo,
ov'è la lattea via del paradiso.
INTRODUZIONE LXVII
quindi che dal mitologico pastorello della Caria, amante
della mitologica luna ' , prendano il nome di Endimiono:
il Chariteo, innamorato di questa novella Luna, ed il
canzoniere, composto, in gran parte, di rime scritte per
lei. Il suo amore è, a confessione sua, ideale, spiritua-
le, platonico; ma qua e là trapela, come vedremo, pur
qualche accenno all'amor sensuale ed umano.
La sua donna ha, oltre quella sua naturai freddezza,
quel senso pratico e un certo scetticismo, — così proprio
e comune a tutte le donne! — • il quale le fa prendere in
gioco tutte le smanie dell'adoratore platonico: una vol-
ta, anzi, essa gli dice chiaro e tondo di non credergli af-
fatto. Ella non può, non sa immaginare un amore così
disinteressato: chi dice d'amar tanto una donna, ha
qualche fine, qualche scopo da raggiungere '^ Inutil-
mente il poeta canta e ricanta le sue lodi: descrive le
sue bellezze, uniche al mondo, e superlative tanto che
egli non riuscirà mai a darne che una pallidissima idea:
certo nessuna delle piìi belle donne antiche e moderne
è degna d'esser lodata:
* Cicerone, TuscuL, I, xxxvui: « EiiJymion vero, si fabulas auJire
volumus, ut nescio quamlo in Latino obdormivit, qui est moiis Cariae,
nondurn, opinor, est experrectus. Nuin igitur eum curare censes, quum
Luna laboret, a qua consopitus putatur, ut eum dormientem osculare-
tur?» Ma, secondo Teocrito {Idyl. xx, 37-39), Fausania {Descr. Grae-
ciae , V, i,§§ 3-5), Properzio (IlL vii, 15-16) ed altri, gii amori della
Luna e di Endimione non f'uron punto pudiclii; come — soggiunge il Ca-
BALLERO, p. 15 — «a voler credere al Fontano {Baiar, lib. i, nei vv.
riferiti a pp. ccvi-vii) », sarebber stali « piuttosto sporchi » quelli del
Chariteo e della Luna; ma ivi il Fontano umanizza scherzosamente
l'amor troppo platonico dell'amico. — Il n. ricordò Endimione nei son.
XXXV, 0; LXXVIII, 3; nelle sest. Ili, 31; IV, 34; nelle canz. VII,
22: XI, 4, nella Metham., IV, 45.
' Son. XII; e specialmente i vv. 10-12:
Chi more amando e premio non desia,
e pascesi di star sempre digiuno,
non voi ragion , che fé data gli sia.
LXVIII INTRODUZIONE
quanto un capillo sol de la sua Luna'. *
Inutilmente egli s'affanna a narrare i prodigi di questa
bellezza: un cavallo infuriato, che nessuno aveva po-
tuto prendere, venne a fermarsi , docilmente, dinanzi a
lei , ammaliato da quegli « occhi chiari e immortali '^ » ;
inutilmente: essa rimane, durante tutt' i dodici anni
della passione del poeta, sempre indifferente, sempre
fredda, sempre glaciale.
Ma, verso la fine del dodicesimo anno, essa è costret-
ta a partire da Napoli ^: una mano spietata — quel-
la carezzevole di un giovine sposo o la ruvida di un
noiosissimo marito? * — la trascina in Ispagna. La pas-
1 6on. VI, 14.
'Son. XX[; forse — credono il Tallarioo-Imbriani, N. Crest, II,
p. 348, n. 2 — diretto « al Sannazaro, perchè prende le mosse da un
pensiero di un suo distico, allusivo al bue ed all'asinelio del Presepe:
Bruta Deura agnoscunt. rerum occulta potestas!
Qui sacro egreditur Virginis ex utero. »
I quali si leggon solo sulla porta della chiesetta del Sannazaro a
Mergellina (v. Colanoelo, Vita del Satin., Napoli, 1819, p. 193),
edificata dopo il 1527; quindi il n. non poteva conoscerli. Piuttosto si
potevan ricordar quegli altri molto simili del De par t. Virg. 11, 380-81.
rerum occulta potestas!
Protinus agnoscens dominum
3Son. CXLV, 1-2:
Un anno è, Luna mia, che sei partita,
e tredici che me di me togliesti.
4Son. CXXXIV, 1-4:
Ben fu senza pietà quell'alma ria,
quell'alma iniqua, a Napol si dannosa,
che la tv negra, oscura e tenebrosa,
furando la sua luce, anzi la mia.
INTRODUZIONE LXIX
sione del poeta, intiepiditasi alquanto, risorge più for-
te: egli, che si lagnava della sua indifferenza, ora non
potrà pili nemmeno vederla! S'avvicina il giorno della
partenza; e a lui sembra di dover morire di dolore '.
In sogno vede
un mostro marino , orrendo e fero. . .
che coi denti gli trae il cor di fuora,
e portai, oltre il mar, ratto e leggiero! -
Era la nave che doveva portar in Ispagna la sua don-
na. Il giorno fatale ò giunto: e, quasi a farlo a posta,
il vento è favorevole alla partenza: ed il poeta che a-
veva sperato, invece, in una provvidenziale burrasca,
che avesse trattenuto ancora , qualche altro giorno al-
meno, il suo bene! Tutti piangono. Essa sembra l'O-
ritìa della favola, rapita da Borea. S'allontana in fret-
ta: e lui, che non può neanche darle l'ultimo saluto,
le corre appresso , gridando :
ahi, Luna, ahi, Luna, ove ne vai?
Ma ha appena il tempo di vederla sulla nave: sempre
fredda, sempre impassibile! Poiché non morì in quel
momento, il poeta non crede più che si possa morir di
dolore. Mai una bellezza come quella aveva attraversato
il mare: Nettuno stesso, che pur n' aveva vedute tante,
se ne maraviglia; le dee oceanine, cantando, le augura-
no il buon viaggio ; mentre il poeta, dalla riva, guarda
estatico la vela :
» Son. CXX, 1-3:
Quando veggio volare i giorni e l'ore,
et appressarsi il di, che la mia vita
deve finir
* Son. CXVI, 5, 7-S.
LXX INTRODUZIONE
fin che la vista tenebrosa, oscura
altro che '1 largo mar più non comprese *.
Partita, egli non fa che piangere; e con luì par che
piangano anche tutti i luoghi, dov'ella era solita di
stare: il Vesuvio, il Sebeto, Baja, e quei Bagnoli , ove
ella soleva bagnare le « divine membra " ». Ma se essa
è partita da Napoli, non è partita dal suo cuore ^ : il suo
pensiero, gli occhi suoi son sempre rivolti all'occidente,
1 Canz. Xr, 16-17, 22-23, 3' "33' 46-47) 49*53. ^5' ^Q"?'
A' naviganti era opportuno il vento,
tanto importuno a cui langueva ardendo. . .
Vidi un'altra Oritia
da Borea ratta in fretta. . .
Si veloce al partir ella si mosse, . . .
ch'io non lì diedi le saluti estreme. . .
Ella pur col bel volto, irato e grave,
né si rivolse mai, né mi rispuose . . .
Io possetti mirarla in l' alta nave
con queste luci oscure e tenebrose
senza morire; e'I ricordar m'accora.
Che di dolor si mora,
no' 'I creda mai vivente . . .
. . . Nettuno intento la admirava . . .
Tetide e tutte l'altre dee marine,
uscendo de lor case cristalline,
disser : — Felice e glorioso legno . . .
2 Canz. XII, 33-42 :
Pianse Vesevo e '1 bel fiume vicino ;
pianse '1 lito Baiano e l'acque amene,
e le sulfuree vene,
E quel dolce Bagniuol, che si rimembra
de le divine membra ....
3 Son. CXXXV, 1-2:
Poi che partio la mia dolce nemica,
— non dal mio cor — ...
INTRODUZIONE LXXI
1 .
dove la Luna, partendo, parve che tramontasse '; e se
un venticello vien da quelle parti, egli immagina che
sia l'alito (li lei; e io prega di riportare alla sua donna,
quando, mutata direzione, ripasserà sulle terre di Spa-
gna, i suoi cocenti sospiri -.
Era d'autunno; ed il poeta era mesto, pensando alla
sua lontana; quando, tutto ad un tratto, il sole s' ce-
di ssa. Quel giorno , che era il
decimo di del mese,
che la notte vittrice
fa, poi dt» l'equinozio, anzi l'inverno':
— vedi combinazione! — era i)roprio 1' anniversario del-
la pa^-tenza di lei. In queir istesso giorno, dunque, in
quell'istessa ora, in quell' istesso momento , in cui, un
anno innanzi, era partita da Napoli la Luna; un anno
dopo s'ecclissava il sole! Il cielo, dunque , si commoveva
al suo dolore? *
Ma altri, ben più forti, ben più profondi dolori sraor-
1 Ne! son. CLXIII, --. la Spagna p il paese,
. . . ove la luna occidua scende.
^ Son. CXLll, riferito per intero pili appresso.
3ranz. XV, 27-29.
* Canz. cit., 40-52:
Amor, tu vuoi ch'io creda,
che '1 ciel fa movimento
per memoria del pianto e morte mia.
Io '1 credo, e par che '1 veda:
ch»'n quella ora e momento,
che parte il sol, la Luna si partia.
Sorte maligna e ria,
che due volte in occaso
hai voluto eclissare
le due luci più chiare;
end' io de l'nna son cieco riraaso:
cosa inaudita e nova,
che per dolore umano il ciel si mova!
]>XX1I INTRODUZIONE
zarono, col tempo, anche questa passione; e solamente,
molti anni dopo, quando il poeta, rifuggiatosi a Roma ,
venne ad appurare il prossimo ritorno della Luna a Na-
poli, parve riaccendersi '; ma, egli allora, era carico
d'anni e di sventure; e quest'amore s'era trasformato
nell'animo suo in un ricordo dolce e malinconico, come
quello della giovanezza.
Or, poiché questo amore fu reale, e permesso di doman-
darci chi era questa Luna?— Il Caballero scrisse": « Non
so, se veramente Luna fosse il proprio cognome di que-
sta dama, essendovi in Napoli la nobilissima famiglia
Sanchez de Luna: anzi, appartenendo la famiglia Luna
al seggio di Nido, come scrive il Tutini ^ potrebbe aver
fatto il Chariteo allusione a questa nobiltà di Seggio in
quel sonetto che comincia:
Ahi, Napol bella, ahi, seggio, in cui fé' nido*;
' Nel son. CLXXVII, finge che stando egli in Roma, Amore gli dica :
Perchè non parti or, misero, dolente,
che Spagna rende a Napol la sua Luna?
Ancor Roma ti tien ? Forse fortuna
di me trionfa, o son le fiamme spente?
Ed il poeta:
Amor soave, immantinente
mi partirò.
Egli temeva ancora lo sdegno, la crudeltà della sua donna: ed Amore:
Chi dubitò del giovenile ardore,
or darà fede a la matura etade.
- Op. cH., p. 15. ♦
■3 Op. cit. , pag. 103: ove tra le « Famiglie del Seggio di Nido » ,
è ricordata quella «Di Luna»; che dal Capasso, p. 41 , è invece,
certamente per svista, collocata fra quelle del seggio di Montagna;
errore ripetuto dal Minieri Riccio p. 329 dal Ciavarelli , p. 75. —
Pe' Sances de Luna v. De Lellis, Disc, delle fam. nob.nap., Napo-
li, 1671 , III, p. 3s6 segg.
* Son. CXXIII, I. Anche il Salvini (pel quale v. più appresso) a que-
sto vs. postillò: «Seggio di Nido: nobile di Nidovi; v. len>?. aquesto son.
INTKOOUZIUNK L\XIII
parlando della sua amata ». Ed, infatti, una « dama » di
questa nobilissima famiglia spaguuola, — che, venuta a
Napoli, era già stata ammessa al seggio di Nido, — donna
Margherita de Luna, figlia di don Lope e di Francesca
Gattola, nel 1492 — proprio nell'anno che la Luna del
Chariteo lasciava Napoli, — sposò Scipione Capece Boz-
zuto '. Se non che, dal canzoniere appare piuttosto che
il nome dato dal poeta alla sua donna, più che un vero
cognome, fosse un nome poetico '. D'altronde, questa
ipotesi del Caballero, non essendo fondata su nessun
fatto, può non può esser vera.
Quella poi che è del tutto infondata, e che, sfortuna-
tamente, fu seguita anche dal D'Ancona^ ed accettata
dal Gaspary ^ è l'ipotesi del Minieri Kiccio: che la Luna,
cantata dal Chariteo, fosse né più né meno che Giovanna
d'Aragona, sorella di Ferdinando il Cattolico, e secon-
da moglie di Ferrante I ^ L'ipotesi era attraente; e fin
' V. e. DE Lellis, Faìniglie nob, del Seggio di Nido (ms. della
Nazion. di Nap.: x. a. 6, p. 79 v); e Sigili-, voi. 39 (1492), f. 20:
« Margarite de Luna assensus super bonis pheudalibus obligatis a Sci-
pione Bussuto ex causa matrimonii ». — A titolo di curiosità ricordo
che fra le poesie di Giano Pelusio {Lusuum, Napoli, 1367, p. 81 ),
se ne trova una: Ad Franciscam Limam in Hispaniatn navigantem;
ma questa signora, naturalmente, dovette viver mollo più tardi.
2SoD. XXUI,4:
È con insta cagion chiamata Luna.
^ Op. cit., p. 183: «Fu creduto che cosi egli adombrasse una donna
della famiglia spagnuola de Luna: ma il sig. Minieri-Riccio ha posto in
chiaro trattarsi di Giovanna d'Aragona, seconda moglie di Ferrante
primo . ..».
* Dieital. Ltt., II, 329; e trad. ital., II,P. I,p. 305; se non che nell'^ljj-
pendice egli dichiara di non aver potuto leggere tutte le poesie del n.
5 Ojj. cit., p. 329; «Fu pazzamente (!) innamorato di Giovanna di A-
ragona, seconda moglie di Ferrante I»: e nella n. 12: «Erroneamente
il Caballero . . . crede che la donna amata dal Canteo . . . fosse stata
della famiglia De Luna ovvero . . . Sanchez de Luna del Seggio di Mon-
tagna. Basta leggere quel Canzoniere per convincersi fermamente che
X
LXXIV IM'KODUZIONE
qualche circostanza della vita di questa regina, per me-
ro caso, si riscontrava nella vita della donna amata dal
nostro '. Nessuna maraviglia, dunque, se il Minieri Ric-
cio, — in verità mai troppo cauto nelle sue affermazio-
ni, — s'afferrasse subito a quella unica circostanza comu-
ne , e si « convincesse fermamente » della certezza della
ipotesi sua. Ma bastava leggere attentamente una delle
canzoni poco fa esaminate, per convincersi fermamente
chp quella ipotesi non era che una bella illusione.
E noto che Giovanna d' Aragona partì da Napoli per
la Spagna il primo settembre 1499^; 6 poiché anche la
Luna lasciò Napoli verso quell'istesso tempo, vuol di-
re — dovette pensare il Minieri Eiccio — che la donna
la donna amata dal Canteo fu Giovanna d'Aragona». E qui tutto il son.
XXVII; nel quale il poeta dice dì aver veduto «nel celeste balcone» la
Luna e «con lei giunto il sole»; e questo offuscato dallo splendore di
lei: luogo comune del Petrarca (P. I, s. xvm, 6: per Laura ufia la vista
del sole scolorita») e dei petrarchisti ; ma il Minieri Riccio in quel «sole»
volle vedere Ferrante I; ed allora, naturalmente, la Luna era la mo-
glie Giovanna. Di tal genere son le prove che egli arreca in sostegno
della sua tesi. Quindi il D'Ancona , p. 183: «Luna forse egli la disse per
contrapposto al Re Sole»: ed il Gaspary (a p. 305 della trad. ital.) : «Il
Cariteo cantò la seconda moglie di Ferdinando!,... come l'astro ri-
splendente accanto al sole , al re ... »
1 L'esser tutt'e due partite da Napoli per la Spagna, e dalla Spagna
ritornate a Napoli, com'ora diremo. — Secondo il Minikiu Riccio,
p. 331, n. 12, vi sarebbe anch' un'altra circostanza comune nella vita
delle due donne: che tutt'e due furono ai bagni di Baia. Se non che Gio-
vanna, con la corte aragonese, vi fu nel 1487 {Partium della Somm.,
voi. 2, ff. 14 v, 16); e la Luna, come dalle parole che il poeta rivolge
a' quei luoghi, nel son. LXXII, 9-1 1 :
Rimembrevi. ch'or volge il settim' anno ,
che, seguend'io de la mia Luna il sole,
con voi mi lamentava del mio danno;
neir8o: giacché, quando essa parti da Napoli , nel 92,1! Ch. l'amava
già da dodici anni.
2 Passaro, p. 120; ma Notar Giacomo, p. 228, ai 2 dello stesso mese.
INTRODUZIONE LXXV
amata dal Cliariteo ò la regina aragonese. Se non che ,
l'anno in cui partì la Luna non è ignoto, e si può facil-
mente ricavare da quella canzone XV, ricordata poco fa.
Ivi il poeta dice che l'anniversario della partenza della
sua donna capitò d'autunno, e propriamente nel deci-
mo giorno del mese, che, venendo dopo l'equinozio pre-
cedente l'inverno, fa le notti più lunghe dei giorni; e
che, in quel giorno istesso, vi fu un ecclisse solare. E poi-
ché ivi si accenna sicuramente all'equinozio autunnale,
che cade ai 21 settembre; quel decimo giorno deve ap-
partenere all'ottobre al novembre. Or proprio nel io
ottobre del 1493 , per tutta Europa, vi fu un ecclisse so-
lare ^ ; dunque: la partenza della Luna, avvenuta giusto
un anno prima, fu ai io ottobre 1492 -; e non al primo
settembre 1499, quando partì la regina Giovanna. E, se
ne valesse proprio la pena, si potrebbe anche aggiungere
che la moglie di Ferrante I non può esser la Luna, an-
che perchè quella partì da Napoli, vedova, e questa ma-
ritata ^
' Ecco, per altro, nuovi argomenti in conferma di questa data (1492).
Nel son. CXLVl , il p. dice che Ferrante I, morendo, lasciò Napoli
senza la Luna; e nei sonn. CXXVI, CXXVllI, diretti ad Alfonso d'A-
valos, parla della partenza come già avvenuta. Or Ferrante I mori nel
genn. 94, il D'Avalos (v. p. xxx) nel seti. 95: dunque nel 94-95 la
Luna era già partila. Ed alla stessa conclusione verremmo con l'e-
same dei sonn. CXXVII, CXXIX , CXLI , CLXIII-IV , e della canz.
XIII; ma sarebbe lungo ed inutile: v. però le nn. a queste poesie.
- L'art de véri/ier les dates . Parigi, 1779; p. 79-
■' Son. CXXXIII, 9- II. — Ed aggiunger poi che la regina aragonese
fu anche celebrata dal Ch. nei vv. 226 sgg. della canz. VI, non ricordati
dal Minieri Riccio, ma quanto diversamente dalla Luna! Giovanna era
(?6., 235-236):
. . . dolce, benegua,
morigera, fide! , non importuna;
insomma, come si direbbe ora, una buona massaia. E tale ci appare
anche in questa sua letterina {Reperì. Comune della Somm., p. 187):
LXXVI INTRODUZIONE
Ma, allora, chi potrebb' esser questa donna?— Io non
son giunto ad appurarlo. Pur tuttavia mi pare che il
poeta alluda al suo cognome, nel primo di questi versi ':
d'un monte chiaro e pien di bianca neve
esce la fiamma ardente che mi strugge;
specialmente se essi si confrontino al loro modello pe-
trarchesco^:
d'un bel, chiaro, polito e vivo ghiaccio
move la fiamma che m'incende e strugge. ,
In questi ultimi, quel monte, messo tanto in evidenza
nel verso del Chariteo, non c'è affatto. A me, insom-
ma, parrebbe di poter leggere nella voce monte ed in quel
chiaro, che gli vien immediatamente dopo, il cognome
Chiaromonte; appartenente così a quella nobilissima fa-
miglia francese, stabilitasi a Napoli con Tristano ^,
fin dal tempo di re Giacomo; come ad un'altra famiglia
siciliana, anch'essa molto nobile; oppure, non facendo
« Don Ferrando nostro diletto. Ve ringratiamo del porco che ce haviie
mandato quale invero fò tanto belio e bono ch'à poco à poco ce Fhavi-
mo mangiato con la serenissima Regina nostra figlia, et ancora ce n'è
alcun residuo, et jà fecemo dare lo capo al nostro secritario [Antonino
Fiodo] , secondo ce scrivissimo. 1512... Trattereti con li venetiani
havere una pezza di panno negro venetiano che serve a la persona no-
stra». Ciò che delia Luna dice il Ch., assai meglio s'adatterebbe alla
figlia di questa regina, anche di nome Giovanna, e, perchè vedova di
Ferrante II, anch'essa regina, chiamata dal n. {ib., 239-240):
quella sembianza
de la beltà del ciel, che l'altre avanza.
Ma anch'essa, con la madre, lasciò Napoli per la Spagna solo nel 99, e
non nel 92, come la Luna: v. Passabo e Notar Giacomo, IL citt.
' Son. XVIII, 9-10; e v. le nn. nella nostra ediz.
2 Rime, ediz. Camerini, Milano, 1887; P. I, son. cl, 1-2.
3 Fu anche celebrato dal n. nella Pascha, VI, 151 sgg.
INTRODUZIONE LXXVII
alcun conto di quel chiaro, vedere nel monte un'allu-
sione a qualcuna delle tante famiglie nobili napoletane,
il cui cognome contenga, o solo o in parte, quella voce:
che in quel tempo e' erano a Napoli i De Monti o Belli
Monti De Montihus ; i Montalto o Montauto ; i Mon-
tatiro Monterò '.
Il Chariteo, scrivendo le rime per la Luna, ebbe,
senza dubbio , quasi sempre rocchio a quelle che per
Laura scrisse Francesco Petrarca : dove piìi , dove meno ,
dove bene, dove male, fra tutte le bellezze e i difetti,
è sempre quel modello che s' intravede. E fin qui, niente
di strano: prima e dopo di lui, tutti i lirici italiani,
cantando l'amore, avean ed han fatto l'istesso. Quel-
l'amor platonico, che, di tratto in tratto, è sopraffatto
da desiderii umani e sensuali -; quell'abuso della ri-
flessione e quell'eccessivo sottilizzare; quella dolce ma-
linconia réverie ; quell'avversione per la folla e quella
predilezione per la vita solitaria: insomma quasi tutte
le « situazioni petrarchesche » , come le chiamò il De San-
' Tenendo presenti que' due versi, la donna del Ch. sarebbe potuta
essere « madamina Lucente de Chiaramoute contessa de Alili , mo-
gliere del ditto comte » , Pascasi© Diaz Garion (sul quale v. Ardi.
stor. camp.., I, fase. 2-3, p. Gì sgg. ), che ebbe anche «lo guberno
de Monte alto»; ma essa era già morta nel 1491 (Ced. di tes., voi.
142, f. 405). — Ricordando invece l'anno ed il mese, in cui la Luna
parti da Napoli per la Spagna , si potrebbe sospettare eh' essa fosse
la « magnifica madamma Lucrecia » d' Alagno, figlia di Mariano, conte
di Bucchi'anico, e di Catarinelia Orsini, e, per bellezza, degna nipote
della celebre amante di Alfonso il Magnanimo ( v. Croce , Lucrezia
d' Alagno, p. 71, e l'/lrc/i. stor. nap. XI, pp. 398-99). Ferdinando
di Cardines , ch'era suo marito, essendo in Ispagna, nel 92, aveva man-
dato un « homo .... qua « — a Napoli, — « per condurre » la moglie
<( in quesse parte » — in Ispagna — ; come si rileva da due lettere di
Ferrante I , del 6 e 7 ott. 92 , a Ferdinando e a Ouitterro di Cardines
{Codice aragonese, ediz. Trincherà, Napoli, 1866, voi. II, P. I,
pp. 174-173).
2 V. A. Bartou, Storia della lett. ital., VII, pp. 237-240.
LXXViri INTRODUZIONE
ctis \ potrebbe trovare, chi volesse, quale più, quale
meno sviluppata, qua e là nelle rime amorose del no-
stro. Ma non perciò il Cliariteo deve chiamarsi un pe-
trarchista, nel senso che comunemente si dà a questa
parola. Da questa conformità di fisonomia e di senti-
menti sviluppati nel nostro, involontariamente forse,
per lo studio amoroso del Cannoniere, all'imitazione
e alla copia cieca e servile del contenuto petrarche-
sco, come la intesero e praticarono gran parte dei ri-
matori del quattro e cinquecento, ci corre. Nelle rime
di quest'ultimi, il soggetto, l'occasione, il succedersi
dei sentimenti e dei pensieri, tutto è petrarchesco; ma
in quelle del nostro, in quanto al contenuto, non c'è
di petrarchesco che l'intonazione, il colore. — Per la
forma, per la parte tecnica, invece, il Chariteo è ve-
ramente moltissimo debitore al Petrarca: in tutte le
sue rime, e amorose e politiche e storiche, domina sem-
pre, assoluto signore, lo stile del Canzoniere, l'espres-
sione, la locuzione, la frase, il modo di dire, le figure
stilistiche: insomma ciò che si può chiamare la retto-
rica petrarchesca; e questa, talvolta, come vedremo,
esagerata nei suoi difetti -.
Or, fra quasi centocinquanta componimenti amorosi,
* Saggio critico sul Petrarca, Napoli, iS6g, pp. 112-221.
' V. De Sanctis, Op. cit., p. 25 sgg. , ed i recenti Studien zur
poetischen Teclviik Petrarcas di Ernst Raab (Leipzig-Reudnitz ,
Hoffmann, 1890). — E si potrebbe anche dire che la divisione che
s' ha nel Canzoniere di rime in vita ed in morte di Laura, ap-
parisca in certo modo anche nelV Endimione: la prima parte sarebbe
rappresentata dalle rime scritte durante i dodici anni che la Luna ri-
mase in Napoli, e la seconda da quelle ch'ei compose nei dieci anni
che essa stette in Ispagna. Ma neW Endimione le due parti, logica-
mente divisibili, son materialmente riunite; e riuniti ad esse son an-
che tutti i componimenti storici e politici ; proprio come dai Petrarca
eran state distribuite le rime d'argomento vario nelle due pai'ti del
Canzoniere; dalle quali, corn' è noto, furon poi estratte per la prima
volta dal Marsand {Le rime del Petrarca, Padova, 1814).
INTltODUZIONE LXXIX
a me pare che solamente i sonetti XIII, XVI, XVIII,
XXXI, XLV, LUI, LVI, LXVII, LXXXVII-IX, CVI,
CLXII, dimostrino una notevole e sicura ispirazione pe-
trarchesca; e questa, in qualcuno di essi, neanche e-
stesa a tutto il componimento. Negli altri sonetti e can-
zoni, e madrigali e ballate, ben vi sono degli epiteti,
dei paragoni, qualche similitudine, qualche intero verso
che ricordi il Petrarca; ma, nell'insieme, o sono del
tutto originali, o derivano, come vedremo, da tutt'al-
tra fonte.
Qaasi tutto il son. XIII ' :
Io seguo chi mi fugge e si nasconde,
e fuggo da chi vuol farmi contento,
lascio il terren per seminar nel vento ,
dispregio il frutto e pasco amare fronde;
misero sitibondo fuggo l'onde,
possendo aver piacer , cheggio tormento ,
ad ognor son chiamato, et io no' '1 sento,
e chiamo chi giammai non mi risponde;
Ne le fiamme divento un pigro gelo,
e'n mezzo de la neve un foco ardente,
lascio il riposo e vo dietro al dolore;
e parte del XVIII:
Per l'aere vo volando , e son portato
da tempestosi venti, e non mi movo;
e caldo e freddo ognora inseme provo,
e spero da speranza abbandonato;
sono una bruttissima riproduzione del famoso e brutto
sonetto petrarchesco, fatto tutto di antitesi-;
Pace non trovo, e non ho da far guerra
e temo e spero, ed ardo, e son un ghiaccio,
1 Avverto qui che, e nei vv. già riferiti del n. e in quelli che rife-
rirò, io mi son permesso di ammodernarne alquanto l'ortografia.
' P. I, xc. — E aggiungi anche dei vv. 26-30 della non meno cele-
bre canz. IX : V. in n. al son. XIIL
LXXX INTEODUZIONE
e volo sopra '1 cielo, e giaccio in terra;
e nulla stringo, e tutto '1 mondo abbraccio...
"Veggio senz'occhi; e non ho lingua, e grido:
e bramo di perir, e cheggio aita;
ed ho in odio me stesso, ed amo altrui:
pascomi di dolor; piangendo rido.
Anzi , nel secondo sonetto del nostro , anche i primi due
versi derivano dall' istesso modello \
Il son. XVI comincia così:
Da che si leva il sol da i rosei scanni
de l'alba, insin che giunge al celo ispano,
piango e sospiro;
ed il Petrarca aveva detto ':
Ed io, da che comincia la bell'alba...
non ho mai triegua di sospir . . .
II son. XXXI:
Benché d'ogni speranza Amor mi priva
di posser alcun tempo aver mercede,
non si mutarà mai, mentre ch'io viva,
la mia costante, intera e ferma fede;
ed il Petrarca -^
' 11 Petrarca , son. cit. , 1 1 :
In questo stalo son, donna, per vui;
ed il CuARiTEO, son. XVIII, 1-2:
Poi che saper volete in quale stato,
madonna, amor servendo, io mi riuovo.
- P. I, sest. I, 7, IO ecc.
3 P. i, son. LUI, 1-2 sgg.
INTRODUZIONE LXXXI
In non ivr d'amar voi lassato unquanco,
madonna, né sarò mentre ch'io viva.
Il nostro, nel son. XLV ':
Il (li languendo e sospirando, spero
la notte trovar pace ai miei martiri.
Nel letto poi radoppian li sospiri,
l'angoscia e '1 duol si paventoso e fero ;
similmente il Petrarca ^:
■«Tutto '1 di piango; e poi la notte...
trovora'in pianto e raddoppiarsi i mali:
cosi spendo "1 mio tempo lagriraando.
11 bou. LUI del nostro:
svegliati pensieri, o spirti accesi,
è l'atto certamente sul petrarchesco ^:
passi sparsi , o pensier vaghi e pronti ;
ma, oltre che l'intonazione e la fattura materiale, ce
lo accerta il confronto dell'ultima terzina del modello:
anime gentili ed amorose,
s'alcuna ha'l mondo; e voi nude ombre e polve,
deh , restate a veder qual è '1 mio male ;
• Nel son. preced. a questo, il Chariteo chiama la Luna
questa neve si calda e si possente;
perchè il Petrarca (P, I, son. evi, 9) aveva chiamata Laura cal-
da neve.
^■P. I , son. cLxi, 1 , 3-4.
^' P. F, son. ex, I, sgg.
■ai
LXXX'II IMIIUDUZIUNK
con l'ultima terzina dell'imitatore:
lagrime infinite, o lungo affanno.
e tu, voglia noiosa e pertinace,
deh, date ad altrui parte del mio danno!
E dalle due terzine di un altro sonetto petrarche-
sco ^ :
Non è sterpo né sasso in questi monti,
non ramo o fronda verde in queste piagge,
non fior in queste valli o foglia d'erba;
stilla d'acqua non vien di queste fonti,
né fiere han questi boschi si selvagge,
che non sappian quaut'è mia pena acerba;
derivò il nostro derivò tutto il suo son. LVl :
Qual anima ignorante, o qual più saggia.
Il Petrarca si sdegnò non poche volte contro il velo
che gli nascondeva il volto di Laura ^; ed il Chariteo, si-
milmente, nei sonetti LXXXXVII-IX, prima loda, poi
maledice e impreca contro un « crudel mantello », che
copriva il volto ed il petto della sua donna '\
L'altro celebre sonetto del Petrarca * :
Tassa la nave mia colma d'obblio;
ha dato certo origine al CLXII del nostro, coìnw ve-
ramente di strane persouificazioui; ma di esso e di al-
tri pochi che rappresentano l' esagerazione della ìna-
1 F. II, XX.
2 r. I, ball. 1, son. xxiv , cauz. vii; cfr. Bautoli , Ojj. cit.,
p. 247.
3 V. le nn. a questi soun.
^ P. I, son. cxxxvit.
INTRODUZIONH LXXXIll
niera petrarchesca, avremo occasione di parlare più
appresso.
È invece tutto classico il contenuto di un'altra non
piccola parte delle rime amorose: ivi son riprodotti,
con molta opportunità e con molto buon gusto, i brani
più belli della poesia amorosa e gnomica dei latini, i
distici più appassionati delle elegie di Properzio, di
Catullo, di Ovidio; le massime epicuree delle migliori
odi oraziane; alcune similitudini e i pensieri amorosi
delle egloghe e dei poemi di Virgilio, e fin qualche
brano di Lucrezio e qualche sentenza delle tragedie di
Seneca.
Nelle Stanze il Poliziano, hqW Arcadia il Sannazaro,
sebbene da fonti alquanto diverse, avevan fatto lo stes-
so; ma è merito non piccolo del Chariteo l'aver ver-
sato nella «morta gora» della lirica del quattrocento,
noiosamente ed ostinatamente petrarcheggiante, quasi
un secolo prima di Bernardo Tasso ^ e due prima del
Chiabrera e del Testi, un limpido e fresco rivoletto di
poesia classica.
Di tutti questi poeti latini, il preferito è Properzio:
è lui che fa le spese della maggior parte di queste i-
mitazioni. E questa preferenza si spiega facilmente. Ad
* Nelle Ode, pubblicate per la prima volta nel 1360 (v. Rime di B.
r., Bergamo, 1749, voi. II). La vii'', per esempio, mandata a Vitto-
ria Colonna:
Non sempre il cielo irato,
come la XIX del Chariteo :
Non sempremai dal elei procella cade,
è parafrasi della oraziana {Od. II, ix) :
Non sempar imbres nubibus hispidos
manant in agros.
LXXXIV INTRODUZIONK
un poeta e amante platonico del rinascimento, ch'avesse
voluto scegliersi tra i lirici romani un modello da se-
guire: Catullo e Orazio dovevan sembrare troppo sen-
suali e libertini ; un po' mutabile e troppo malinconico
Tibullo; più prossimo, invece, all'ideale, allora do-
minante, dell'amor petrarchesco per l'unica Laura,
Properzio , che aveva sempre amato , e con tanta
forza di passione, la sola Cynthia. E fu certamente da
codesto pseudonimo, col quale Properzio aveva can-
tato la sua Ostia, che al nostro dovette venir l'idea
di chiamar Luna la sua: che, com'è noto, Cynthia è
appunto uno dei tanti nomi , che i poeti latini han dato
alla luna '. Ma ecco come una delle più graziose ele-
gie properziane " si trasformi in un'elegante ballata •*
del nostro:
Et vos incertara, inortales, funeris horara
quaerilis, et qua sit mors adilura via,
quaeritis et caelo, Plioenicum inventa, sereno,
quae sit stella homini coramoda quaeque mala . . .
Solus araans novit, quando perilurus et a qua
morte
lam licet et Stygia sedeat sub arundine remex,
cernat et infernae tristia vela ratis :
si modo damnatum revocaverit aura puellae,
concessum nulla lege redibit iter.
Per saper Torà incerta,
quando dal corpo umau l'alma si parte,
in numerar le stelle alcun s'afl'anna;
e chi per tal cagion la magic'arte
ha multe volte esperta,
et in ciascuna, e questo e quel s'inganna.
1 Cfr. , per esempio, Ovidio, Episl. xvn, 74. — Anche Tibullo chiama
la sua Plania .De//«: uno dei soprannomi di Diana o della luna.
2 Elegiar. Ili, xxiii, 1-4, 11-16 (Catulli, TinULLi, Propertii, Car-
mina, ediz. L. Mliller, Lipsia, 1874).
3 È la IH della nostra ediz,, pp. S7-5S.
INTRODUZIONE LXXXV
Solo chi langue amando ,
sa con qual morte e quando
gli estremi giorni suoi deve finire;
e sa per qual camino, o presto o tardo,
arriva al suo morire.
Vede nel eie! del desiato sguardo
l'una e l'altra fortuna,
et è tra gli altri fuor d'umana sorte.
Che, se per troppo ardor pervene a morte,
bench'oltra l'onde stigie sia passato,
— donde tornar non suole anima alcuna, —
se la sua donna il chiama, è revocato!
E parafrasi, in parte, dell'elegia xviii del libro I, è la
prima stanza della canz. I:
Tra questi hoschi agresti ,
selvaggi, aspri et incolti,
ov'io son solo, et altri non mi vede,
posso far manifesti
i miei tormenti occolti
e 'I foco, che l'afflitta alma possedè;
sol che constante fede
si trove in questi sassi . . .
Onde cominciaranno
i profondi sospiri,
ch'empion del mio dolore il bosco ombroso,
a ricontar l'affanno,
le pene e li martiri,
che sente il cor senza sperar riposo?
Haec certe deserta loca et taciturna querenti ,
et vacuum Zephyri possidet aura nemus:
hic licet occultos proferre inpune dolores,
si modo sola queant saxa tenere fidem.
Unde tuos primum repetam, mea Cynthia, fastus?
quod mihi das flendi, Cynthia, principium ? '
E così, dall'elegie i, vii, del libro I derivano, in tutto
* Quest' istessa elegia fu imitata anche ilal Sannazaro, nella sua
canz. vn , 1-6 (v. le nn. alla canz. del n.).
LXXXVI INTRODUZIONR
in parte, le ultime stanze della canz. Ili ed il son.
CXV; dalla i e dalla vi del II, i sonn. XXV e XXXV;
e dalle elegie ni, xxiv, xxv e xxviii del III, i
sonn. VIII, XXXIII e LXX. Ma, di tutti questi com-
ponimenti, io darò ordinatamente solo que' versi che ri-
producono, un po' pili da vicino, l'originale latino.
At vos, (leJuctae quibiis est fiducia Innae
et labor in magicis astra piare focis,
en agedum dominae mentem convertite nostrae
et facite Illa meo palleat ore magis.
Tunc ego creJiderini vobis et siJera et amnes
posse Cytaines ducere carminibus.
Aut vos, qui sero lapsum revocatis, amici,
quaerite non sani pectoris auxilia '.
Ma voi che'n l'ombre vane e fraudolente,
per arte tenebrosa,
avete imperio incognito et occolto ,
convertite la dura, immobil menle
di quest'alma sdegnosa ,
e fate impallidire il suo bel volto;
che , quanto di voi ascolto
che sapete voltare ad una ad una
le stelle con la luna,
allora il crederò, quando veda io
ch'amor tenga quel cor, che tene il mio.
E voi, che tardi siete a consigliarmi,
cercatemi altra aita,
che'n van si dà consiglio al desperato 2.
Nec tantum iugenio, quantum servire dolori
cogor et aetatis tempora dura queri 3.
Misero me, che non tanto u riiigei;iio
1 Eleg. I, I, 19-26.
2 Canz. Ili , 56-69.
3 Eleg. I, VII, 7-8.
INTHUDUZIUNK LXXWII
son sforzato a servir, qnant'al (iolore,
et ho per giiiilardoue ii'a e disdegno '.
Quaeritis, unde mihi totiens scribantur araores,
uiide meus veuiat moUis in ora liber.
Non haec Calliope, non liaec mihi cantat Apollo,
ingenium nobis ipsa pvieila facit 2.
Volete saper come e da qual parte
mi vengon gli amorosi e dolci versi,
dal duro ingegno mio tanto diversi ,
che notte e giorno scrivo in varie carte?
Le Muse o Febo non m'han fatta parte
di lor canti soavi, ornati e tersi;
ma, poi che a mirar voi le luci apersi,
donna, mi venne il molle ingegno e l'arte 3.
Me iuvenura pictae facies, me nomina laedunt,
me tener in cunis et sine voce puer,
me laedil, si multa tibi dedit oscula mater,
me soror et cum quae dormit amica simul:
omnia me laedunt: timidus sum: ignosce timori'*.
1 Son. CXV, 12-14.
2 Eleg. II, 1 , 1-4.
3 Son. XXV, 1-8.
''' Eleg. II, VI, 9-13. — Anche il vs. immediatamente seguente;
Et miser in tunica suspicor esse virum,
fu tradotto dal nostro (son. XXXIV, 9-10):
. . . sotto una schietta e sottil gonna
temo che gode ascoso un mio avversario;
come già dal Petrarca (P. I, son. cxxx , ór8) :
Sempre pien di desire e di sospetto,
pur come donna in un vestire schietto
celi un uom vivo.
LXXXVIII INTRODUZIONE
Ogni cosa m'offende, ogni figura
clangei, di donna, o d'uom vivo o depinto,
et ogni altro pensiero, o vero o finto:
timido son; perdona a la paura!...
e temo un fanciullin, che dorme in curia *.
In me tela maneut, manet et puerilis imago:
sed certe pennas perdidit ille suas,
evolat beu nostro quoniam de pectore nusquam
adsiduusque meo sanguine bella gerit.
Qui libi iocundumst siccis habitare meduUis?
I puer, en, alio traice tela tua!
Intactos isto satius temptare veneuo:
non ego , sed tenuis vapulat umbra mea ^.
La forma pueril , gii adunchi strali
provo di piombo , e quelli d'oro inseme ;
ma di cacciarti altrove nulla speme
mi resta , ch'a l' intrar perdesti l'ali.
Dimi, rapace Amor, perché ti piace
pascere in nudo et arido terreno,
facendo col mio sangue assidua guerra?
Quanto saria miglior col tuo veneno
tentar gli altri tranquilli in lieta pace,
ch'io non son uom , ma ombra e poca terrai ^
luppiter, adfectae tandem miserere puellae .
Una ratitì fati nostros porlabit amores
caerula ad infernos veiitìcata lucus.
Si non unius, quaeso, miserere duorum.
divani, si vivet: si cadet ilia, cadani '.
' Son. XXXV, 5-8, u-
2 Eleg. Ili, IH, 13-20.
3 Son. Vili, 3-14 — N<'i vv. 1-2, de-i riferiti, ricorda Ovidio, Metani.
I, 466 sgg. ed il Petrarca (P. I, e. xv, 10-11):
. . . Amor l'aurate sue quadrella
spenda in me tutte, e l'impiombale in lei.
< Eleg. Ili, XXIV , i, xxv, 5-8. Queste due elegie formavano un sol
componimento in alcuni codd. e nelle vecchie stampe.
INTRODUZIONE LXXXIX
Quella, per cui me misero perdei,
è posta ia imminente e gran periglio:
dagli, Signore, alcun sano consiglio,
stringendoti pietà di me e di lei.
L'uno e l'altro governa egual fortuna;
di sua salute pende la mia vita:
se lei vive, vivrò; morrò, se more ".
Quo l'ugis a demens? iiuliast tuga: tu licei usque
ad Tauain fugias, usque sequetur Amor.
Non si Pegaseo vecteris in aere dorso ,
nec libi si Persei moverit ala pedes ,
vel si te sectae rapiant talaribus aurae.
nil tibi Mercuri proderit alta via.
Instat semper Amor supra caput, instat amanti,
et gravis ipse super libera colla sedet 2.
Alma, qual tia meglior: verso occidente
correr, o ber del Nil le ferii! onde?
o de terra cercar le più profonde
parti, per non sentir dolor si ardente?
Che parli?, quul furor gira la mente?:
dove pòi tu fuggire, chi t'asconde,
ch'.'^juor teco uou venga?.-.
Cerca ove dorme il sole, ove si desta,
da l'Indi primi a l'ultimi Britanni,
ch'Amor ti vedrai sempre in su la testa! ^
Dall'elegia hxxvi di Catullo è quasi tutta tradotta e pa-
rafrasata la canz. IV:
IS'alcun conforto al misero è concesso
tra li gravi tormenti, che sostene
ne la vita mortai, colma d'affanni,
e quando vede e pensa fra sé stesso,
ch'egli è benegno e pio, nò gli sovene
d'avere in alcun tempo usati inganni.
1 Son. XXXIII, 5-1 1.
2 Eleg. Ili, xxviii, 1-8.
3 Son. LXX, 1-7, 12-14.
XG INTHODUZIONF.
Prendi, dunque, alma, ai-dir; che se molti anni
alberghi in questo cor, pien di tormento,
potrai goder la gloria più perfetta,
che vien da mente retta , . .
Ma tu che') eie! governi e mare e terra,
se pur pietà ti stringe di mortali ,
e se ad alcun giamai porgesti aita
nei fin de la sua vita;
a me miser soccorri in tanti mali,
e togli dal mio cor gli ardenti strali.
Per me non cheggio omai mercede alcuna,
canzon, da la mia Luna;
ma prego il elei che presto ambi duo foglia,
lei di molestia, e me d'acerba doglia *.
Siqua recordanti benefacta priora voluptas
est homini, cum se cogitai esse pium,
nec sanctam violasse fìdem , nec foedere in ullo
divom ad fallendos numine abusum homincs,
multa parata maneut in longa aetate, CatuUe,
ex hoc ingrato gaudia amore tibi.
di, si vestrumst misereri, aut si quibus uniqnam
extremam iam ipsa morte tulistis opera,
me miserum aspicite; et, si vitam puriter egi,
eripite hanc pestem perniciemque mihi . . .
Non iam illud quaero, contra me ut diligat illa . . :
ipse valere opto et taetrum hunc deponere morbum.
di , reddite mi hoc prò pietate mea '.
Ed anche da Catullo queot'altri , quasi letteralmente:
mentem amore revinciens,
ut tenax hedera huc et huc
arborem inplicat errans ■'.
E più fervido Amore e più vivace
m'abbraccia il cor, qual edera tenace
l'arbor per ogni parte errando implica *.
* Vv, i-io, 55-IÌ4.
- Vv. 1-6 , 17-20 , 25-26.
3 Carm. 1.X1 . 33-35.
•* Sou. LXXX,'6-8.
INTRODUZIONE XCI
O.li et amo. Qnare iJ t'aciam, Ibrtasse reqniris.
Xescio, seil (ieri sentio et excrucior ^
D'amore e d'odio in qual guisa si mova
il vario affetto in me, no' '1 saprei dire,
ma so , che amare inseme et aborrire
mi danno pena inusitata e nova ^.
E (la Ovidio, poi '':
Pdscitur in vivis Livor: post fata quiescit.
So che poi del mio fin sarà quieta
l'invidia, che si pasce or in me vivo*.
Quid faciam, dubito. Dolor est meus iila videre,
sed dolor a facie maior abesse tua 5,
E discerner non sa la dubia mente
qual sia pena minor: pascer la vista
ne la mia Luna, o contemplarla assente^.
Venlus erat nautis aptus, non aptus amanti:..
Raptus es hinc praeceps . . .
linguaque mandantis verba imperfecta reliquit;
vis illud potui dicere triste vale . . .
Ut te non poteram, poteram tua vela videre,
vela diu vultus detinuere meos.
At postquam nec te, nec vela fngacia vidi,
et quod spectarem , nil iiisi pontus erat,
lux quoque (ecum abiit '.
' Caini. Lxxxv, 1-2.
2 Son. CVIH, 1-4.
3 Amor. I , XV. 39.
* Son. \', 12-13.
5 Epist. XV, 233-234.
6 Son. X , 9-11.
' Epist. sili, II, 9. 13-14, 19-23.
XCII INTRODUZIONE
A' naviganti era opportuno il vento,
tanto importuno a cui langueva ardendo.
Si veloce al partir ella si mosse,...
chMo non li diedi le saluti estreme...
Ma poi che più mirarla io non potei
per la distanza . ..
tutti eran ne la vela i sensi miei,
fin che la vista tenebrosa, oscura,
altro che '1 largo mar più non comprese.
Cosi con lei partio
l'alma, la gioventute e"i viver mio *.
Spes bona soUicito vieta timore cadit '.
E vinta dal timor cade la speme 3-
Deriva dalla famosa ode xxx ^ del libro III d'Orazio
questa quartina •' :
L'ingegno, che diventa, ardendo, audace,
al bel nome farla tal monumento,
che no' '1 ruinarebbe onda né vento ,
non foco, non invidia, o tempo edace.
E della non men celebre ode Solviiur acris hiems (I, iv)
è tutta una parafrasi, e, in qualche punto, traduzione
letterale, la canz. VIII*^:
Già se dissolve ornai la bianca neve
per gli alti monti . . .
Or ti conven, felice e chiaro spirto,
pascer di bei pensier la mente grave,
' Canz. XI, 16-17, 3'i 33> 9''9*^! 102-103.
2 Epist. cit., 124-
3 Canz. XII, 55.
* Vv. 1, 3-5.
^> Son. LXI, 5-8: V. la n. a questa poesia.
6 V. le nostre nn. a questo componimento.
INTRODUZIONE XCIII
in questi giorni lieti e geniali;
or dèi sotto l'anaena ombra soave,
d'edera, o lauro, o di venerea mirto
ornar le tempie nitide, immortali.
Vedi con passi eguali
intrar quella crudel, pallida morte,
per le superbe porte
d'alti palazzi, e per le case umili
di genti basse e vili :
la frale e breve vita, che n'avanza,
ne vieta incominciar lunga speranza.
Ed anche il son. XCIII, diretto al Sannazaro:
Sincero, Tuom de vita integro, e sano
di mente, va secur senza alcun dardo,
è traduzione ed imitazione dell'altra ode oraziana In-
teger vitae sceìerisque purus ' ; che già il Petrarca a-
veva fatta saa in più sonetti ^.
I sonn. XXXIX, XL e CXXXVIII son tutti, nell'in-
sieme d'ispirazione virgiliana; e ne riferiremo uno più
appresso, come saggio dei migliori versi del nostro. Ma
son letteralmente tradotti da i celebri esametri del
I V Georg ìcon ^ :
te, dulcis coniunx, te solo in litore seenni ,
te, veniente die, te decedente canebat;
questi due versi del nostro
4 ,
Te, dolce Luna mia, venendo il sole,
te, partendosi il di, canterò sempre.
1 Odar. I, XXII ; e v. le nn. a quel son.
2 Cfr. P. I, sonn. xcv, 1-4; cviii, 14; cxxiv, 1-3.
3 Vv. 465-4C6. — Il Manzoni tradusse nel Nome di Maria il secondo
di questi versi :
Te, quando sorge, e qi\ando cade il die.
^ Son. LXXXIII, 12-14.
XCIV INTRODUZIONE
E dalle querele di Bidone al freddo duce troiano,
che vuole abbandonarla , nel IV dell' .^«m ^ e nel-
l'epistola ovidiana ^, derivano quasi tutti i lamenti,
le preghiere, le imprecazioni del poeta alla fredda Luna,
che sta per lasciar Napoli, nella sest. V e nei sonn. CXIX ,
CXXI. E come le driadi virgiliane gridano, e i monti
e i fiumi e le terre e i popoli della Tracia piangono,
per la morte d'Euridice, anche nel IV Georcjicon ^; così,
per la partenza della Luna, le ninfe napoletane, il Ve-
suvio, il Sebeto, Baia, nella canz, XII ^ Virgilio a-
veva detto degli alberi, su cui Gallo anelava d'incidere
il nome dell'ingrata Licoride ^"
.. . crescent illae, crescetis amores;
ed il Chariteo ne fa quasi tutto un sonetto ^ :
Crescete, o versi miei, e cresca amore,
cresca la gloria e fama a l'alta Luna,...
Crescati le fiamme in uno immenso ardore.
Quando Lucrezio, trattando dell'amor sensuale, secon-
do le dottrine epicuree, scriveva questi versi:
Ut bibere in somnis sitiens quora quaerit, et umor
non datur, ardorem qui membris stinguere possit,
sed laticum simulacra petit frustraque laborat
in medioque sitit torrenti flumine potans,
sic in amore Venus simulacris ludit amantis,
nec satiare queunt spectando corpora corara,
nec manibus quicquam teneris abradere membris
possunt errantes incerti corpore toto ';
* Vv. 296 sgg. : V. le nn. alla sest, V.
^ Epist. vit: V. le nn. alla sest. cit.
3 Vv. 461-463: V. le nn. alla canz. XII, 27-33 e sgg.
^ Vv. 27-40.
^ Bucolicnn , x, 54.
<» Son. XLII, 1-2, 5. — Nelle nn. a questo componimento i versi di
Virgilio, per distrazione, non furono ricordati.
7 De ver. ìiat., iv, 1089-1093.
INTKOODZIONE XtV
avrebbe mai potuto immaginare che un poeta italiano
del quattrocento ne avrebbe fatto un sonetto d'amor pla-
tonico f '
Qual uom languendo giace in febre ardente,
ch'essendogli negato il freddo umore,
bever si sogna un fiume, e più l'ardore
gli cresce in mezzo al liquido torrente;
tal vo sempr'io con gli occhi e con la mente,
donna, cercando voi, mio primo amore,
e poi, presente al vostro almo splendore,
mirando, a più mirar son più fervente.
Che sazia mai non è l'anima errante,
incerta in qual dolzor si pasca pria,
nel bel petto , o 'n le luci oneste e sante.
Cicerone nel De natura deorum ', riferì quest'epi-
gramma di Quinto Lutazio Catuio:
Constiteram exorientem Auroram forte salutans,
quum subito a laeva Roscius exoritur.
Pace mihi liceat, caelesles, dicere vestra,
raortalis visus pulcrior esse deo.
Era bello ed ingegnoso; fece quindi fortuna presso i
lirici italiani; e specialmente quando questi s'accorsero
che anche il Petrarca se n'era compiaciuto ". Ognuno
lo volle nel suo canzoniere: Io imitarono o lo tradussero
Guido de' Conti ■*, il nostro, Galeazzo di Tarsia % Anni-
1 Son. LXXIX, i-ii.
2 I, XXVIII. — Cfr. anche A. Weichert, Poetar, lat. vitae ei rorm.
reliq., Lipsia, 1830, p. 128.
3 P. I , son. LXXIX.
* La bella mano, Firenze, 171 5; nei sonn. Quanto 2^^to il del e
Quanto piti m'allontano, a pp. 32 e 70. — A. M. Salvini nelle sue
Annotazioni sopra le rime di m. G. de' Conti, che sono in fine
di questa stampa, notò (pp. 226, 246) per il primo, che rejìigr. di
Q. Catuio era stato imitato, oltre che dal De' Conti, dal Caro, dal Ma-
rino, dal Manfredi, dal Malleville, dal Ronsard «e da altri Poeti ».
• 5 Nel son. IV. Fu osservato dal march. S. Spiriti a p. io della sua
ediz. (Rime di G. di T., Napoli, 1758) e ripetuto da F. Bartelli
(Il Canzoniere di G. di T., Cosenza, 1888, p 38).
XCVI INTRODUZIONE
bai Caro ', G. B. Marino ^ Eustachio Manfredi '; e
chi sa qiiauti altri!
Ecco ora la traduzione del Chariteo ':
Quando l'Aurora il di ciiiaro n'adduce ,
volgendo io gli occhi al lucido oriente ,
per contemplare Apollo, almo, splendente;...
vidimi da man manca uscir la luce
de la mia Luna, anzi mio sole ardente,
che sfavillava quel foco possente,
ch'a morte e vita inseme mi conduce:
— Vaghi lumi del cielo, a cui soggiace
quanto qui cresce e quanto si consuma ... ;
Siami licito dir con vostra pace ,
che questo viso umano è di magiore
vertii; che i cor di magior fiamma alluma!
La canz. XIV par quasi scritta dopo una lettura delle
tragedie di Seneca: tante sentenze di quel tragico vi
s'incontrano:
. . ■ Quod nimis miseri volunt,
hoc facile creduut ■''.
' Son. I ( Rime, Venezia, appresso Aldo Manvlio, 1372 ); e fu no-
tato dallo stesso Salvini, nelle postille all'esemplare delle rime del
n., ora nella Riccardiana (v. le nn. al sou. CIX del n., ove ho rile-
vata qualche somiglianza fra il son. del Caro e quello del Ch.) ; ma
ivi notò, solo da parte del n. e del Caro, F imitaz. dell'epigr. lat. ;
sfuggita al Gaspary, Gesch. d. ital. Lit. II, p. 687; che ricordò inve-
ce, come imitazioni del son. del Caro, una poesia del Mallevine, che
il Salvini fa invece derivare dall'epigr. iat., un son. del Volture, una
canz. del sec XV.
2 Nella P. I Delia Lira del cuv. SLmuno (Venezia, Giunti e Ciotti ,
1Ò12) il son. che comincia: Spuntava l'alba: fu notato anche dal Sal-
vini (p. xcv, n. 4).
3 Son. III. {Rime, Bologna, 1760); e l'u osservato, oltre che dal Sal-
vini (/. cit), anche da F. Foffano, Rime scelte di E. M., Reggio Emi-
lia, 1888, p. 72. Da lui conobbe la derivazione del son. del Caro , il Ga-
spary, Stor. di leu. ital., II, P. II, p. 290.
* Son. CIX.
^ Hercul. fur. {Tragoediae , ediz. Peiper-Richter, Lipsia, 1867),
317-318.
INTRODUZIONE XCVII
Che '1 miser sempre suole
creder ciò, che più vole '.
Prona est timori semper in peius fides -.
Par che più prona sia
nel raagior mal la fede 3.
Curae ieves loqnuntur, ingentes stupent *.
. . . che '1 picciol male
insegna di dolere,
il grande di tacere s.
. . . Herbas quae l'erunt letum auferes?
Uhique mors est ... ^
Mori volenti desse mors numquara potest ''.
Se non può l'ebre, il tosco,
o d'erbe altra mistura,
devria cacciar quest'alma, invitta e forte.
In ogni parte è morte :
ognun può morir, quando
gli piace, pur che voglia
et osi uscir di doglia **.
* Vv. 12-13. '—E dagli stessi vv. di Seneca anche TAriosto (Ori.
fur. I, Lvi, 7-8): V. le nn. alla canz. cit.
2 Ilercitl. fur., 320
3 Vv. 17-18.
* Phaedr., 615.
s Vv. 37-39.
6 Oedip. fragm., 149, 131-
" Phaedr., 886.
8 Vv. 43-49-
XIII
XCVIII INTKODUZIONE
Miserrimum est timere, eum speres nihil i.
Chi uo' spera, non teme 2.
Ma di tutti i lirici contemporanei solo il Sannazaro ha
esercitato una influenza notevole sul nostro. La maggiore
e miglior parte delle rime di Sincero era stata composta
sotto il regno degli Aragonesi, e il Chariteo ben poteva
conoscerle. Che il Sannazaro avesse, invece, imitato il
Gareth, non pare: egli era troppo altero e disdegnoso.
E poiché quasi tutte le rime amorose del nostro furon
scritte tra il 1480 ed il 94 ^, ben avrebbero potuto eser-
citare una qualche influenza su di esse i canzonieri, al-
lora già da tempo in quegli anni stessi pubblicati
e compiuti, di Giusto de'Conti ^ di Lorenzo de'Medici ^
' Troad., 434.
2 Vs. 59. — Derivano anche da Seneca {Hercul. fur. 318-319) i vv.
14-15 (iella stessa canz.
3 Poiché la Luna parti da Napoli nel 1492, quando il poeta già l'a-
mava da dodici anni , vuol dire, che tutte le poesie amorose comprese
dal son. I al LIX, ove è ricordato Vanno sesto della sua pena ^ furono
scritte tra l'So e l'Só; quelle contenute tra quest'ultimo ed il son. LXXI ,
neirSj; e tra quest'anno ed il 92 le altre che stanno tra l'ultimo son. cit.
ed il CXXIII ; il son. CXLV e la canz. XV nel 93 , il son. CLXIV
nel 1502 ecc.
4 La bella mano era stata pubblicata in Bologna nel 1479 : v. l'e-
diz. cit., p. IX ; ed era conosciuta a Napoli nel sec. XV, come diremo
in seguito.
5 Nel «codice in foglio di pagine 292», che Lorenzo mandò, nel
1466, a don Federigo d'Aragona, erano « aggiunti nello estremo alcuni
suoi sonetti e canzone, perchè pareva che cosi a Federigo piacessi»,
(v. Poesie di L. de' M., ediz. Carducci, Firenze, Barbèra, 1859, p.
xiv). Dunque, fin da quell'anno, una parte del canzoniere del Magni-
fico era in Napoli . a disposizione dei letterati della corte. Il son. xv
del Medici (Opere di L. de' jV., Firenze, Molini , 1825; voi. I, p. 17):
Io seguo con desio quel più mi spiace,
è fatto tutto ad antitesi, ed ha quasi l'istesso principio del son. XIII
INTRODUZIONE XCIX
del De Jcnnaro * , di Giovanni Antonio de Petru-
del Chariteo (riferilo a p. lxxix) :
Io seguo chi mi fugge e si nasconde;
e, benché e l'uno e l'altro possan pur derivare dal Petrarca (P. I, son.
xc) e da un verso di Ovidio {Amor., II, xtx, 36):
Quod sequitur, fugìo ; quod fugit, ipse sequor ;
pur tuttavia io credo che il u. conoscesse il son. del Medici, quando
scriveva il suo; si cfr. anche i vv. 4, 7, 9, del secondo, con i vv. 11,
4, 9-10 del primo. — Il son. cxii pubblicato, poi , nell'ediz. cit. (voi. I ,
p. 237) come del Magnifico :
A voi sola vorria far manifesto,
non è, pur troppo!, che il son. LIX del Chariteo (v. nella nostra ediz.
a pp. 83-84), con qualche variante; e si trovava al f 125 u del Cod.
A. 3 del sec. XVI, dell'Ardi, mediceo « tra diverse altre poesie di Lo-
renzo » (ib., p. XIV e 266)! — Non è poi inutile ricordar qui che il Me-
dici scrisse i sonn. l e lii, per il duca di Calabria, e «a nome d'una
donna» e «quando la S. andò al bagno» (ediz. cit., voi. I, p. 253).
1 II suo Canzoniere è opera giovanile, e fu scritto tra il 1464 e
l'Ss , come mostrerò altrove. Il Gli. diresse il suo son. CCVIII al
usuo Januario », qualche anno prima- della morte di lui (1508) : dun-
que lo conosceva e lo stimava. — Qualche somiglianza vi è tra il son.
VII del De Jennaro :
Giunge la notte e tutto il mondo imbruna,
ed il XXXIX del n. :
Ecco la notte : il ciel scintilla e splende ;
tra il principio della canz. v. del primo :
Non posso più celar quel che m'accora
perché '1 tacere ognora — mi molesta ,
e quello della canz. IH del secondo:
Non posso più homai tener le fiamme eterne
e INTRODUZIONE
ciis ^ , di Giovai! Francesco Caracciolo - e dì altri mi-
nori, specialmente napoletani^; ma di essi nessuna trac-
cia di qualche importanza m' è riuscito di trovare nel-
r Endimione.
II Sannazaro nella sua canz. XV dice che le più ter-
ribili pene immaginate dai poeti antichi per il loro
classico inferno, le soffre tutta l'anima sua, tormentata
tanto tempo nascose : . . .
che (se la cieca mente il ver discerne)
de le pene amorose
nulla più che '1 tacere afflige il core.
Questi due riscontri furono notati anche da G. Barone, editore del
De Jennaro (pp. 85, 235); ma gli altri moltissimi confronti che ei fa
a pp. 72, 75, 77, 80, 103, 112-113, 125, 159, 181, 195, 196, 251-255, 283,
307, 386, 403, tra le rime del n. e quelle del De Jennaro, provano
solo che tutti quei versi del Chariteo non hanno nessunissima rela-
zione con quelli del suo più vecchio amico.
* I cui Sonecti (Bologna, Romagnoli, 1879) furono scritti pi-ima
dell'i I decembre 86; quando il loro autore fu giustiziato.
2 I suoi Atnori e i Sonetti Sextine et Canzone in laude de li occhi
intitulati Argo, furono pubblicati a Napoli da Girolamo Carbone nel
1 506, e dallo stesso stampatore della prima ediz. deWEndimion — Mae-
stro Joanne Antonio de Caneto — ; ma composti molto prima. — Un
suo son. a Baia (f. ciiii v):
Più de nuH'altro sino al mondo splende,
ricorda quello del Chariteo (son. LXXII):
Baia, di lacciuol venerei piena;
ma qualche conformità di pensiei'o e di frase è piuttosto da attribuirsi
alla fonte comune : per es. Orazio, Epist. I , i, 83 :
Nullus in orbe sinus Bais praelucet amenis,
tradotto dal Caracciolo nel vs. cit.
3 Per es. il Perleone deZ Rustico Ro.mano, pubblicatosi a Napoli nel
1492. Questo Rustico è quel «Joliano Perlione secretarlo de le cose
maritime », nel 1489, e cortigiano di don Federigo, rimasto del tutto
INTRODUZIONE CI
dall'aaiore '. Essa piange sempre, e, come le Danaidi:
ma poi:
il dì, mille e mille urne
torna ad empir tutte di fondo scosse;'^
trovando esauste e vote
di tristo umor le gote,
subito torna indietro sospirando:
cosi sempre iterando
sua disperata via ; '^
e, come Sisifo, essa
ripigne un sasso faticoso e greve;
il qual cadendo poi di salto in salto,
(a che sovente al piano
quella dolente in vano
ignoto a coloro che, negli scorsi anni, si occuparono dei rimatori na-
poletani del quattrocento ; e quello stesso , cui il De Jennaro dirige
i sonn. XVII, xx, xxvii, lvih ; ed ai quali il Perlione risponde in parte
con i suoi XVI, XXXII. Egli era anche in relazione con G. F. Carac-
ciolo (son. LVi) e con quel « misser Francisco Galiota » (sonn. xxi,
xxiii, xxxiii), di cui si occupò già il Torraca, fra i Riniat. napol. del
sec. decimoq. (in Discus. e rie. lett., Livorno, 1888, pp. 127-129, 146-
153); e di cui dirà più a lungo, il prof. F. Flamini, che ne ha tro-
vato r intero canzoniere. Del Galioto sinora io non conosco che un
manipoletto di Rime e Prose scelte da un ìnanoscritto in perga-
mena: ventitré poesie, una novella ed alcune epistole in prosa, al duca
di Calabria ed al principe di Capua. Il suo canzoniere doveva già es-
ser tutto composto nel marzo gì, se ad esso si accenna nelle Ced. di
tesar, (voi. 142, f. 329 r) con quei «trentasei quaterni de carta de
coyro ... in li quali è notato una opera facta per Francisco Galioto >)•
Ma di questi e di altri ignoti rimatori napol. del quattrocento m'oc-
cuperò più largamente, fra non molto.
* E il Sannazaro prese forse da Lucrezio (De rer. nat. Ili, 991-
1121) questa immaginazione: v. le n7ì. alla canz. II del n.
2 Canz. cit. vv. 19-20 {Rime, ediz. cit. di Padova, Cornino, 1723,
pp. 385-388)-
3 Vv. 26-30.
cu INTRODUZIONE
discenda, e s'affatiche in tempo breve
mille volte; *
e, come Tantalo:
Al dolce SUOI! de'rivi freschi e snelli
sitibonda poi siede:
e, quando ber si crede,
l'acqua da' labbri s'allontana e fugge; ^
e, finalmente, le pare:
... or presso, or lunge
vedersi in su la testa
una selce funesta
con ruina cadere e con spavento; ^
oppure :
In una rota poi volubil molto
vede a forza legarsi ,
ed in giro voltarsi
"col vento sempre, senz'aver mai posa;*
o:
stia resupina in terra,
a sostener la guerra
d'un vóltor fiimulento, aspro e rapace^.
Ed anche il Cbariteo, nella canz. II, dice che il suo cuore,
tormentato dall'amore :
rinasce
e cresce ognora, assai più che non manca,
devorato da quel bramoso augello^;
1 Vv. 36-41.
'■' Vv. 49-52.
3 Vv. 73-76.
4 Vv. 81-S4.
5 Vv. 98-100.
<! Vv. 7-9, sempre secondo la nostra ediz.
INTRODUZIONE CHI
anch'io, dice il poeta:
anch'io:
al lito d'un veloce e alto fiume,
un vaso perforato e pien d'inganni
empio de l'acqua turbida et oscura; '
Ne l'acque fresche, liete, dolci e chiare
ardo digiuno, infermo e sitibondo
e bagnar non mi posso i labri ardenti; ^
anche per lui:
ne l'aere pende, per sua morte, un sasso,
che minaccia mina a tutte l'ore ...'>*
Insomma, egli esclama:
Chi vuol dunque vedere il mal che preme
quell'anime infelici e tormentate
ne li martiri del tartareo regno,
venga a mirar tutte le pene inseme
dentro '1 mio cor. '*
E il Sannazaro aveva detto:
. Qual pena, lasso!, è si spietata e cruda
giù nel gran pianto eterno,
che nel mio [)etto interno
via maggior non la senta l'alma stanca ? ^
Il Charitco, rivolgendosi alla canzone:
Canzone, io non fui mai
nei campi Elisi e fortunate valli; '^
* Vv. 17-19.
^ Vv. 27-29.
3 Vv. 43-44.
* Vv. 53-57.
^ Ediz. cit., vv. 1-4.
^ Vv. 66-67.
CIV INTRODUZIONE
ed il Sannazaro:
Canzon mia, mai nel cielo,
tra li beati spirti,
non fui 1.
E dai sonetti l, li, lii, lxii di quest'ultimo, il no-
stro derivò i suoi XV, XIV e XI; anzi, in quest'ulti-
mo, il quattordicesimo verso:
Tante ire son negli animi celesti?,
è rubato interamente dall'originale -; e dalla prima
stanza della canz. vii di Jacobo, il nostro imitò il prin-
cipio della sua canz. I ^
Quel rivolgersi alla finestra ed alla porta dell'amante
con benedizioni ed imprecazioni, quelle lettere amo-
rose ^ e specialmente l'immaginato incontro della donna
amata, dopo la morte, nel luogo di pene, e queste sop-
portate cosi impassibilmente, e disprezzate, anzi anela-
te dall'innamorato, s'egli potrà godersi eternamente il
viso adorato ^; sembrano a me motivi derivati tutti dalla
1 Vv. II I-I 13. .
- Ma si l'uno che T altro avrebbero ben potuto trailurre il virgiliano
(jEfì., I, II):
. . . tantaene animis caelestibus irae ?
3 V. le nn. a tutti questi componimenti del Ch., nella nostra eJiz.
* V. Tigri, Canti popol. tose, Firenze, Barbèra, 1869, p. 183, sgg. ;
D'Ancona, Poesia pop. ita!., p. 175 n., 197, 201, 236, 242-43, 307;
e le nn. ai componimenti cit. del Ch. nella nostra ediz.
^ D'Ancona, Op. cit., pp. 243-244. L'ottava siciliana di A. Vene-
ziano, cit. a p. 339, derivante dal son. che il Lemenk scrisse ad imi-
tazione di quello che ora riferiamo del n., conferma sempre di piii
l'intonazione popolare che noi crediamo di scorgere in queste com-
posizioni del Ch. — I germi di questa immaginazione s'incontrano nei
trovatori e nella nostra lirica antica (cfr. Nannucci, Man. della lett.
INTRODUZIONE CV
poesia amorosa popolare, tanto viva e florida accanto
alla poesia cólta, nel secolo XV '. Simili immagina-
zioni ardite e appassionate, tutte proprie del popolo,
che, nelle sue fantasie e nei suoi sentimenti, non è fre-
nato da leggi rettoriche, non s'incontrano nei lirici
latini e nel Petrarca. Veramente queste influenze po-
polari, se tali sono, appaiono piìi accentuate nelle poe-
sie di endecasillabi incatenati e negli Sirammotti, che
wqW Endimione. Pur tuttavia, anche in questo se no
può scorgere qualche traccia.
Nella VI delle canzoni giovanili egli prevede, che,
per aver servito più la sua donna che Dio, andrà al-
l'inferno; ma anche là, dice il poeta,
potrò goder, mirando — la beltade,
che l'alma libertade — mi possedè^;
e poi soggiunge:
E se pur mi concede — dio tal sorte,
di poi de la mia morte, — ch'io ti possa,
separato da l'ossa, — contemplare;
non mi si potrà dare — alcun tormento,
anzi vivrò contento — e glorioso;
e, in loco tenebroso — e infelice,
serrò lieto e felice; — e, si pentita
non sei di darmi vita — dolorosa ,
essendo invidiosa — del mio bene,
e voi darmi le pene, — ch'ai presente
sostengo, lasso!, assente — dal tuo ameno
volto, chiaro e sereno, — e pien di gloria;
potrai con poca noia — contentarli:
serrami gli occhi, intenti ad adorarti! ^
ital. del pr. sec, Firenze, Barbèra, 1874; voi. I, pp. 123-125); ma (que-
sti potettero pure averli dalla poesia popolare.
1 D'Ancona, Op. cit., pp. 126 sgg., 172 sgg.
i Canz. cit., vv. 46-47, a p. 43S della nostra ediz.
3 Vv. 4S-61.
XIV
evi INTRODUZIONE
Tutte queste belle cose son condensate — e forse per-
dono un po' della loro originalità, dopo un bagno di
petrarchismo puro, — nel son. CV; ch'ebbe, anch'esso,
molta fortuna presso i lirici italiani; i quali, come ve-
dremo, lo rubarono addirittura al nostro e lo inse-
rirono tra le loro rime, o lo saccheggiarono il meglio
che seppero:
Voi, donna, ed io, per segni manifesti,
andremo inseme a l'infernal tormento,
voi, per orgoglio; io, per troppo ardimento,
che vagheggiare osai cose celesti.
Ma, perché gli occhi miei vi son molesti,
voi più martiri avrete, io più contento,
ch'altra che veder voi gloria non sento:
tal ch'un sol lieto fia, tra tanti mesti!
Ch'essendo voi presente a gli occhi miei
vedrò, nel mezzo inferno, un paradiso,
che 'n pregio non minor che 'i cielo avrei.
E, se dal vostro sol non son diviso,
non potran darmi pena i spirti rei :
chi mi vnol tormentar, mi chiuda il viso! •
Nel son. XX egli dice d'esser vicino a morire:
si V aiilige il mortali^ impio dolore,
che gli arreca il disprezzo della sua donna.
Ma s'alcuna ombra, in ciel o negli abissi,
riman, di poi l'acerba morte mia,
non gira mai tra l'anime quiete;
anzi, chiamando il nome, in ogni via,
di lei, per cui, morendo, al mondo vissi,
non passarà le negre onde di Lete !
E nel son. XXIV: appena m'innamorai della Luna,
1 Non tutte )e poesie espulse dalla seconda ediz. éeW Endiwione,
il Ch. volle distrutte interamente. Da alcune di esse formò nuovi so-
INTRODUZIONE CVII
fili senza vita, e, vivo ancor, discesi
ne gl'infernali orribili tormenti.
I'] COSÌ , più che a qualche brano dello elegie ovi-
cliaue, più che a qualcuno dei pochi acceuui petrar-
cheschi all'amor sensuale, mi sembran derivate dalla
poesia popolare alcune descrizioni voluttuose e qual-
che maliziosa allusione, che s'incontrano nelle rimo
del nostro. Il popolo non suol coprire con niun velo lo
sue fantasie amorose, predilige grandemente quelle de-
scrizioni, ha meno scrupoli por le allusioni maliziose,
oscene; anzi, v'insiste, vi scherza, ne gode.
Nel commiato di uno dei suoi componimenti giova-
nili, il Gareth, rivolgendosi alla sua canzone, dice:
ormai ti tace,
poi che non trova pace — l'alma trista,
ina, tutta umile in vista, — senza indugio,
cercando il tuo refugio — al loco usato,
vàtene in quel beato — e casto letto;
bacia il candido petto — e le mammelle,
e l'altre parti belle, — ove Cupido
sòl albergar, come nel proprio nido ! '
E così, nel son. XIV, egli immagina che, dormendo,
ha potuto contemplar nuda
quella beltade e quel soilve, ascoso
candor;
ma poi, maravigliato luì stesso della straordinaria sua
felicità ^ esclama subito:
vidi quel che non spero veder mai ! ^
netti. Questo, per es., a me par fatto in sostituzione della canz. giov.
ora cit., mancante alla stampa del 1509.
' Canz. giov. 1 , 41-48.
2 Vv. 10-12.
CVIII INTRODUZIONE
E cosi, nel son. XV, anche dormendo, crede di aver
vicino quel
petto, che profusamente
d'almo candore e pudicizia abbonda;
e di poter finalmente dire:
01" ne le braccia io tengo il corpo adorno
d'ogni valore, or son con la mia dea,
or mi concede Amor lieta vittoria ^
Nel son. XXV ricorda
la bocca e'I niveo collo,
le mani e '1 giovenil marmoreo petto ; 2
ma, nei sonn. LXVIII e LXXXVI, le
bellezze alme e gioconde,
nel collo e latteo petto inseme accolte,
e voi, maggior dolcezze, agli occhi occolte;
e « le altre dolcezze' ascose » ^.
E qui convien fermarci un po' sulla così detta « ma-
niera» del Chariteo: quel fare «concettoso, ghiribizzo-
so, luccicante» % che gli fu rimproverato, è appunto
nelle poesie amorose che si manifesta di più. TI D'An-
' Vv. 7-1 1.
2 Vv. lo-i I.
3 Vv. 5-7; vs. 12. — Ma qui, per queste «dolcezze ascose», ebbe
presente Ovidio, Metam. i, 500-502 (di Febo e Dafne):
laudat digitosque manusque
bracchiaque et nudos media plus parte lacertos:
siqua latent. meliora putat.
* D'Ancona, Secent., p. 186.
INTRODUZIONE CIX
cena crede che il nostro « probabilmente j)orfasse co-
testa sua maniera di poetare dalla propria patria»:
la Spagna. Ivi « gli ultimi esempj della forma proven-
zale artificiosissima, congiunti colle imitazioni petrar-
cbescbe, generarono una poesia, cui il genio partico-
lare del paese comunicava un certo che di tumido e di
pettoruto. È un gongorismo anticipato, che il Cariteo ve-
nendo in Italia esagerò, anticipando fra noi le svene-
volezze del marinismo. E così due volte , nel secolo XV
e nel XVII, ci venne dalla Spagna quello che per l'ul-
tima invasione più nota fu detto il secentismo e che fu
quel modo pingue , sonante e peregrino , che già Cice-
rone ' notava negli iberici latineggianti - ».
Or di questo « gongorismo anticipato », di cui la ma-
niera del nostro sarebbe stata un'esagerazione, noi do-
vremmo trovare almeno i germi nelle opere di quei
poeti della corte di Giovanni II di Castiglia, che fu-
rono più in voga durante l'adolescenza del Gareth ; il
quale, nato verso il 1450. come dicemmo, non restò
in patria oltre il 1468 ^ Se non che, nelle poesie di
Fernan PerezdeGuzman(i378?-i46o?),di Juan de Mena
(141 1-1456), di Inigo Lopez de Mendoza, marchese di San-
tillana (i 398-1458), e di Ausias March (1400?- 1462?),
— i più celebri di quei poeti * — nessuno isterico della
* Pro A. Licinio Ardita (in Scripta, P, II, voi. ii), x, 26.— Ma, dice
qui il Gaspary, Stor. della leu. ital., II, P. I, p. 367: « lo stile gon-
fio di Lucano, di Seneca e della più antica poesia spagnuola [v. F.
d'Ovidio, Secentismo Spagnolismo, in N. Antol., 15 ott. 1S82] è al-
tra cosa; perfino il gongorismo ha per più rispetti un carattere di-
verso dal marinismo ».
2 Op. cit., 189.
3 V. a pp. sviii-xix.
* Pe' quali ho seguito Don José Amador de los Rios, Historia cri-
tica de la liter. espanola, Madrid, 1865, voi. VI; e specialmente i
i capp. vii-vni, e la 1* delle Ilustracionés , 1. cit., pp. 489 sgg. , su Au-
sias March: il solo di questi poeti spagnuoli che ricordi il D'Ancona,
Secent, p. 189.
ex INTRODUZIONE
letteratura spagniiola, ch'io sappia, ebbe a notar mai,
non solo germi di codesto «gongorismo anticipato»,
ma neppure esagerazioni di sorta. Tutti questi poeti,
eruditi, imitatori, qualche volta servili, della Come-
dia e del Canzoniere \ e non troppo entusiasti dol-
l'ultima poesia provenzale ", non potevan far altro che
inculcare al giovinetto barcellonese lo studio e l'imita-
zione di que'due capolavori dell'arte toscana; e forse,
come vedremo, insieme a qualche altro loro coutempo-
raueo, questo fecero; ma uient'altio che questo.
Codesta maniera del nostro, la quale nelle rime amo-
rose si presenta soltanto sotto la forma di una moderata
esagerazione ^, pare a me, invece, che sia effetto un
po' dell'indole pronta- e vivace del Gareth, per la quale
egli volentieri era portato a « parlar poeticamente ov-
vero da cortesano » "*; un po' del desiderio di dir cose
nuove e di « gradire » '*; un po', finalmente, dell'imita-
zione di quella, che un critico geniale chiamò « la parte
terrestre del Petrarca » ^
« 11 Petrarca — dice il De Sanctis ' — non sempre
scrive sotto l'impeto del sentimento... In questi mo-
menti poco felici... si abbandona a ragionamenti, che
talora volgono in sottigliezza o in sofisticherie. Nelle
migliori canzoni, trovi intere strofe, che sono un pro-
^ Amador de LOS Rios, Op. cit., voi. cit-, }ìp. 8i, 98-103, 115, nS,
122-1:3 ecc.
2 Nella corte di Giovanni II di Castiglia vi furono imitatori della
scuola*provenzale, come il re istesso, Alvaro de Luna, Alonso de Car-
tagena, Enrique de Aragon, Macias l'Enamorado; ma, oltre che già
forse dimenticati quando il n. era adolescente, erano i più deboli fra
que' poeti. V. Amador de los Rios, Op. cit., voi. cit., p. 63 sgg.
3 « Il Cariteo [quei fiori artificiosi] li sparse nel suo petrarchismo
ancora moderatamente » (Gaspary, St. della lett. ital., II, P. I, p. 306).
* Così P. SuMMONTE nella lett. cit. al Colocci : v. a p. xlv.
5 D'Ancomà, Secent., p. 231.
6 De SAiféTis, Op. cit., p. 35.
' Op. cit., pp. 21-22, 26.
INTRODUZIONK CXI
saico discorrere verseggiato. In luogo di rappresontaro
i suoi sentimenti li analizza, e dotato come è di una
intelligenza sottile, vi sofistica su . . . L'acuta riflessione
del Petrarca si ficca troppo spesso dove non è chia-
mata, ed anche ne' momenti di schietto calore poetico.
Di che quella sua tendenza a costringere talora iu un
verso solo cose e rapporti lontani , che ora annunzia
velocità d'immaginazione ed ora sottigliezza di rifles-
sione ».
Or il nostro non fece altro che calcar un po' la mano,
come, del resto, fauno tutti gl'imitatori, sui difetti del-
l'originale. D'altronde, il petrarchismo, con quasi più
di un secolo di vita sulle spalle, era un po' invecchiato:
il Gareth e, contemporaneamente a lui, il Tehaldeo
credetter questo un modo di ringiovanirlo '. — ^E se il Pe-
trarca scherza spesso col nome di Laura, il nostro non
poche volte fa lo stesso con quello della Luna:
sole in terra, in elei candida Litna; ^
la quale, poi,
Luna non è, ma chiaro e vivo sole ^.
E, se deve nominare il volto di lei, dirà:
... de la mia Luna il sole, *
oppure:
... la luce
de la mia Luna, anzi mio sole ardente; ^
1 Cfr. D'Ancona, Secent., p. 196.
» Son. LXXI, I.
3 Bali. IV, 3 , a p. 58 della nostra ediz.
4 Son. LXXU, IO.
5 Sou. CIX, 3-6.
CXn INTUODUZIONE
e se ha da dire che l'ha veduta ilhiminata dal sole:
Vidi la Luna e con lei giunto il sole ^.
E poiché la sua Luna è, in ogni modo, un sole, se essa
è ammalata, egli prega cosi Iddio di non farla morire:
Non voler più d'un sole e d'una Luna:
che, se costei si trova in ciel gradita,
ambi duo perderanno il proprio onore 2.
in un sonetto ^, il Petrarca aveva detto che Amore lo
trattava in tal modo che a lui sembrava d'esser come
il bersaglio allo strale, come la neve al sole, come la
cera al fuoco, come la nebbia al vento ; e che lo strale,
il sole, il fuoco, il vento erano i pensieri, il volto, gli
occhi, le parole di Laura. E il nostro, subito, a descri-
vere le armi di Amore, nel son. LXXXVI:
Gli occhi e i capei, di puro e nitido oro,
eran dardi, ond'ebb'io mille ferite,
e le candide guancie e colorite
le faci, ov'io m'infiammo e discoloro.
Il bel petto e le mani eran veleno *.
1 Son. XXVII, 3.
2 Son. XXXIII, 12-14. — «Chi ricorda quanto il Cariteo ghiribiz-
zasse nei suoi componimenti poetici sul nome di Luna, appartenente
all'amata, crederà trovar un'immagine di quelle arguzie in que-
st'ottava :
La luna è bianca, e vu' brunetta siti,
idda è d'argentu j e vu' l'oru purtati ;
la luna nun ha ciammi, e vu' l'aviti;
idda la luci spanni, e vu' la dati;
la luna manca, e vu'sempri crisciti,
idda s'aggrissa, e vu'nun v'aggrissati;
adunca, ca la luna vù' vinciti,
bedda, Siili e no Luna vi chiamati.
Cosi il D'Ancona, Poes. xjop. ital., p. 383; ma ho riferito «la ver-
sione originaria siciliana » (p. 384), in luogo della letteraria.
3 P. I, LXXXIX.
* Vv. 5-9.
INTRODUZIONE CXIII
In un son. già ricordato, il Petrarca avea rassonìigliata
l'anima sua, combattuta da pensieri carnali , ad una nave,
che, in una notte tempestosa d'inverno, passa tra Scilla
Cariddi: essa ha per pilota Amore, e, per rematori, quei
pensieri, che, incuranti del pericolo e della morte, tra-
sportano la nave in mezzo alla tempesta: ma un vento
di sospir, di speranze e di desio
rompe la vela;
pioggia di lagrimar, nebbia di sdegni
bagna e rallenta le già stanche sarte;
lo due solite stelle — gli occhi di Laura — non si veg-
gon più: egli dispera di salvarsi. Or il Chariteo, te-
nendo presente questo sonetto, e, dovendo dire che gli
occhi suoi, benché non abbiano più nessuna speranza,
ardorio dal desiderio di riveder la Luna, che era in
Ispagna; immagina che gli occhi suoi partano nella
nave della Speranza e dell'Ardire per la Spagna; e
che, mentr'essa con la sua vela, che è il Desiderio del
poeta, mossa dal vento dei Sospiri , e con Amore per
pilota, corre sull'onde de' Pensieri, un nembo, che è lo
sdegno della Luna»,
rompe il legno alle Sirti d'oblio ',
Gli Occhi del poeta si salvano. Amore li ha nascosti
in sé; la Speranza e l'Ardire periscono; ma, con tutto
ciò, gli Occhi continuano sempre ad ardere!
E sono delle esagerazioni, dei «concetti» nel son.
XVI , dove il poeta , avendo detto che è felice solo nel
sonno, conchiude:
Morir vorrei dormendo eternamente,
che, se '1 sonno a la morte é somigliato,
in tal morte io vivrei felicemente; •
» Son. CLXII, 8.
2 Vv. 12-14.
CXIV INTRODUZIONE
e nel XXIX; in cui egli, assicurato alla sua donriK
che gli occhi di lei fauno scorno al sole, che il volto
« rasserena l'aere », il petto fa « a mezza notte il gior-
no», domanda:
Or che vuol dire: è forse mia ventura,
o costume d'Amore, o colpa vostra,
che, in tanto lume, io viva in vita oscura? *.
Un'altra volta, nel sou. XLVII, la Luna gli domanda:
che cosa faccia, a che cosa pensi; e lui: come!,
voi sempre state dentro a l'alma raia,'^
e non lo sapete?
Ma il Chariteo, pur prendendo dall'arte classica, dal
Petrarca, dal Sannazaro, dalla poesia popolare, i mo-
tivi dei suoi sonetti e delle sue canzoni, vi metteva di
suo molto buon gusto, una melodia soave, ignota ai
rimatori suoi contemporanei , e fiu'anche al Sannaza-
ro; una dolce mtilinconia. Alcune delle sue poesie ri-
velano una ispirazione, una emozione vera. Più d'ogni
altro, egli ritraeva assai bene la mestizia, la voluttà,
l'incanto delle notti d'estate, sul paradiso delle rive
e del golfo di Napoli; benché, qua e là, si belhi visione
sia turbata dal ricordo lontano di un motivo virgiliano,
e dall'eco di qualche verso di Catullo e del Petrarca.
Ecco la notte: il eie! scintilla e splende
di stelle ardenti, lucide e gioconde;
i vaghi augelli e fere il nido asconde,
e voce umana al mondo or non s'intende.
La rugiada del ciel tacita scende :
non si move erba in prato o 'n selva fronde ;
chete si stan nel mar le placide onde ;
ogni corpo mortai riposo prende.
* Vv. 12-14.
2 Vs. 9.
INTRODUZIONE CXV
Ma non riposa nel mio petto Amore,
Amor d'ogni creato acerbo fine;
anzi la notte cresce il suo furore.
Ha sementato in mezzo del mio core
mille pungenti, avvelenate spine,
e 'I frutto che mi rende è di dolore *.
Alla vera luna son diretti questi versi, in cui par quasi
(li sentire tutta la malinconica dolcezza e la frescura
d'un cbiaror lunare, in una notte d'estate:
Diva, antiquo splendor del primo cielo,
liquida più che mai, più reiucente,
tempra l'ardor de l'infiammata mente
col notturno, soave e dolce gelo.
Forse però ne vai senza alcun velo,
che '1 proprio specchio or vedi in occidente:
miralo ancor, dentro '1 mio petto ardente,
ch'a te, che lutto vedi, io già no"l celo.
Contempla e mira ben l'alma figura,
quegli occhi, che di mente mi privaro
e quella fronte in nulla parte oscura;
vedi il solido petto, e bianco e chiaro..."
E Baia, in tutta l'amenitri oraziana e boccaccesca del
suo lido, e in tutte le tiepide voluttà dei tempi ara-
gonesi, e col triste ricordo di un amore infelice, li-
torna in quest'altri bei versi:
Baia, di lacciuol venerei piena,
monumento de l'alte, antique cose;
fortunato lito, o piaggia amena,
o prati, adorni di purpuree rose ;
o monti, valli apriche, o selve ombrose,
onde fluènti da sulfurea vena,
dolci acque , chiare , tepide , amorose ,
nou vi soven di mia continua pena? ^
• Son. XXXIX; v. le nostre nn., ove son rilevate le imitazioni.
2 Son. CXXXIX, I-I2. E leggi anche il son. precedente.
3 Son. LXXII, 1-8.
CXVI INTRODUZIONE
E piene di vita e di naturalezza, e commoventi son
quasi tutte le poesie scritte durante e dopo la partenza
della sua donna.
In una bella sestina — e il Chariteo in queste su-
però il Petrarca , che ne scrisse delle bruttine \ — tro-
viamo questi versi, pieni di affetto:
Luna, ove ne vai?, che 'n tante rime,
da me fusti cantata in canto lieto ?
et or ti taccio per soverchio pianto ? . . .
- Ma tu non vuoi di tua, ne d'altrui vita
curarti , né del mio continuo pianto.
Pur te ne vai, mostrando il viso lieto,
me , misero ! , lasciando in certa morte.
Fuggite ornai di noi , leggiadre rime ,
continiiate , o pianti , i vostri versi.
Per quello intero amor , che 'n tanti versi
mostrai, cantando la tua casta vita,
per la fé che si lagna in varie rime ,
per le lagrime mie, per Taspro pianto
dami , per premio , spazio , ond' io la morte
possa sperar con l'animo più lieto.
S' io meritai di te risguardo lieto ,
o se mai ti far grati li miei versi ... 2
Mentre la Luna attraversava il Tirreno, per andare in
Ispagna, egli scriveva ad Alfonso d'Avalos ed a Fer-
randino, allora principe di Capua:
Marchese, io mi ritrovo in mezzo al mare,
dove ogni onda crudel nel cor mi frange ,
Amore è meco, che mi preme et ange,
e si pasce di mie lagrime amare.
Partita è quella che mi fé' cantare ! . . . ^
* «Nelle sestine è senza esempio il Cariteo, ed ardirei dire, che
abbia nella facilità e semplicità e bellezza superato l'originai suo: il
Petrarca» (Meola, Op. cit., p. 113).
2 Sest. V, 37-39, 55-68, a pp. 140-141 della nostra ediz.
3 Son. CXXVI, 1-5.
INTRODUZIONE CXVII
Lascia del viver mio, lascia '1 governo
al duro , illacrimabil fato , amaro ,
Principe , d'arme e di vertù preclaro ,
e del fonte Dirceo liquore eterno.
Comportami che 'n pianto sempiterno
consume gli occhi . . . ; '
e poi questi altri, che paion scritti in riva al mare;
Sempre eh' imbruna il dì l'aer gravato ,
e fa nel mare orribil movimento ,
procella dentro al cor si negra io sento ,
che *1 sangue di timor riman gelato.
Era pur , Luna mia , nel tuo bel fato ,
che sapessi , per vero esperimento ,
in qual guisa si volve il mar col vento ,
quando Orion nel eie! si mostra armato ?
Puoi tu soffrir , si delicata e molle ,
tant'affanni col cor soave e dolce ? ^
Ed al venticello primaverile, che veniva di Spagna:
Vago , salubre , estivo e grato vento
che da l'occaso or vien per colorire
i prati , e fai li miei pensier fiorire ,
ond' io cordoglio e refrigerio sento ;
a l'amoroso e dolce movimento
par che la Luna mia da lunge aspire
quella ambrosia soave, ov' io morire
già desiai , de viver me n' contento.
» Son. CXXVII, 1-6.
2 Son. CXXX, i-io. — Il quinto ed i sgg. vv., dei riferiti, ricordano
quello di Ovidio {Trist. Ili, ii, i):
Ergo erat in fatis Scylhiam quoque visere nostris;
e questi del Sannazaro (son. lxvii, 9-11):
Dolce, antico, diletto e patrio nido ,
dunque era pur nel fato acerbo e crudo
ch'io non gittassi in te l'ultimo strido?;
i quali veramente furon scritti nel 1501, mentre quelli del n. nel 1492.
CXVIII INTRODUZIONE
Favonio , che con chiari e lieti giorni
l'oscure notti mie vai rinovando ,
e '1 ciel di gioia e me di doglia adorni ;
ricordati , ti priego , al tempo , quando ,
mutato in Euro , al bel luogo ritorni ,
di riportarne i miei sospir volando *.
La gelosia, da cui egli era tormentato durante la
lontananza della Luna, è molto ben ritratta in queste
terzine, più efficaci di alcuni interi sonetti del Sanna-
zaro ^, suir istesso argomento :
Col mar , col vento e con la nebbia oscura
combatto, e piango e chiamo chi non ode,
e , per cui temo , forse è già secura.
Quest' è '1 pensier che sempre il cor mi rode ,
si come '1 mar lo scoglio. vita dura !
Quella , per cui m'attristo , or forse gode ! 3
Nelle poesie immediatamente precedenti a queste ,
v'era ripetizione sonnolenta degli stessi concetti e delle
stesse forme; il dolore sopraggiunse a riscuotere il poeta.
Tanto è vero quel che delle rime del Petrarca in morte di
Laura, dice il De Sanctis: « La sventura . . . nelle anime
poetiche è una crisi salutare che le ritempera, le spi-
gra, raduna tutte le sue potenze in un sol punto, o-
pera come la passione; ne nasce come una concentra-
zione ed accrescimento di forze » ^.
Quasi tutta l'altra metà dell' Endimione contiene can-
zoni e sonetti d'argomento politico o storico. Un gruppo
1 Son. CXLII.
2 Sonn. xxn e xxiii.
3 Son. CXXXIV, 9-14.
* Op. cit., p. 222.
INTRODTJZIONK CXIX
di queste poesie, le canz. VI, VII, XVI, XVIII e una
dozzina di sonetti, riguarda più particolarmeute la di-
nastia aragonese ed i principali avvenimenti che ad essa
;ji riferiscono.
Più bella, più originale di tutte ò la canz. VI, che
al suo tempo dovett'esser molto celebro, e, per essa,
il Charitco dovette entrar maggiormente nella buona
grazia degli Aragonesi, e divenire il loro poeta uffi-
ciale. Essa ha, come disse il D'Ancona, «una certa gran-
dezza eroica di stile» '. Questa canzone è quanto di me-
glio poteva far l'arte e la poesia in servigio della po-
litica. Solo il nostro, perchó spagnuolo, poteva inte-
ressarsi tanto alle sorti di una dinastia spagnuola. Il
Fontano, per Ferrante I e por Alfonso II, il Sannazaro,
per don Federigo, non fecero né potevan fare altrettanto.
Il titolo che questa canzone ha nella prima edizione ,
del 1506; Aragonia -, ci dice subito il suo argomen-
to. — Uno degli ostacoli che gli Aragonesi si trovaron
sempre di fronte , e quando vollero impadronirsi del
regno di Napoli, e quando ambirono di riunire sotto il
loro scettro il rfsto parte dell'Italia, fu la loro 0-
rigine straniera: essi erano principi italiani troppo re-
centi; e, sotto questo riguardo, si trovavano in miglior
condizione gli Angioini, anch'essi stranieri, ma natu-
ralizzati in Italia sin dalla metà del secolo XIII. Bi-
sognava sradicare quest'opinione dalla mente dei vol-
ghi ; bisognava mostrare che gli Aragonesi non fosser
degli intrusi nella politica italiana ; bisognava ad ogni
costo annientare questo qualsiasi vantaggio che gli An-
gioini e i re di Francia, loro legittimi successori, a-
vevan su gli Aragonesi, Ma con qual mezzo? Il Cha-
riteo ricorse all'intervento divino. Iddio aveva creduto
meritevoli del trono napoletano gli Aragonesi, essen-
* Secent., p. 179.
2 V. a p. LViii.
GXX INTRODOZIONK
dosene resi indegni gli Angioini, per la continua di-
scordia, in cui mantenevano il Regno. Se il Cliariteo
avesse detto ciò, nelle sue poesie, come una sua opi-
nione, come un suo sentimento, chi sarebbe stato così
ingenuo a prestargli fede? Una vecchia e sempre bella
immaginazione platonica * viene in suo soccorso. Egli
immagina: che
l'alma , formata in cielo
da l'almo creator de la natura,
ogni cosa nel ciel chiaro comprende;
che la sustanzia pura.
1 La preesistenza delle anime, prima che siano infuse nei corpi , e la
reminiscenza platonica, secondo il Phaedrus di Platone, citato pure
dal Salvini nelle sue postille (v. la n. ai w. 26-30 di questa canz.).
Che il n. conoscesse questo dialogo, almeno nella versione del Pigino,
pare a me che si possa i-icavare da questi brani che riferisco dalla
cit. traduz., leggermente modiiìcata (Opera, ed. Hirschig, Parigi, Di-
dot, 1866; voi. I, pp. 712, 714): « Omnis animus totius inanimati cu-
ram habet, totumque percurrit coelum, alias videlicet alias sortitus
species. Perfectus quidem dum est et alatus sublimis incedit ac to-
tum gubarnat mundum . . . Naturalis alae vis est, grave in sublime at-
tollere, ubi deorum inhabitat genus. . . . Haec autem est recordatio il-
lorum , quae olim vidit animus noster cum deo una procedens et illa
despiciens , quae nunc esse dicimus , et ad id quod vere est sursiim
reflexus. Quapropter sola philosophi cogitati© merito recuperat alas:
nam illis semper quantum fieri polest memoria inhaeret, quibus deus
inhaerens divinus est». Il n. vi accennò anche altre volte. L'anima
sua, per es. (son. IX, 3-4), aveva già visto, in paradiso, il volto
della sua donna:
Quel volto, che già vide in paradiso
prima eh' inlrasse l'alma in questa vita.
Ad Elisabetta Gonzaga, duchessa di Urbino (son. CLXXIV, 9-14"), dice:
Io vo' cantare il tuo sidereo viso;
che, s'io no' '1 vidi, poi che '1 caldo e '1 gelo
provai, di lui mi sono altrove aviso :
quest'anima , da dio creata in cielo ,
rimembra averti visto in paradiso ,
prima ch'entrasse nel corporeo velo.
INTRODUZIONE CXXI
separata dal nostro ombroso velo,
quanto si fa là su vede et intende.
Ma, poi che per destin qua giù discende,
e, per necessità d'alcuna stella,
s'involve ne ie umane e gravi membra,
di nulla si rimembra.
Poi, se del suo fattor non è ribella,
ricovra la memoria
de l'alta opra del cielo ornata e bella,
e si ricorda de l'eterna gloria,
pur com'uom d'una odita o letta istoria i.
Cosi avvenne anche all'anima del poeta; la quale,
com'ebbe abbandonati i « mille errori » e il « piacer
vile »,
... dispregiando la terrena veste,-
per fuggir di pregion, si messe l'ale;
e, tenendo per mezzo il suo camino,
del palazzo divino
cominciò ricordarsi, e come e quale
era quello ch'udiva
in quel sidereo e alto tribunale -.
E ricordò , tra l'altre cose , che , un giorno , Iddio , con-
vocati gli «dei nel suo consiglio», disse loro ch'egli
vedeva a malincuore 1' Italia — la « più bella » , la
« pili felice e lieta », la « più ferace » terra del mon-
do ^! — sempre in balìa di principi poco amanti della
pace. E diceva questo specialmente per quel regno di
Napoli ,
ove si stan le menti
quete , senza cercare imperio novo : *
era per esso ch'implorava la pietà degli dei:
movavi la pietà: per ch'io mi movot^
1 Canz. VI, 16-30.
2 Vv. 40-43.
3 Vv. 73-75.
* Vv. 80-81.
5 Vs. 82.
CXXII INTRODUZIONE
che Napoli gli era stata sempre cara:
quell'alma citiate,
ove religìon tanto si onora,
ove si vede ognora
più chiaro il sol, che per l'altre centrate :
ivi, temprando il raggio,
fa assidua primavera, e dolce estate;
ivi sempre son fior, non che nel maggio;
ivi nasce ogni ingegno acuto e saggio ; *
ivi era vissuta la sirena Partenope e Virgilio; ivi na-
scon sempre belle ninfe e poeti; ivi gli uomini hanno
« giudicio grave e sottile»; e le donne, «il cor pu-
dico » ^ E Iddio concludeva:
togliasi , dunque , ornai , dal scettro antico ,
ch'abborrente di pace bave l'ingegno;
e la gotica sterpe prenda il regno '.^
A questa uscita inaspettata, gli dei
restaron murmurando in vario assenso ;
si come in mezzo l'onde
si suol sentire il siion del primo vento,
che di nocchieri il cor fa star sospenso.
Ma chi può contradire al Padre immenso,
che con giusta ragion sempre si move?*
Acconsentirono, poiché non potevan far di meglio; ed
allora il «sommo Giove», scelte «un bel numero»
« d'anime piìi nove e più tranquille » , le destina ad in-
formare i corpi dei re, che, dopo gli Angioini, regne-
» Vv. 83-90.
- Vv. 91-102.
3 Vv. 103-105.
* Vv. 108-113. La similitudine è presa da Virgilio {JSji. x, 96-99):
. le nostre nìi. alla canz.
INTRODUZIONE CXXIII
ranno sul trono di Napoli:
Ite a goder il regno che vi spera; '
e tu , anima « altera » ,
sarai io primo Alfonso in quella terra , ^
e metterai termine alle guerre che la rovinano. E, dopo
di lui, regnerai
tu, fortissimo, animoso,
de l'Aragonia gente eterno onore; 3
tu che, poco prima di morire, avrai la gloria di vin-
cere il
gran nemico mio che il cielo abborre: ^
quei Turchi venuti a toglierti il regno. Tu rinnover.ii
il secol d'oro, tenendo sempre chiuso il tempio di Gia-
no; benché il « Soldan uoceute e vario» — Innocenzo
Vili — cerchi di muoverti contro, i baroni angioini; ma
... un santo e puro ,
e nitido Fontano
. . . vencerà con la dolce eloquenza
ogni animo feroce , acerbo e duro ^.
E, col Fontano, vivranno nella tua corto un Sannaza-
ro, un Pardo, un Altilio, un Siimnionte, che
faran, cantando, eterna la tua fama ^.
' Vs. 126. — Spera è uno spagnolismo, come osservò il Salvini
(v. la n. a questo vs.) : da espera per 'aspetta'.
3 Vs. 129.
' Vv. 137-138.
« Vs. 146.
s Vv. 183-186.
6 Vs. 201. — Anche nella canz. X, diretta al Sannazaro, son ricor-
dati il Fontano, il Fardo, l'Altiiio, e T istesso Sannazaro glorificanti
le imprese di Ferrante I e dei figliuoli.
CXXIV INTRODUZIONE
Ed al tuo fianco regneranno due donne,
ambedue caste e belle, arabe leggiadre: '
le due mogli tue: Isabella di Chiaromonte e Giovanna
d'Aragona. Ecco il tuo primogenito, Alfonso, «altro
Gradivo » :
mira '1 volto virile", audace e vivo;
vedi ne l'elmo l'auree diademe,
terror d'ogni barbarica falange ? ^
Egli
difenderà l'onor del paradiso ; ^
ed innanzi al
suo grave e animoso viso
vedrà cader la plebe macometa *.
E quell'altro giovinetto, ereditando il tuo nome ed il
tuo coraggio ^, sederà, dopo il tuo primogenito, e molto
presto ®, sul trono tuo. Non vedi lampeggiare sopra la
1 Vs. 213.
- Vv. 247-249.
^ Vs. 261.
4 Vv. 262-263.
^ Vs. 275:
Di nome e di coraggio a te conforme.
e Dal vs. 272 :
E nel solio real si presto siede,
che nella prima ediz. ha si tarda in luogo di si presto, si potrebbe ar-
gomentare che questa canz. fu scritta sotto il regno d'Alfonso II
(1494-95); tanto più che nel vs. 139 s'allude alla morte di Ferrante I
(1494), e nel 279 alla progettata spedizione di Carlo VIII. Il Ch., pub-
blicando, per la prima volta, questa canz., nel 1506, non badò alla
cattiva profezia che faceva fare al suo Dio : che Ferrandino salì al
trono non molto tardi, ma molto i^resfo: a ventisei anni!
INTRODUZIONE CXXV
sua testa una cometa? Essa predice a voi vittoria, ed
a la francese indomita barbarie , *
venuta a spogliarvi del regno, sterminio e malanni.
Qui Iddio tace: i Fati e
.... le prospere Fortune
fur d'un voler comune : ^
tutti gli dei acconsentono e applaudiscono,
sì come usar si suol nei gran senati,
che, parlando chi solo il poder bave,
il minor volgo applaude inseme e pavé '.
Allora Iddio, per la porta di « bel cristallo »: la « più
chiara e luminosa» delle due, che sono in paradiso*,
uscir fé' quella schiera alta e famosa ^.
Evidentemente, e per l'idea generale e per alcuni
particolari, il Chariteo si servì di due celebri episodii
virgiliani: nel I ùeìV^neis, Giove predice a Venere i
futuri destini di Roma e quelli della gente Giulia; e,
nel VI, Anchise mostra ad Enea, nella sede de' beati,
le anime dei loro nepoti, che saranno la gloria di Ro-
ma °. L'intento dei due poeti è ristesse: Virgilio vuol
mostrare che la famiglia Giulia è a capo dell'impero
romano per volere di Giove; ed il nostro che, anche
per volere di Dio , gli Aragonesi regnano su Napoli. Ed
1 Vs. 279.
2 Vv. 294-295.
3 Vv. 298-300.
< Da Virgilio, JSn. vi, 893 sgg.
5 Vs. 309.
6 Quest'episodio virgiliano fu imitato in parte anche dall'ARiosTO,
nella rassegna delle ombre dei principi estensi {Ori. fur., u, 24 sgg.).
CXXVI INTRODUZIONE
è lo stesso anche il mezzo: i due poeti fanno preesi-
stere, in un mondo di là, le anime illustri di queste
due famiglie. Né il metter Napoli a livello della Eoma
d'Augusto sembri una esagerazione del nostro: che tutti
gli umanisti ed i poeti del rinascimento concepivano le
corti , cui appartenevano , ad immagine e somiglianza
di quella d'Augusto: da ognuna di esse, per piccola
che si fosse, poteva sorgere, col tempo, un nuovo impero
di Cesari. E tale, nella canzone del nostro, appare an-
che la corte napoletana: Ferrante I è l'Augusto; le
due sue mogli, le Livie; i figliuoli ed i nepoti, i Tibe-
rii Neroni, i Drusi, i Marcelli, i Germanici; il Fon-
tano, il Sannazaro, l'Altilio, il Summonte, il Fardo, —
ed anche il Chariteo, benché egli, troppo modesta-
mente, non si nomini, — i Virgilii ', gli Orazii, i Pro-
perzii, gli Ovidii.
In quanto ai particolari, poi, ciò che Iddio dice al-
l'anima di Alfonso il Magnanimo:
E tu , che prima ti dimostri altera,
e sei per sorte prossima a la luce,
sarai lo primo Alfonso in quella terra; ^
è proprio quello che Anchise dice del Silvio virgiliano:
Ille, vides, pura iuvenis qui nilitur basta,
proxima sorte tenet lucis loca, primus ad auras
aetherias Italo commixtus sanguine surget,
Silvius 3.
E, così, ciò che il nostro dice di Ferrante I:
Tu sei quel ch'ode spesso
Partenope, che dèi scender volando,
adornato de palma, oliva e lauro;
tu sei quel gran Ferrando ,
^ Infatti nel vs. 197 il Puntano è detto «questo altro Vergilio».
* Vv. 127-129.
3 ^n. VI, 760-763.
INTRODUZIONK CXXVII
ila noi tante fiate a lei promesso ,
per dare al suo valor presto ristauro.
Per te dèe rinovare un secol d'auro ; *
è lo stesso di quello che Virgilio dice d'Augusto:
Ilic vir , hic est , tibi qnem promitti saepins audis ,
Augustus Caesar , divi genus , aurea condet
saecula qui rursus Latio regnata per arva
Saturno quondam '.
E quando il nostro, parlando di Alfonso TI, scriveva:
Mira '1 volto virile, audace e vivo
vedi ne l'elmo l'auree diademe ,
terror d'ogni barbarica falange . . .
Poi con l'opima spoglia,
intrando ovante ne la patria lieta
e ringraziando i dei ... ,
carco d'onor , d'exuvie e di trofei ; ^
aveva presente il Eomolo ed il Marcello virgiliano:
... A^iilen ut geminae stant vertice cristae?...
Aspice, ut insignis spoliis Marcellus opimis
ingreditur victorque viros super eminet orauis *.
E Ferraudiuo, di cui Dio dice a Ferrante 1, clie:
sai'à quel caro erede
di nome e di coraggio a te conforme ,
e de la vita candida e modesta . . .
D'animo più viril la casa vostra
non fia mai che si vante :
questo in battaglia e in palestra e giostra . . .
sempre si mostrarà forte e constante;^
* Vv. 151-157.
2 Vv. 791-794.
3 Vv. 247-249, 265-267, 270.
4 Vv. 779, 855-856.
5 Vv. 274-276, 281-285
CXXVIII INTRODUZIONE
è ritratto sul Silvio-Enea, e sull'altro Marcello, il fiiglio
di Ottavia, del poeta latino:
... et qui te nomine reddet
Silvius Aeneas, pariter pietate vel armis
egregius... Non illi se quisquam inpune tulisset
obvius armato, seu ciim pedes iret in hostem
seu spuraantis equi foderet calcaribus armos *.
Tutta in lode di quest'intrepido giovinetto è scritta la
canz, VII; e, quantunque estremamente superlative,
le lodi non son però esagerate. Chi non ha letto, nelle
cronache contemporanee, quali e quante cose operasse
Ferrandiuo in soli ventisett'anni che visse? — Secondo
il poeta, egli cerca di superar la fama degli avi suoi
Alfonso e Ferrante; sa, così giovine,
. . . affrenar l'indomita insolenza
de r inconstante volgo e inquieto; '
e vincere,
.... con soave, alta, eloquenza,
ogni animo crudel [ùen di durezza: ^
e, insomma,
de l'intrepido cor simile al padre,
d'umanità a la madre *.
Conosce tutte le arti guerresche: regge
.... l'aspro, indomito destriero
col freno, o con li sproni, in pugna o giostra;^
1 Vv. 768-770, 879-SSi.
9 Vv. 5S-59.
3 Vv. 60-61.
* Vv. 67-68. — Alfonso, duca di Calabria, e Ippolita Maria Sforza
* Vv. 78-79.
INTRODUZIONE CXXIX
c possiede lo tre virtù regie: fedo, costanza, liberalità:
rado vedute in questa nostra etade *.
Educato alla scuola dell' Altilio e del Parrasio, è an-
che poeta e dotto. Iq un giovinetto tante virtù, — c-
sclama il poeta: —
or che dal mondo son tutte sbandite! ^
Ma anche qui il Chariteo è ricorso alla sua fonte
classica: nella quarta, quinta e sesta stanza di questa
canzone egli parafrasa o traduce molti brani del Panc-
gyricus 3IessaUae, la più giovanile opera di Tibullo ^
Eccone un esempio:
Benché di tuoi maggiori i celebri atti
sonan con chiara tromba in ogni parte,
tu de la gloria lor non ti contenti;
ma, con favor di Pallade e di Marte,
contendi superar la fama e' fatti
de le passate vostre antique genti *.
Di Messala il poeta latino aveva detto:
Nam quamquam antiquae gentis superant tibi laudes,
non tua maiorum contentasi gloria fama ,
uec quaeris quid quaque index sub imagine dicat,
sed generis priscos contendis vincere honores,
quam tibi maiores maius decus ipse futuris . . .
Nam seu diversi fremat inconstantia vulgi,
non alius sedare queat: seu iudicis ira
sit placanda, tuis poterli mitescere verbis ^.
« Vs. 92.
» Vs. 122.
3 Nel IV libro dei Caì'mina di Tibullo (ediz. cit. del MùUer, Li-
psia, 1874.): Incerti atictoris panegyricus Messaline. — V. W. S. Teuf-
FEL, Hist. de la littèr, rom.., trad. frane, Parigi, i88o, voi. II, p. 74.
* Vv. 43-48; ed aggiungi i vv. 58-62 cil. più sopra.
5 Vv. 28-32, 45-47. E cfr. anche i vv. 55-56, 71-76, 77-79 del n.
con i 39-40, 82-88, 91-94 del Panegyricvs.
XVII
CXXX INTRODUZIONE
Ma eccessiva Delle lodi sembra a me, invece, l'altra
canzone, la XVI, per l'esaltazione di Alfonso II al tro-
no ' ; esaltazione, che, — secondo il poeta —
in espotlazi'one lia posto il monJo 2.
11 truce duca di Calabria, diventa
eroe grande in fama, in arme ingente,
fautor sol, anzi autor, d'ogni vertute,...
sola difension di gente afflitta,...
e non di fero cor ne le vittorie! ^
Il Chariteo vuole , poi , che
letizia, plauso e riso
si celebre, ch"or tene il regno ausonio
un principe, anzi un dio, tra gli altri umani,
ch'Italia liberò da Turchi immani:
Idrunto, Europa e '1 mondo è testimonio:
come costui, intrepido, animoso
vinse del cielo gli nemici rei;
poi venne glorioso
carco d'onor, d'esuvie e di trofei! *
Su per giù, r istesso che aveva detto di lui nella cauz.
VI, e che ripeterà, sempre che gli tocchi di parlare del
duca di Calabria ^ o di Alfonso II: l'impresa d'Otranto:
' La cerimonia dell'investitura e dell'incoronazione di Alfonso II fu
celebrata con gran pompa e con gran lusso: v. J. Burchard, Bia-
rium sive rer. urhan. comment. (1483-1506), ediz. L. Thuasne,
Parigi, 1883-85; voi. II, pp. 108 sgg.; Sanudo, Spediz., pp. 36-40; Sum-
MONTE, Hist. di Nap., voi. Ili, pp. 482-495; e VArch. stor. nnp. , XIV,
pp. 140 sgg.
» Vs. 18.
3 Vv. 2-3, 25, 28.
* Vv. 52-60.
* La ricordò, infatti, oltre che nella canz. VI (256 sgg.) ed in que-
sta che esaminiamo (vv. 55-60), nei sonn. XCII, 12-13, XCIX, 2-4;
nelle canzz. IX, 14-15, X, 61-63, nella Metham. Ili, 139-140, e nella
Pascha, V, 140-141.
INTRODUZIONE CXXXI
il solo fatto d'arme che rese tanto popolare quello che
i cronisti chiamarono «il dio della carne» '; ma tutti
sanno che se la morte di Maometto II non veniva a
metter dissensioni tra Bajazet ed il fratello Gem, i Tur-
chi non avrebbero abbandonato così facilmente l'Italia,
e chi sa quale sarebbe stata la sorte del regno di Na-
poli, per non dir dell'Italia -! Tutta l'Europa aveva
allora tremato con Ferrante I ^; e la grandezza istessa
della paura, svanita che fu, esagerò la gioia ed il me-
rito di Alfonso; il quale in questa impresa fu non poco
aiutato da' suoi generali; il conte Giulio Antonio Acqua-
viva, suo luogotenente, che vi ])erdette la vita ''; Iiiico
d'Avalos, che détte consigli non stolti ^; Galeazzo Ca-
racciolo, ammiraglio della flotta napoletana, che fu il pri-
mo ad inalberar la bandiera aragonese sulle mura di
Otranto " ; e tanti altri prodi, il cui nome fu taciuto
1 La celebrò anche il Bojardo nell'egloga ii {Poesie, ediz. G. lì
Venturi, Modena, 1820). Anche nell'egi. i e nella ix, di Alfonso: in
quest'ultima Orfeo canta u il panegirico del duca di Calabria».
' Cipolla, Stor. delle sign. ital., Milano, 1881, p, 607.
3 Un contemporaneo (presso C. Foucard, Otranto nel 1480 e nel
1481, in Arcìi. stor. nap., VI, p. 82) scrive il 2 d'agosto deir8o:
« In questo istante tornoe el S. Re che era andato a li paludi. Noi
vidi mai de cossi trista ciera, né cossi melenconico ». E altrove (p. 83):
che il Turco « afìfana assai» Ferrante I; il quale stava continuamente
chiuso a consiglio « col conte di Mattalon — Diomede Carafa — et l)
Secretario — il De Petruciis — ». «Alcuni già temono del stare ne li
borgi de Napoli , — continuano le testimonianze dei contemporanei
(p. 81), — perchè se dice che questi turchi cavalcano 300 miglia».
* A. DE Ferrarus [?], Successi dell' artyiata turchesca nella città
d'Otranto nella. MCCCCLXXX, scritti in liìigua lat., e trad.per
l'ab. G. M. Marziano, Lecce, 1871 {Culi, di scrit. di Terra d'Otr..
voi. xviii), pp. 131, 159. Quest'opera è forse falsificazione del tradut-
tore. Quella latina del Galateo è perduta (.l?-c/i. stor. nap., II, p. 11).
Il n. ricorda il conte Giulio nella Pascha, VI, 100-102.
5 V. i Successi c'iL, pp. 129, 155, 171, e a p. 169, ove è detto: « Era l'au-
torità del Davalos grandissima, e non solo presso Alfonso, ma in tutta
Italia, onde per questo il giovine Alfonso, raffrenando ogni impeto ».
•j Albino, De gestis regiim neapol, qui extant libri IV, Napoli ,
CXXXri INTRODUZIONE
con arte dagli scrittori cortigiani; perché la gloria del
generale risaltasse sempre più grande.
E ritorniamo alla canzone, poiché il poeta non ba
ancora esaurito il suo arsenale di lodi e di esagera-
zioni. A un certo punto esclama:
chi non ritenerassi intro le porte,
vedendo un re, degnissimo d'imperio,
regnar nel regno esperio? *
Ma, a farlo apposta, quando questo re Sacripante salì
al trono, nessuno si chiuse in casa, nessuno scappò:
chi scappò, invece, fu lui; e quando l'esercito di Car-
lo Vili non aveva neppur messo il piede sul napoletano:
« car — dice il Commines — jamais homme cruel ne fat
hardy, et ainsi se voit par toutes Histoires, et ainsi se
desespera Neron, et plusieurs autres» ^.
E dovette avere pur molta fama ai tempi del poeta,
come tuttora fra i critici, la canz. XVII, diretta a Lo-
dovico il Moro ed a quei principi italiani ancora in-
decisi se unirsi a Carlo Vili, che allora stava per ca-
lare in Italia, o se collegarsi, tutti insieme, attorno al
papa e ad Alfonso IL Scopo delia canzone era questo:
mostrare ai principi italiani quanto sarebbe tornato piìi
a vantaggio loro l'unione di tutti essi contro lo stra-
niero: divisi, sarebbero stati spogliati, l'uu dopo l'al-
tro, dei loro stati. — Fu creduto generalmente, questo
del Chariteo, il nobile grido di un animo ardente d'a-
mor di patria, un grido di all'armi/ ,nYo\io agi' Ita-
Cacchio, 1589, p. 59. Ed il Chariteo nella canz. IX, diretta al Ca-
racciolo, amicissimo suo (13-15):
Se tu ponesti l'alma e sacra insegna
sovra '1 muro idrontin, quando '1 gran Duca
agi' infedeli die' l'aspra battaglia.
Sul Caracciolo v. anche i Successi cit., pp. 156, 163, 171, 177 ecc.
1 Vv. 68-70.
' Mémoires , Londra-Parigi, 1747; voi. I, p. 468.
INTRODUZIONE CXXXIII
liani contro il francese invasore '. Ma quel grido era
di uno spagnuolo; e se egli, poeta cortigiano, in un mo-
mento di ]}oeiico furore ^ , dimenticò ch'eran anch'essi
invasori, sebben più pacifici, i suoi padroni aragonesi,
noi ricorderemo solo che uè Ferrante I, uè, tanto meno,
il suo primogenito eran tali da poter divenir mai cam-
pioni dell'indipendenza italiana, minacciata dagli stra-
nieri ^
Quel grido non usciva veramente dal petto del poeta :
era un eco molto forte della paura che aveva invaso
i suoi re, all'annunzio della prossima calata dei Fran-
cesi dalle Alpi. E, giustamente, quella valanga andava
a rovesciarsi sul regno di Alfonso li: era stato lui,
che, forse prima d'ogni altro, l'aveva smossa. — Or,
proprio per consiglio suo, io credo che fu scritta dal
Chariteo questa canzone. Alfonso II, già fin da quando
era semplicemente duca di Calabria, si era inimicati
quasi tutt'i principi italiani, e, specialmente, Lodovico
il Moro: al quale andava minacciando continuamente di
voler togliere lo stato, perché usurpato alla figliuola sua,
Isabella. Se non che, appena salito al trono, sicuro che
egli sarebbe stato abbandonato da tutti , non appena
Carlo YIII avesse messo il piede sulla terra italiana,
«si rivolse al Moro con una lettera ispirata a senti-
menti di conciliazione, e n'ebbe in risposta un'altra e-
1 II D'Ancona, Secent., pp. 179-1S0: «Non molti Italiani nella in-
fausta discesa (li Carlo Vili trovarono accenti simili a quelli, onde
questo poeta spagnolo confortava alla pace e alla concordia della vo-
lontà e delle forze ». Ed il Carducci, La gioventù di L. Ariosto e
le sue poes. lat., Bologna, 1881, pp. S3-84: «Al calar degli stranieri
dalle Alpi, il Canteo mandava da Napoli queste nobili voci»; e qui
riferisce i vv. 1-9 e 13-15 della prima stanza di questa canz. Cfr. an-
che: V. Rossi, Poesie star, sulla sped. di Carlo Vili, Venezia, 1S87,
pp. 14-15; Luzio-Renier, F. Gonzaga alla batt. di Fomovo, Firenze,
1890, p. 35, ed altri.
2 Son. XII, 5.
3 Cfr. Delaborde, Op. cit., p. 303,
CXXXIV INTRODUZIONE
giialmente benigna. A Milano il Moro invitava intorno
a sé gli oratori dei vari Stati; dicendo di voler consi-
gliarsi con essi intorno al modo di provvedere alla pace
d'Italia che con suo rammarico da diciotto mesi egli
vedeva iutia squarciata» '. Fa durante questa ben si-
mulata titubanza dello Sforza ^, la quale non si pro-
lungò oltre i primi di giuguo del 94 ^, che il Cha-
riteo dovette comporre la sua canzone ed inviarla, tra
'l Pado e l'Alpe , a
.. . quel disdegnoso duca altero,
che di pace e di guerra in man le habene,
— così il ciel vole! — or tene*.
Digli, — soggiungeva il poeta alla canzone: —
digli che voglia ornai vedere il vero,
e svegliar quel santissimo penserò
di publica salute:
che , per moderna e per antiqua istoria ,
s'acquista per vertute,
e non per signoria, la vera gloria! ''
Povero illuso! — Quello che non avevan potuto otte-
nere gli ambasciatori napoletani a Milano, credeva di
* Cipolla , Op, cit. , pp. 686-687 ì che rimanda al De Cherrier '
Hist. de Charles Vili 2, I , p. 382.
2 Delaborde, Op. eie., p. 368: «Le langage qtie tenait alors Lu-
dovic était d'ailleurs bien fait pour exciter les esperances du roi de
Naples ».
3 Delaborde, Op. cit., p. 369. In quei giorni la rottura era com-
pleta: gli ambasciatori napoletani eran partiti da Milano, i milanesi
da Napoli: le rendite del ducato di Bari erano state" sequestrate. —
Nelle nn. alla canz. ho detto invece che essa era stata forse scritta
nel mese seguente, quando l'avanguardia di Carlo Vili aveva già pas-
sata le Alpi (9 luglio), per l'accenno che il n. fa al Monginevra
(vv. 49 sgg.). Se non che la via, che dovevan prendere i Francesi,
poteva ben esser conosciuta un mese prima.
^ Vv. 1 14-1 16.
5 Vv. 117-122.
INTUODUZIONR CXXKV
poterlo ottener lui, il poeta, cou dei versi! Lodovico
il Moro, che fu anche buon protettor di letterati ', al
ricevere questa canzone dovette sorridere non poco:
fino allora egli aveva sempre ascoltato dei poeti can-
tar per lui su l'unica corda delle lodi; or gliene capi-
tava uno dinanzi, che osava dare degli ammonimenti!
E che tutto quell'entusiasmo che appare nella can-
zone, non sia veramente sentito, lo prova il fatto che
nessun componimento del nostro è così poco origina-
le , come questo. Avuto il tema da svolgere in una so-
lenne canzone italiana, egli si mette subito in cerca di
abbaglianti luoghi comuni, coi quali rimpolperà otto
stanze di sedici versi, endecasillabi e settenarii: forma
metrica ch'ei prende, con l'intonazione generale e non
pochi particolari, e versi e frasi, dalla celebre canzone
petrarchesca ai principi italiani , contro le milizie mer-
cenarie ■". Lucano, poi, con la sua imprecazione con-
tro le discordie civili, prodotte dall'ambizione di Ce-
sare e di Pompeo, dà alla canzone quel magnifico pre-
ludio, che fu scambiato per un inno d'amor patrio; ed
il finale classico, Tibullo, con la maledizione alle armi
e la pia invocazione della pace campestre.
Ecco Lucano:
Quale odio, qnal furor, qual ira immane,
quai pianete maligni
han vostre voglie unite, or si divise?
Qual crudeltà vi move, o spirti insigni,
o anime italiane,
a dare il latin sangue a genti invise?
cupidi mortali,
s'ardente onor vi cliiama ad alte imprese,
ite a spogliar quel sacro, almo paese
' V. Lozio Renier , Relaz. di Isab. d'Este Gonzaga con Lndov.
p B»atric.e Sforza, Milano, 1890, pp. 23-24.
'C'è una piccola differenza nel metro: il dodicesimo vs. di ogni
stanza nel Petrarca è quinario , nel n. settenario. — Per le minute i-
raitaz. petrarchesche v. le nostre nn. alla canz.
CXXXVI INTRODUZIONE
di Cristian trofei ;
e tu , santa , immortai , Saturnia terra ,
madre d'uomini e dei ,
nei barbari converti or l' impia guerra.
mal concordi ingegni , o da' prim'anni
e da le prime cune
abborrenti da dolce e lieta pace!:
perché correte in un voler comune
a li comuni danni ,
et in comune colpa il mal vi spiarfe?
Perché non vi dispiace
tinger nel proprio sangue or vostre spade?
Fu questo dato già dal fato eterno,
quando 'I sangue fraterno
tinse '1 muro di quella alma cittade
con quella fera invidia e impietade ? *
Quis furor, o cives!, quae tanta licentia ferri?
gentibus invisis Latiura praehere cruorem?
quumque superba foret Babylon spoliauda tropaeis
Ausoniis
Tunc , si tantus amor belli tibi , Roma , nefandi ,
totum sub Latias leges cum miseris orbem,
in te verte manus
male concordes , nimiaque cupidine caeci ,
quid miscere juvat vires , orbemque tenere
in medio ? Nec gentibus uUis
credite ; nec longe fatorum exempla petantur :
fraterno primi maduerunt sanguine muri 2.
Il Chariteo tradusse quasi sempre con ristesse parole
di Lucano; sostituì solo alla impresa di Babilonia, consi-
gliata ai Komani dal poeta latino, la petrarchesca cro-
ciata pel sepolcro di Cristo ■*; senza badare se fosse mol-
to opportuno di parlare agl'Italiani della Terrasanta,
* Vv. 1-6, 10-28.
2 Pharsalia , ediz. Lemaire, Parigi, 1830-32, lib. 1, vv. 8-1 1, 21-23,
87-89, 93-95. — Nelle nn. alla canz. , per dimenticanza, non riferii i vv.
di Lucano.
3 Trionfo della divin., n, 142-14.4. — Della canz. petrarchesca cit.
imitò anche i vv. 33-41 nei suoi 55-60 e 76-78. Nei vv. 61-64 traduce
da Orazio {Od. I, ut, 37-40): v. le nn. nella nostra ediz.
INTRODUZIONE CXXXVII
mentre Carlo Vili correva per la loro patria, baciando
le lor donne e devastando i loro poderi.
Ma ecco Tibullo:
Beu fu senza pietà quel ferreo petto,
quell'auimo feroce ,
che fu inveutor del ferro , orrendo e forte.
D'allora incominciò la pugna atroce
la venenosa Aletto ;
e di più breve via per Timpia morte
aperse l'atre porte ;
ma non fu in tutto colpa di quel primo :
che ciò, che lui trovò col bel sapere
in contro a l'aspre fere ,
noi ne li nostri danni or convertimo.
Questo adiven
di fame di tesoro :
che pria che fusse l'oro ,
non era il ferro a l'uom tanto nocivo !
Ahi , pace ! , ahi , ben ! , de' buon si desiato ! ,
alma pace e tranquilla , . . .
mostra il viso giocondo ,
e con la spica e i dolci frutti in seno ' . . .
Quis fuit , horrendos primus qui protulit enses ?
Quam ferus et vere ferreus ille fuit !
Tum caedes hominum generi , tum proelia nata ,
tum brevior dirae mortis aperta viast.
A nihil ille miser meruit! nos ad mala nostra
vertimus, in saevas quod dedit ille feras.
Divitis hoc vitiumst auri; nec bella fuerunt,
faginus adstabat cum scyphus ante dapes . . .
Interea Pax arva colat. Pax candida primum . . .
At nobis, Pax alma, veni spicamque tenete,
perfluat et pomis candidus ante sinus 2.
1 Vv. Si-93, 95-98, 103-104. — Nei vv. 99-102 imita l'inno del Pe-
trarca {Rime, ediz. Carducci, xvi, 33-41) alla
Libertà, dolce e desiato bene.
• I, X, 1-8, 45, 67-68.
CXXXVIII INTRODUZIONE
Dei sonetti, poi, il XCIX è diretto a Ferrante I, vin-
citore «d'invitte genti». Ed in esso si accenna anche al-
l'agguato teso a quel re, durante la guerra per la prima
congiura de' Baroni, da Marino Marzano e da due suoi
cavalieri, e, felicemente superato da lui, ed eccessi-
vamente celebrato, in verso ed in prosa, da tutti gli
scrittori aragonesi , dal Del Tuppo al Sannazaro; ed im-
mortalato nei bronzi e nelle pareti di Castelnuovo e
di Poggio Eeale ',
E forse alla seconda congiura dei Baroni o alla mi-
nacciata spedizione dei Francesi contro il Eegno allude
il son. CU; in cui o gli uni o gli altri son parago-
nati alla scimmia, che, nata «dal seme» dei giganti,
atterrati da Giove e da Marte,
i superi beffeggia,
imitando i paterni impii costumi ".
« Non ò » , esclama il poeta ,
non è dunque miracol, che si veggia
un bruto animaletto ancor far guerra,
col fero volto, a li celesti lumi 3.
Nel son. XCI, Alfonso, duca di Calabria, appare
quel, ch'oggi è sol d'imperio degno,
a gii altri altero, ai suoi soggetti umano;
quel che, pace tenendo e guerra in mano,
tranquillo e secur serba il patrio regno *.
' V. la nostra n. ai vv. 5-8 di quel son., ed aggiungi, agii scrit-
tori ivi ricordati, il Del Tuppo, nella Confìrmatio hìstorialis della
fav. LXiv del suo Esopo (ediz. principe napoh del 1485). Cfr. anche il
SuMMONTE, Hist. di Nap. , voi. Ili, p. 280, e il D'Engenio, Napoli
sacra, Napoli, 1624, pp. 478-479.
' Vv. lo-ii. Anche Ovidio, Metam. i, 161, — da cui il nostro de-
rivò il suo son.: v. le nn., — chiama la stirpe nata da' Giganti: Con-
teìtiptrix sifperum.
3 Vv. 12-14.
* Vv. 5-8.— Questo son. fu scritto tra il 1482 e 1' 84 : v. le nn. ad esso.
INTRODUZIONE CXXXIX
E per invitarlo a ritornare presto in Napoli, dopo che
n'era stato lontano due anni, come capitan generale
della lega contro i Veneziani (1482-84), fu scritto il
son. XCII; traduzione quasi letterale dell'ode v del li-
bro IV di Orazio, composta anch'essa per il desiderato
ritorno di Augusto a Koma:
Divis orle bonis, optime Romulae
ciistos gentis, abes iam niiuium diu;
maturum redituni pollicitus palruiii
sancto concilio redi.
Lucem redde tuae , dus bone , patriae :
instar veris enim vollus ubi tuus
adfulsit populo, gratior it dies
et soles melius nitent, . . .
Tutus bos etenira rura perambulat, . . .
pacatum voiitant per mare navitae '.
Alfonso, de la patria e padre e dio,
del regno avito inespugnabil muro,
deh, ritorna, ti priego ; e sia maturo
il tuo venir, com' è '1 nostro desio I
dolce onor, dolce presidio mio,
rendine il lume tuo sereno e puro ;
che lo splendor del sol ne pare oscuro
senza '1 tuo volto uman, benegno e pio.
Per te la greggia mena in ogni prato,
senza sospetto, il timido pastore ;
per te , novo Pompeio , è '1 mar pacato ^.
Del suo «signore» ^ Ferrandiuo, principe di Capua,
duca di Calabria, re, parlano, invece, quasi tutti gli
altri sonetti politici. Nel III il poeta dico che, finché
ci sarà lui , •
nullo avversario teme
questo d' Italia bella il più bel regno * ;
* Vv. 1-8, 17, 19.
2 Vv. i-ii.
3 Cosi lo chiama nei sonn. XCI , 4, CXLVIII, 4, e nel Prol. II {_Ap-
pendtce, p. 462).
* Vv. 7-8.
CXL INTRODUZIONE
e nel LXXXV: che cosa maggiore di Ini,
onde si glorie, Italia oggi non bave! *
I sonn. CXIV e CXLVIII son diretti alla corte ro-
mana, perché essa, nella lotta con Carlo Vili, si uni-
sca agli Aragonesi e affidi la difesa della Chiesa al
braccio di Ferrandiuo, che, tornando dalla mal riu-
scita impresa di Komagna-, ed entrato in Roma, a-
spettava la decisione dei cardinali. — Nel primo di essi,
il poeta si rivolge ad Alessandro VI:
Dunque tu, santo principe romano,
se vói domare il barbaro l'urore,
pon l'arme in man di questo altro Affricnno ^ :
e nell'altro, al cardinale Ascanio Sforza * ed ai suoi
colleghi :
1 Vs. 4.
2 Vv. 12-14.
3 Quest'istessa impresa di Romagna —ideata già da Ferrante I, poco
prima di morire, e con cui quell'energico vecchio voleva tentare un
colpo di mano, occupando la Romagna e gli stati pontifici, costrin-
gendo il papa all'alleanza aragonese, e di là venendo in Lombardia,
per deporre lo Sforza, con l'aiuto di Firenze (Delaborde, Op. cit.,
p. 303) — è ricordata anche nella canz. XIX, diretta ad Alfonso d'A-
valos (vv. 22-24, 64-65):
quello intrepido ardimento
del tuo duca, pensier sol de gli dei;
d'Italia universal muro constante...
al fulminar del qual l'alpe tremende
treman con paventoso e freddo orrore.
« Vv. 3-4:
veramente
non zio del mio signor, ma proprio padre;
Lo Sforza era suo zio, perché fratello d'Ippolita Maria, madre di Fer-
randino.
INTRODUZIONE CXLI
Deponete il pensier tetro et acerbo,
che dal cielo è disceso altro Camillo,
che domarà de' Galli il re superbo.
Voi lo vedrete a tempo più tranquillo
recuperar non sol Siitri e Viterbo,
ma spenger ultra l'Alpe il suo vessillo! '
E COSÌ nel son. CLIII ci ricomparisce davanti Fer^
rante II, che riconquista il suo regno; e, mentre,
tra Galli e Cimbri il suo destrier regira,
quel volgo inconsuèto il volto ammira,
invidiando al suo chiaro valore ^.
Ed il poeta:
confessa, o turba iniqua, il proprio errore,
che, se costui com"uom vivendo spira,
egli è pur dio, che con giustissim' ira
ha posto a terra il barbaro furore ; ^
e ricorda:
che contra un dio non ponno arme mortali *.
"Ma nel son. seguente , il valoroso giovane è già mor-
to. Il poeta vorrebbe:
rimembrar con alto, ornato carme
del mio aragonio sol, chiaro e sublime,
il regno, li trofei , le spoglia opime,
recuperate con giustissime arme :
potessi almen formare un flebii canto
d'assenza e morte ; ond' io da gli occhi verso
onde d'eterno e miserabil pianto I ; 5
' Vv. 9-14.
'^ Vy. 2-4.
3 Vv. 5-8.
4 VS. 14.
s Son. CLIV, 5-11.
CXLII INTRODUZIONE
ma la lontananza della sua donna, la morte del suo
re lo hanno «sommerso in un mare di lagrime»!
Dal CLX in poi sino al CCXIV, una serie di più di cin-
quanta sonetti, tutti d'argomento storico, chiudon VEn-
dimione. È una galleria di ritratti di uomini di stato,
di giureconsulti, di poeti, di letterati, di capitani e di
ammiragli: tutti illustri personaggi che s'incontrano
nella storia del regno di Napoli degli ultimi decenni
del quattrocento e dei primi del cinquecento; o nella
corte di Ferrante I e dei suoi figli e nepoti, o nelle
guerre contro i Baroni, e contro Carlo Vili e Lui-
gi XII. — Ad Andrea di Capua, duca di Termoli , conte
di Campobasso e di Montagatio, capitan d'armi e con-
siglier di Ferdinando il Cattolico, e caro a Ferrante II,
cui.il fratello Giovanni avea salvata la vita nella bat-
taglia di Seminara, i sonn. CLVII e CLXI '. A Lelio
Gentile, di Capua, anch' egli uomo d'arme, cui il poe-
ta, alludendo certamente al Laelius sire de amicitia di
Cicerone, confessa di non saper dare
maggior dono
che '1 nome antiquo suo , nome di fede ; ^
il CLX Vili; a Giovan Vincenzo Carafa, il celebre mar-
chese di Montesarchio , che finì poi tanto miseramente,
il CLXXVIII; nel quale ricorda che aveva salvato,
anche lui , Ferrandino, in una battaglia combattuta in
Calabria, contro i Francesi:
un re, degli altri il più eccellente,
nei Bruzii campi , in quel fero bisbiglio,
sustineudo il furor de V impio giglio,
servasti ^.
1 Per A. di Capua e per tutti gli altri personaggi ricordati qui ap-
presso, V. le nostre n)i. ai relativi sonn.
2 Sonn. CLXVIII, lo-ii.
3 "Vv. 5-8; e con quasi le stesse parole nella Pascha VI, 63-64.
INTRODUZIONE CXLIII
A Pier Giovanni Spinelli, a Ferrando Monaco e a Ga-
spare Toraldo ricorda i bei giorni del ritorno di Fer-
randino a Napoli e le scaramucce contro i Francesi per
le vie della città. Allo Spinelli dice :
(li ferro armato e di pietoso sdegno
ti vidi , per servar la fede antica
quando al re suo rendio Napol il regno ; '
agli altri due:
tu con la lancia in mano , et io , togato , '
fummo ossequenti ai re , pien di valore . . .
Fuvi quel de'Toraldi aureo splendore :
Gaspar, di ferro e di coraggio armato ^.
A Fra Simonetto di Sangro, cavaliere gerosolimitano,
« ospizio di vertute » , rammenta che se
Marte pli die' coraggio, ed ardimento
ad atti e opre grandi e strenue, e digne
di pregio e guidardon ; ... le maligne
sorti gettaro ogni speranza al vento *.
Di Bernardo Villamarino, catalano, conte di Capaccio,
grand'ammiraglio, e, per poco tempo, anclief viceré di
Ferdinando il Cattolico, il nostro canterà e
. . . i navali trofei
rapti dal Turco, a cui fu lo fuggire
vita, per l'adriana onda sonante ;
* Son. CLV, 12-14.
2 Come primo segretario del re, come sommo magistrato (v. son.
CLXXI, 9); ma il Caballero, p. 12, fondandosi sul togato, dice che
la professione del n. a fu la legale e per conseguenza i suoi impieghi
nella Giudicatura»; e si meraviglia di non trovare il suo nome tra
gì' « innumerabili Togati che nomina l'erudito Toppi {De Origin. Tri-
bun.)^). Gli rispose il Tafuri, Op. cit., p. xvni, n. 9.
3 Son. coni, vv. 3-6.
* Son. CXCI, 5-8.
CXLIV INTIIODUZIONK
ed
ancor quella murai corona
c'avesti in Regio, iu quella pugna stretta,
sotto li sacri auspicii d'Aragona ;
e quella troppo audace, impia saetta,
che nel tuo braccio e 'n cielo ancor risona ,
e ti colma di gloria più perfetta '.
Con Paolo Cafatino, maestro razionale della regia Zec-
ca, il Gareth si trattiene a compiangere Ja sorte di Na-
poli, dopo la caduta degli Aragonesi e durante la per-
manenza dei Francesi di Luigi XII:
Chiara città, d'eroi casa opportuna ,
or di barbaro volgo oscura stanza! . . .
Vedi l'alte magion deserte e sole,
u' poc'anzi ondeggiava un mar di gente I ; ^
allorquando, — soggiunge il poeta,—
tu mi vidisti in sommo magistrato
presso un gran re, dei qual l' intimo petto
aprii e serrai , per mia benegna sorte.
Morio quel re, ond' io, cangiando stato,
solo rimasi, e, vivo a mio dispetto,
piango, no' i danni miei, ma la sua morte 3.
Baldassari'e Milano, di famiglia spagniiola di Valenza,
consigliere di don Federigo, e governatore delle pro-
vince di Capitanata e Terra di Bari, vien confortato
dal Gareth per la morte del fratello Giacomo , avvenuta
in Ispagna:
che, se quel cavalier, tanto lontano
dal bel nido, morio ; per ogni parte
trovan i buon la via del paradiso.
1 Son. CXCIII, 6-14.
2 Son. CLXX, 9-10; CLXXI, 5-6.
■'■ Son. CLXXI, 9-14. — Nei vv. 2-3 è evidente l'imitazione dantesca
(Jnf. XIII, 58-61).
INTRODUZIONE CXLV
Or, per vertù, nel ciel chiaro di Marte
trionfa eternamente *.
A Scipione Filomarino, ambasciatore di Ferrante li -,
e oltre modo caro a don Federigo; — ai quali re, dice
il nostro,
con quella integra fé, che 'n te si vede,
gli affanni tuoi prestasti ; — ^
ricordato reroico fratello, Marco Antonio, che, go-
vernatore di Taranto , durante l'invasione di Carlo Vili,
quel salenlino
lido mantenne in Taragonia fede ; *
fa considerare: che non speri
di fortuna aver mercede,
chi segue de vertù l'arduo camino :
che non grandi ricchezze o titol regio
son guidardon de la vertù virile :
lei sola di sé stessa è solo pregio ! ^
Ad Ettore Carata, conte di Ruvo, «saggio in toga, ar-
dito in armi», il Chariteo, come Graziola Censorino,
vorrebbe
. . . far don di gemme e d'oro ; '
* Son. CLXXX, 9-13. — Negli ultimi due vv. si serve dell'imma-
ginazione di Dante, che colloca i guerrieri nel cielo di Marte (^Fa-
rad, xviii, 28 sgg.).
2 V. Sanudo, Spediz., pp. 264, 273; Diarii, p. 92-
3 Son. CCV, 3-4.
4 Vv. 5-6.
5 Vv. 7-11. — I due ultimi vv. derivano da Claudiano {Carmina^
ediz. L. Jeep, Lipsia, 1876, voi. I), xvn, 1-3:
Ipsa quidem virtus pretium sibi solaque late
fortunae secura nitet nec fastibus ullis
erigitur plausuve petit clarescere vulgi.
6 Od. IV, vili.
7 Son. CCII, I.
CXLVI INTRODUZIONE
ma, soggiungono tiitt'e due i poeti,
ma tu, mercé del ciel, non poco abbonde,
d'ogni divino e d'ogni uman tesoro :
però ti dono sol di quel lavoro,
eh' a le veriù che vetustade asconde,
vieta passar d'oblio l'acque profonde,
e de la vita breve è sol ristoro *.
Ettore Piguatelli, che, com' Ercole,
in gioventute,
anzi in puerizia, e quasi ne la cuna,
dormendo, incominciasti oprar virtute 1 -
A Giovan Battista Spinelli, giureconsulto e auditore di
don Federigo, e, oltre che di Ferrante I e di Alfonso
II, fedelissimo ambasciator di Ferrante II a Venezia,
e conte di Cariati, il poeta, con evidente allusione al-
l'ultimo dei monarchi aragonesi e al grafi capitano,
nimicissimo delio Spinelli ^ ricorda che
l' italica fortuna ha privilegio
di volger la sua rota in tal maniera,
che '1 nato in casa umil regnare spera,
e i re perdon i regni e '1 nome regio ^.
E tu, riprende, che
vidisti pur Venezia al tempo, ch'era
d'alte ricchezze in sommo imperio altera;
oggi la vedi misera in dispregio ^.
E a don Raimondo di Cardona, che giungeva a Napoli,
< Vv. 3-8.
2 Son. CLXXXVII, 9-11.
3 V. la n. al son. CXCIX.
* Son. cit., 1-4.
s Vv. 6-8.
INTRODUZIONE CXLVII
nuovo viceré del Regno, il 24 ottobre 1509, il nostro
inviava il son. CCXI, non già per impetrar favore: che
— osserva il Gareth, ripetendo un pensiero ovidiano ' —
che da le Muse accompagnato Omero
in pregio non sarebbe ai tempi nostri j^
ma
a ciò che l'altra etade aggia per vero,
che voi m'aveste in numero de' vostri 3.
Il segretario di questo viceré, Pietro Lazzaro dExea,
spagnuolo;
sol per oprar vertù nel mondo nato
perpetuo onor de l'aragonio Ibero ,
benegno, liberai, fidele, intero,
per moglier casta e bella ancor beato;
è
latte d'integrità sempre incorrutto *.
A Gerolamo di ColL anche lui spagnuolo, e «splen-
dore e gloria della patria sua»:
insigne e raro
iurisconsulto, interprete preclaro
de l'alta intenzione imperatoria;
pien di saper, d'ingegno e di memoria,
et a Minerva et a le Muse caro; ^
dedicò un sonetto; e due ^ a Ludovico ilontalto, sira-
1 Artis amat. ii, 279-280:
Ipse licet venias Musis comilatus, Homere,
si nihil attuleris, ibis, llomere, foras.
2 Vv. 3-4.
3 Vv. 7-8.
* Son. CXC, 1-4, 12.
'• Son. CXCII, 2-6. — A lui dedicava anche tutt'i suoi Poemata (Na-
poli, Suitzbach, 1537) Nicola Cambino, di Bari, « legum iirofessor ».
6 Sonn. CXCV e CXC VI.
CXLVIII INTRODUZIONE
Cusano : runo e l'altro « reggenti la regia cancelleria »
dal 1508 in poi.
Ed eccoci ora fra cardinali ed arcivescovi, — Al celebre
cardinale Oliviero Carafa, guerriero e diplomatico *, il
Chariteo augura — mal profeta! — in due sonetti la se-
dia papale:
Quando fia mai, ch'io veggia l'alma, eterna
vertù tener, nel suo supremo stato,
le chiavi in man de la magion superna?
Sacro santo Oliver, volesse il fato,
che fusse la tua mente in cui governa,
o tu del mondo avessi il principato! "^
... Io ti vedrò ne la romana sede
et aprire e serrar de' cieli il regno,
che la salute fia di nostra fede '^.
Del nipote di costui, Vincenzo Carafa, arcivescovo di
* A lui è anche diretta la canz. XX, zeppa di reminiscenze clas-
siche, e specialmente oraziane {Od. IV, vni e ix ecc.). Nei vv. 78-88
è ricordata la celebre cappella gentilizia dei Carafa, nel duomo di
Napoli, detta Succoìyo:
i suntuosi
eterni monumenti, opra alta e rara,
onor del tempio , e sede insieme et ara
di quei beati santi, gloriosi;
ch'essendo in un sacello oscuro ascosi,
tu gli hai construtto un immortai sacrario
d'un bianco marmo parlo :
rara magnificenza a nostra etade,
rara ancor caritade:
casa d'orazion sacrata, e degna
di nobile architetto e man benegna.
Il nobile architetto fa Tommaso di Sumalvito da Como (cfr. Filan-
gieri, Dociim., voi. Ili, pp. 82-83).
2 Son. CLIX, 5-14. — Nel penultimo di questi sei vv. è facilmente
riconoscibile un'allusione ad Alessandro VI, se il son. fu scritto nel 1498
(v. le nn.).
3 Son. CLX, 12-14. — Nel secondo di questi tre vv. una reminiscenza
dantesca (Inf, xvvn, 103).
INTRODUZIONE CXLIX
Napoli, dice che è
un Vertunno in cangiar forma e colore :
or di vertù divina un simulacro,
or di vertute umana un bel candore.
Sotto il pontificai divino onore,
Vincenzo, sei un Giano in chiuso sacro,
e, in su '1 destriero, un Cesar vincitore '.
Ma,- sul SUO conto, gli storici non s'accordano troppo
col nostro poeta. E Ounsalvo Fernando de Heredia, spa-
gnuolo, arcivescovo di Terragoua, ambasciatore del re
di Castiglia presso la corte degli Aragonesi di Napoli ,
— secondo la testimonianza del Gareth — non se ne sta-
rebbe solamente
intento a servir l'ara divina ; . . .
ma reggerebbe i sommi imperi e i regni;
se i cesarei ingegni
prudenza consigliasse, e non fortunale
Ed ora fra cólte ed illustri signore. — Di Elisabetta
Gonzaga, la celebre duchessa d'Urbino, il nostro, ben-
ché non l'avesse mai veduta in terra, vuol «cantare il
sidereo viso » '. E come la Cibele virgiliana % la lieta
madre degli dei, Aurelia Tolomei, moglie di Fabrizio
Carafa, è « madre felice » di Antonio, secondo conte di
Kuvo; di Vincenzo, l'arcivescovo di Napoli, ora ricorda-
to; e di quel Jacopo, leggiadro compositor di villanelle,
cui il Tansillo dedicò il suo Vendemmiatore ^— « Non
vedrai cosa più bella» di tua madre, la contessa Vit-
« Son. CLXXXII, 9-14.
2 Son. CCI, 9, 12, lo-ii.
3 Son. CLXXIV; e v. la n. a p. cxx.
'• yEn. VI, 784:
Felix prole virum : qualis Berecyntia mater.
5 Son. CLXXXI; e v. nelle nn. alcune notizie su tutti questi Carafa.
CL INTRODUZIONE
toria Cantelmo , dice il nostro all' <«: anima santa » dì
Gorello, primogenito di lei e di Galeotto Carafa: do-
vunque tu miri ,
. . . quando ti rivolgi a la rivera
ove scende Sebeto '.
La maggior parte di questi sonetti è scritta per in-
graziarsi qualche illustre personaggio o qualcuna di que-
ste nobili famiglie napoletane, come i Carafa; e, quan-
tunque componimenti d'occasione, mostrano qua e là,
come s'è potuto vedere dai brani riferiti, una certa
intonazione epica. Più sentimento, piìi ispirazione egli
mostra solo quando gli avviene di parlare del suo Fer-
randino; delle sciagure proprie e di quelle che afflis-
sero Napoli, durante i pochi anni della dominazione
francese. — In questo gruppo di poesie egli tenne a mo-
dello qualche sonetto petrarchesco d' argomento non
amoroso, e quelle delle odi oraziane che son dispensa-
trici di lode, di fama e d'immortalità.
Il nostro fu il primo a presentare nel suo Canzo-
niere una serie così considerevole di sonetti storici. Dopo
di lui, e specialmente nella seconda metà del secolo
XVI e nella prima del seguente, le così dette rime e-
roiche cominciarono man mano ad usurpare, e fortu-
namente, il posto delle amorose, finché non giun-
sero ad ottenere un posto a sé , ben distinte dalle
altre.
Ed è in queste, più che nell'altre rime del Chariteo,
che si manifesta la sua predilezione per i giuochi di pa-
role su i nomi e cognomi di persone. Né questo ve-
ramente è un difetto tutto particolare a lui : Dante ed
il Petrarca s'erano qualche volta, anch'essi, lasciati
andare a questa specie di scherzi di non molto buon
gusto: il primo, per i nomi dei genitori di san Do-
1 Son. ce, 5-6.
INTKODUZIONK (LI
meuico '; il secondo, oltre che per quello di Laura,
per il coguome di Azzo di Corregio, in uu verso della
cauz. diretta a costui:
Cor regio fu, si come sona il nome,
quel . . . '.
«Tali giuochi di parole, — osserva il Carducci, ^ —
circa i nomi e cognomi di persone, erano nel costume
letterario », del secolo XIV: costume che il nostro cer-
tamente conobbe, e che fu anche molto comune al se-
colo XV *; ma di esso il Gareth abusò eccessivamente.
Scherza egli, dunque, sul nome del cardinal Carafa;
e Oliviero diventa o una
frondosa arbor, gentil, sempre fiorente,^
o la « bianca Oliva » '^, o il
liquor di quelle due feconde olive ''.
Scherza sul coguome di Gerolamo Carbone:
Carbone, in cui scintillan bragie accese
di puro foco di vertute ardente ;
Carbuncol, quasi un sol, per sé fulgente,...
ch'irradia il sacro, aonio, almo paese;
carbon , che '1 gran Prometeo in cielo accese
per benefizio de l'umana gente,
carbone in man del fabro ignipotente,
onde '1 mondo ignorante ogni arte apprese * . . .
' Farad, xii, 79-81.
■•^ Rune sopra arg. mor. e div. , ediz. cit., xvi, 49-50.
3 Nella nota al luogo cit. del Petrarca, ediz. cit., pp. 83-86.
* Cfr. i versi del Sannazaro, di Pietro Gravina e dell'Ariosto, che
ricordiamo qui sotto, nel testo e nelle nn.
5 Son. CLIX, I.
6 Son. cit., 6.
7 Son. CLX, I.
8 Son. CLXIX, r-8.
OLII INTRODUZIONK
E per una gentildonna, che aveva per nome o cognome
Felice, proprio come il padre di san Domenico, il no-
stro scrive questi versi, ispirandosi certamente a quelli
danteschi *:
Felice, anzi beato, il padre, e divo,
per te più degno de divino onore,
ma più felice quel, che'n casto amore
ti dèe fruir
Ma tu sovra mortai sorte felice,
che feliciti altrui coi guardi onesti,
o di felicità sola radice!
Felice te, eh' inseme congiungesti
vertù, grazia, bellezza: o gran Felice]^
E cosi sul nome e cognome di Angelo Colocci :
Colotio, di verlù vero cultore,
degno del nome angelico e divino ^.
Il cognome di Marco Cavallo fece venire in mente al
Chariteo, come poi a Lodovico Ariosto^, un
Pegaso novo, al cui pede un fluente
fonte risorge in arido terreno 5.
' Farad., 1. cit. , 79:
padre suo veramente Felice !
2 Son. CLXXIII, 5-13.
3 Son. CLXXIX, 1-2.
* Ori. fur. XLii ,91:
Et un Marco Cavallo, che tal fonte
farà di poesia nascer d'Ancona,
qual fé' il cavallo alato uscir del monte,
non so se di Parnasso o d'Elicona.
5 Son. CLXXXVI, 3-4.
INTRODUZIONE CLIII
A Lodovico Montalto dice: Ferdinando il Cattolico
la sommità del tuo mont'alto inaura,
e Vallo tuo valor mostra presente '.
Ma, in questo scherzo, era forse già stato preceduto
dal Sannazaro, in quella sua elegia allo stesso perso-
naggio ':
Mons altus nomen clarum tibi . . .
Ed anche come il Sannazaro, il nostro non si contenta di
veder soltanto questo in quel cognome: ci vede anche un
Alto Parnaso, in cui le Muse argute
spargon i rivi del Pierio fonte ; . . .
anzi Capitolino, augusto monte,
di leggi armato ^.
E così Consalvo Fernando de Heredia è
de la vertute Heredia herede "*.
Un amico , che doveva chiamarsi probabilmente Castell ,
diventa un
Castel, fundato in chiaro, alto intelletto,
di cor viril munito e ben construtto ^.
Ad un Michele Dolce, poeta contemporaneo e amico
del nostro.
* Son. CXCV, 3-4.
2 Eleg. II, vi: Ad Ludovicum Montaltum. — E, seguendo il San-
nazaro, in unepigr. allo stesso Montalto, Pietro Gravina. (Po«mato,
Napoli, Sultzbach, 1532, p. 12 r).
3 Son. CXCVI, 9-13.
* Son. CCI, 6. "
5 Son. CCIV, 1-2.
XX
CLIV INTRODUZIONE
le Muse il dolce accento,
la dolce lira diero e '1 dolce canto,
onde tra più soavi il pregio e '1 vanto,
e di dolce acquistasti il cognomento *.
E, finalmente, — è il più forte di tutti! — il nome di
Vincenzo Carafa dà origine a codesto verso:
Vincenzo, vincitor gianiai non vinto ^.
VI.
Nella stampa del 1509, aW Endimione , in cui non
son accolti che due soli sonetti di argomento sacro ^,
succedono le poesie religiose : sei canzoni ^ su la na-
1 Son. COVI, 1-4. — In un epigr. Ad Michaelem Dulcium anche P.
Gravina {Poemata, ediz. cit. , f. 27 v):
. . . cognomen diilce dederunt
florea quae circum rura vagantur apes.
2 Canz. XX, 99. — Anche il Petrarca rinchiuse in due vv. dei
Trionfi (I, I, 92-93) quattro forme diverse di questa istessa parola:
vinse, vinto, vincitor e vitto (v. la n. al vs. cit.); e due in un sol vs.
{Rime sopra arg. m. e d., ediz. cit., xxvi, i):
Vincitor Alessandro l'ira vinse.
Similmente G. F. Caracciolo , nelle Rime, ediz. cit., f. xxsn v:
Dove venduto invicto vincer sóle.
3 I sonn. XG e CLXXXVIII: tutt'e due diretti alla croce, nei quali
imita il Petrarca (P. I, s. xl) ed il Sannazaro (sonn. lxxviii-ix). —
Il primo di questi sonn. fu anche riferito per intero, insieme al primo
dei due cit. del Sannazaro, dal Tallarigo-Imbriani nella cit. iV. Ct-e-
stom.. Ili, 349.
* Veramente la IIP e la VP son sestine; ma il nostro, seguendo
l'uso dei manoscritti e delle vecchie stampe del Canzoniere petrar-
INTRODUZIONE CLV
tivitate de la gloriosa madre di Jhesu Christo; e una
settima su la sanla natività di Jhesu Christo, diretta
forse a don Federigo: colui,
per cui bontà vive secura,
principe invitto, saggio, armipotente;*
come a Beatrice d'Aragona, figlia di Ferrante I, la
vedova del buon Mattia Corvino re d' Ungheria, la po-
vera repudiata di Ladislao di Boemia, cólta e pia donna,
aragonia Egeria,
de l'una e l'altra Esperia
onor; soro di re, figlia e consorte,
de gli Ungari regina; ^
è dedicata la quarta.
E benché pensieri ed immagini sian desunti , come
comportava l'argomento, dai libri sacri, specialmente
dal Canticiim, dai Psalmi, dagli Evangelia, e dagli
inni della Chiesa; e la forma sia, naturalmente, pe-
trarchesca, e modello principale la canzone alla Ver-
gine; pure egli non ha messo interamente da parte i
suoi classici. Anche in un argomento religioso e cri-
stiano è l'arte pagana che gli fornisce pensieri e si-
militudini; come il Sannazaro, che, in quegl'istessi an-
ni, cantava, nel De partu Virginis, di Giuseppe, di
Maria, dei pastori di Betlem, di Davide, di Giovanni
Battista, dei magi, con la lingua, le immagini, i versi
interi di Virgilio. — Il principio maestoso della prima
canzone :
Sol, chiaro or più che mai, pien di letizia,
lustra il mondo; or che fu con tanta gloria
del ben divino unianitade ornata ; ^
chesco, le chiama canzoni. Cosi anche il Sannazaro nella cit. prima
ediz. delle sue Rime.
1 Vv. 97-98.
2 Canz. IV, 122-125.
3 Vv. 1-3.
CLVI INTRODUZIONE
è di Claudiano:
Sol, qui flammigeris mundura complexus habenis
volvis inexhausto redeuDtia saecula motu,
sparge diem meliore coma crinemque repexi
blandius *
E per Claudiano, clie scrisse, forse, anche dei carmi su
Gesù Cristo ^ , passi : il contrasto non è tanto stridente.
Ma che dire, quando, in principio del terzo di que-
sti componimenti, si trovan riferite alla Vergine le ma-
gnifiche lodi con cui Lucrezio aveva deificato Epicuro ?
Infatti questi versi:
Tu, che 'n tenebre tante, un si gran sole
di verità mostrasti al cieco mondo,
aprendo il ben de là celeste vita; 3
son traduzione quasi letterale del principio del libro
III del Be rerum natura:
E tenebris tantis tam clarum estollere lumen,
qui primus potuisti inlustrans commoda vitae *.
E, cosi pure, nel principio del sesto componimento:
Musa, per cui de Tuom vive la gloria,
descendi, Clio, dai cerulei templi,
per celebrare ^ . . . ,
si posson facilmente ravvisare tre versi d' Orazio ®. E
invece tutta virgiliana la descrizione dell'inverno cam-
^ Carmina, ediz. cit. , ii, 1-4.
2 Ediz. cit., voi. II, pp. 201-203.
3 Vv. 1-3.
4 Vv. 1-2.
5 Vv. 1-3.
6 Vv. Od. IV, vili, 28, III, IV, I, I, XH, 2: V. le nn. a questi vv.
INTRODUZIONE CLVII
pestre, nella canzono per la nascita di Cristo:
Lieto inverno, genial, ch'a dolci giochi
inviti i stanchi in la magion tranquilla;
mentre ch'ogni nocchier porto desia.
L'agricoltor, ne la secura villa,
tra rustici cocopagni intorno a i fochi,
gli affanni e i pensier suoi, godendo, oblia ^.
Chi, leggendo questi bei versi, non ricorda una simile
descrizione nel I Georgiconì
.... Hiemps ignava colono.
Frigoribus parto agricolae plerumque fruuntur,
mutuaque inter se laeti convivia curant.
Invitai genialis hiemps curasque resolvit,
ceu pressae cum iam portum tetigere carinae
puppibus et laeti nautae imposuere coronas 2.
La canzone in lande de la Immilitate, e il cantico de
dispregio del mondo, possou anche considerarsi come
poesie religiose, benché il loro titolo faccia piuttosto
pensare ad un contenuto gnomico e morale, perché,
anche qui, la materia è tutta biblica.
Nella canzone son descritti sei esempi d'umiltà: due
del re David , che riceve pazientemente i sassi e le im-
properio che gli lancia Semei, e danza, per umiltà, di-
nanzi all'arca del Signore; quello di Maria che acco-
glie umilmente il grande annunzio di Gabriele; e tre
insegnamenti di Cristo su la medesima santissima vir-
tù. Tutti questi esempi il Chariteo li scelse dal secondo
libro Eegnorum e dagli evangeli di Luca e di Mat-
teo^; ma, nell'istesso tempo, non trascurò «le ima-
1 Vv. 61-65. — L'ultim/) vs. cit. deriva dal Petrarca (P. I, e. iv,
lO-I i).
^ Vv. 299-304.
3 V. le nn. a questa canz.
CLVIII INTRODUZIONE
gini di tante umilitadi », intagliate nel marmo del primo
girone del Turgaiorio dantesco ' : due di quelle « ima-
gini», infatti, David danzante, e Maria e l'angelo, ri-
tornano fra gli esempi nella canzone del nostro.
Ed anche una gran parte del cantico JDe dispregio
del mondo non è che parafrasi o traduzione letterale
del capitolo v della Sapientia Salomonis. Basti que-
st'esempio:
«... tamquam navis quae pertransit fluctuantem aquam , cujus cura
praeterierit non est vestigium invenire , neque semitam carinae iliius
in fluctibus : aut tamquam avis quae transvolat in aere nuUura inve-
nitur argumentum itineris ... et post hoc nuliura signum in veni tur iti-
neris in eo . . . Sic et nos nati desiviraus esse, et virtutis quidera nul-
lum signum valuimus estendere , in malignitate autem nostra con-
sumpti sumus» \
Qual nave, che va via per mezzo l'onde,
et, arrivata ai fin del suo viaggio,
non dan segno di lei l'acque profonde;
né discerner si può per qual passaggio
sulcó quella carina il vasto mare ...
E quale augel per l'aria suol volare,
che, poi eh', ove il desir lo mena, è giunto,
del suo camin nullo argumento appare.
tai fummo noi , che in un medesmo punto
hebbe principio e fine il viver nostro,
che 'n sua malignità fu pur consunto.
Partimmo dal mortai, terreno chiostro,
senza lassar di loda alcun vestigio 3.
Ma nelle quattro terzine, con cui incomincia il cantico:
Soave cosa è riguardar di terra,
per gran vento, del mar l'onde, turbate,
dare a li naviganti orribil guerra.
* Nel canto x, 28-99.
2 Vv. lo-ii, 13. — Per le altre imitazioni, v. le nn. a questo com-
ponimento.
3 Vv. C1-C5, CG-74.
INTRODUZIONE CLIX
Soave ancor, pei campi squadre armate
ferirsi strenuamente in Marte eguale
mirar d'una turrita, aita Gittate.
Non che gioir mai debia alcun mortale
del danno altrui, ma sol perch'è diletto,
vedersi uom fuor d'un aspro, orrendo male.
Ma più soave ancor . . . ; •
egli aveva già pagato il suo tributo all'arte pagana:
Suave, mari magno turbantibus aequora ventis,
e terra magnum alterius spedare laborem;
non quia vesari quemquamst iucunda voiuptas ,
sed quibus ipse malis careas quia cernere suave est:
suave etiam belli certamina magna tueri
per campos instructa, tua sine parte perieli;
sed nil dulcius est '.
Né questa è l'unica derivazione classica riconoscibile in
questo componimento: i versi 91-99 son anche presi
da Lucrezio •*; iTel 147 è un'allusione ad un celebre brano
del De re publica * di Cicerone ; l'ultimo verso :
tal ch'adi vien narrar fabule al sordo,
è un proverbio latino , ricordato da Orazio :
Scri[)tores autem narrare putaret asello
fabellam surdo *\
Il continuo sentenziare, l'andamento generale al-
quanto sentato e fiacco, l'eco di qualche verso petrar-
chesco ^, mostrano che il modello di questo e degli al-
1 Vv. I-IO.
' Lucrezio, De ver. nat., ii, 1-7.
^ De rer. nat. ni, 1501^1505: v. le nostre nn.
* Ediz. cit. , VI, xviii, 19: nelle nn. a questo componimento.
^ Epist. II , 1 , 199-200. Fu tradotto anche dal Sannazaro, nel vs.
117 della Visione per A. d'Avalos (v. la n. al vs. cit.).
** V. le nostre nn. ai vv. 36, 43, 52-58 ecc.
CLX [NTRODUZIONE
tri cantici che verremo esaminando, furono, piìi che
le fresche e robuste terzine dantesche, quelle troppo
elaborate e stanche dei Trionfi.
Il libro de la MethamorpJiosi è un poemetto storico
di quattro canti in terza rima, riguardante i princi-
pali avvenimenti che precedettero e accompagnarono
la catastrofe del dramma aragonese a Napoli, quelli
specialmente che toccavano più da vicino il Chariteo.
Fu, dunque, scritto certamente dopo il settembre del
1501; quando, coli' abbandono del Kegno, per parte
di don Federigo, in mano dei Francesi, quel pietoso
dramma si chiuse.
Il Gareth, che si era trovato, e fin troppo, in mezzo
a que' tristi avvenimenti, alla morte di tanti suoi cari,
a tante rovine; sì per i dolori e per le delusioni pro-
vate, si per la triste condizione in che l'aveva gettato
la morte di Ferrandino *; si sente venir meno la gio-
ventù dell'animo , — aveva allora appena cinquant'an-
ni! — gli par quasi di esser divenuto vecchio.
Un giorno , stando egli seduto , tutto triste e pensie-
roso, su lo scoglio di Posillipo, a guardare
la delettevol piaggia e '1 dolce seno
napolitan, 2
che gli si spiegava davanti, e
Napol superba e '1 bel Vesuvio monte ,
che signoreggia l'una e l'altra riva; 3
1 A proposito della quale, dice nel cant. Ili di questo poemetto
(vv. 100-102):
Miser chi d' improviso il suo ben perde:
io, miser, per tua morte caddi al fondo,
e vidi in punto secco il fiore e '1 verde.
2 Cant. I, 16-17,
'^ Ivi, 23-24.
INTRODUZIONE CLXl
vedo, tutto ad un tratto, turbarsi orribilmente il mare
e il cielo, e, tra i tuoni ed i lampi, ode una voce
gridare :
Maladetto quell'uom che 'n uom si fida ! *
Allora egli, fidando solo in Dio, cerca, come può in
tanta oscurità, di allontanarsi da quel luogo; quando.
vòlto al promontorio di Minerva,
vede venire da Sorrento « un drappello di Sirene ». Alla
più bella, alla più altera di queste, poiché furon giunte
vicino a lui, egli fissa un po'insisteutementegli sguardi;
ma la Sirena, rivolgendosi a lui sdegnata, gli getta del-
l'acqua sul viso, ed egli comincia a sentir i suoi « sensi
tutti cangiati»: i suoi peli biondi divengon bianchi , il
sangue gli si gela, perde ogni «pensiero giovenile»;
in fine si trova coperto « d'un'aspra e dura cute », of-
fuscati gli occhi , trasformato in vecchio. Eacconsolato-
si alquanto di questa sventura, poiché dalla sua nuova
età nulla avevan più a temere le nude e bellissime
Sirene, s'accosta ad esse, dimandando i loro nomi.
De le Sirene alior quella suprema
vidi i capei con man dilaniare ,
qual vidua che 'I marito pianga e gema.
La corona gettò turrita in mare ,
e l'acqua, che piovea dagli occhi santi,
fe'l mar profondo più, più l'acque amare 3.
E, stando il vento ed il mare in silenzio, essa comincia
a cantare le sue sventure.
' Ivi, 57. — È il noto vs. di Geremia, xvii, 1: « Maledictus homo qui
spem habet in homine » ; ed accenna alla piena fiducia che dou Federigo
aveva riposta in Ferdinando il Cattolico, suo parente.
'■^ Ivi, 64. — Il « promontorio de Minerva » è l'odierna punta della
Campanella.
3 Ivi, 130-135.
CLXII INTRODUZIONR
È la sirena Purtenope, uu tempo, libera e lieta
sotto '1 paterno aragonese amore; *
or prigioniera di « mostri feroci orrendi , crudeli » : i
Francesi.
Ahi, magnanimi re, pien di giustizia!
Ferrandi, Alfonsi, e tu, primo Ferrando!...
Ahi, ahi, perduto ho 1 mio gran Federico! ^
E, con la sorte di quest'infelice re , compi an ere quella
della moglie, Isabella del Balzo, della sorella Beatrice,
e delle due Giovanne, regine aragonesi, e dell'altra Isa-
bella d'Aragona, duchessa di Milano: tutte, fuori la pri-
ma, vedove, tutte disperse per il mondo! Ma non appe-
na ha nominato Costanza d'Avalos ed il fratello Alfonso,
che, non può più parlare: i singhiozzi, i gemiti, il pian-
to, gliel' impediscono. E con lei piaugou tutte le Sirene,
ricordando, tra il pianto e le grida, il povero marchese
di Pescara, ucciso a tradimento, la notte del 7 settem-
bre 1495, sulle mura della fortezza di Santa Croce a
Pizzofalcone ^.
notte atra, crudel, notte omicida! ■*
esclama il poeta, e riprende a narrar lui, in tutti i par-
ticolari, quel pietoso avvenimento; al quale s'era, in
parte, trovato presente. Appena morto il marchese,
per lo silenzio poi de le maligne
stelle s'udio la voce, atra e funesta:
— Mort'è quel gran marchese Avelo , insigne! 5
« Cant. II, 18.
2 Ivi, 19-20, 28.
3 V. la n. ai vv. 1 12-1 18 del cant. II di questo poemetto.
* Ivi, 112.
^ Ivi. 163-165.
INTRODUZIONE CLXIII
Ma Alfonso d'Avalos non potette esser ucciso da un
vii fante! Fa «l'invido Marte», che, vedendo un giorno
il marchese , tutto coperto d'armi « fiammeggianti >-> , sur
un focoso cavallo, percorrere la spiaggia del
lito uapolitau tranquillo e lieto;
là (love giunger suol con l'onde salse
le sue dolci acque il nitido Sebeto;*
si trasformò nel soldato traditore ed andò incontro al
D'Avalus; ma costui, al primo colpo, gli ruppe la lan-
cia nella visiera. Marte, allora, se ne va in cielo a que-
relarsene con Giove: egli, tiglio suo, in punto d'esser
ucciso da un mortale! A malincuore il padre accon-
sente che egli compia la vendetta sul temerario. E Mar-
te, sceso in terra, non «in pugna aperta», ma, di na-
scosto, uccide il marchese:
sotto l'insidie de la notte incerta,
li die da lunge inopinata morte! '^
Misera morte! Ma Iddio, come un padre che aneli a li-
berar un suo figliuolo dal carcere o dalla servitù, toglie
dal «fero bisbiglio» del mondo gli animi buoni , puri,
ed «integri». E perciò che morì immaturamente Fer-
randino, che, ora, — dice il poeta, —
... in ciel fiammeggia
nova stella; 3
e , in compagnia di due fratelli e di una sorella del
D'Avalos, Rodrigo, Martino ed Ippolita, tutti morti gio-
vani, «canta l'istoria» di quell'Alfonso,
ch'Italia liberò da Turchi immani;*
1 Cant. Ili, 19-21.
- Ivi, 71-72.
3 Ivi, 94-95-
■* Ivi, 140.
CLXIV INTRODUZIONE
si rallegra della sua sorte e sprezza quella degli uomini.
Intanto è l'alba; ed il poeta, credendo, col mutar
luogo, di dimenticare i suoi dolori, da Posillipo si reca
presso le rive del Sebeto; ove s'addormenta. Nel sonno
gli appare il dio del fiume; il quale, «per dar reme-
dio al suo cordoglio», gli racconta «il caso amaro»
della ninfa Inarime, che, per la partenza della sua
compagna Phebe \ non ostante i conforti delle sirene
di Amalfi, di Sorrento, del Chiatamone, di Mergelli-
na, tanto pianse, tanto sospirò, che il sangue e le mi-
dolle le si disseccarono, ed
il cor gentil, soave e molle
divenne duro scoglio a poco a poco,
e 1 bel corpo un acuto e alto colle: -
l'isola d'Ischia. Il poeta, allora, rivolto al dio: «Per-
ché ai miei dolori aggiungi un nuovo dolore?» — «Perché
ai miseri è sollievo aver compagni nelle pene» ^, ri-
sponde il Sebeto, e sparisce. Il poeta si sveglia.
Anche qui, nell' immaginare e nel comporre questo
1 Questa ninfa è la Luna deirEndimione^ come si rileva dal vs.
153 di questo cant. IV, in cui Inarime:
Ahi, Luna, ahi, Luna, ahi, ahi, chiamar non cessa.
D'altronde Phebe non è che uno dei nomi della luna, presso i lati-
ni. — La Luna era ritornata dalla Spagna a Napoli, durante la per-
manenza del Gareth a Roma, tra il 1501 ed il 1503 (v. p. lxxii). Dalla
dimora, poi, della Luna in Ischia, attestataci da questo luogo della
Metham. , si potrebbe anche supporre che la donna dei n. dovesse
appartenere alla corte aragonese; gran parte della quale, con Isabella
del Balzo e i suoi figliuoli , era allora in Ischia. Con la solita esat-
tezza il Meola, p. 109, — e, copiando lui, il Ciavarelli, p. idi, —
asserisce che per la « morte di Alfonso Davalo ... fu trasformata
Ischia, suo feudo, da vaga ninfa, come la finge, in duro scoglio».
2 Cant. IV, 221-223.
3 E una sentenza latina: «Calaraitatum habere socios miseris est
solatio»; ed ora un trito proverbio italiano.
INTRODUZIONE CLXV
poemetto, il Chariteo si è servito di non pochi elementi
classici. 11 titolo, la trasformazione di sé in vecchio e
quella di luarime nell'isola d'Ischia, l'andata delle si-
rene a confortare Inarime; non sono che imitazioni o
derivazioni della trasformazione di Atteoue in cervo, e
d'altre simili; dell'andata degli dei fluviali al fiume Pe-
neo, per confortarlo della trasformazione della figliuola
Dafne in alloro; o della venuta dei re greci a Tebe per
condolersi con lei dello sterminio di Niobe e dei fi-
gliuoli: tutti del Metamorplioseon di Ovidio '. Per al-
cune di queste imitazioni abbiamo la testimonianza del
poeta istesso; il quale o invoca le
. . . sacrosante ovidiane Muse , ^
nel momento di descrivere la sua trasformazione, o,
ricordata quella d'Atteone, ne traduce alcuni versi, e
fa che la sirena Partenope si serva anch'essa dell'acqua
per gastigare il poeta, come la Diana di Ovidio *:
... et ut vellet promptas habuisse sagittas,
quas habuit sic hausit aquas, vultumque virilem
perfudit *.
Il nostro, similmente,
le guancie si sentì d'acqua perfuse 5.
* Ediz. cit., in, 155 sgg., I, 577 sgg., vi, 412 sgg.
2 Cant. I, 103.
3 Ivi, 91-93:
Per simil sorte, in quel Gargafio chiostro,
fu devorato Attèón da' suoi cani ,
dicendo : — Conoscete il signor vostro ! —
L'ultimo vs. è traduzione letterale del 230 di Ovidio:
Actaeon ego sum : dominum cognoscite vestrum !
< Met. Ili, 188-190.
^ I, IDI.
CLXVI INTRODUZIONE
E ci è anche rivelata dal poeta istesso la fonte dell'e-
pisodio del marchese di Pescara e di Marte. Il quale
— dice il Chariteo — appena si prova a combattere col
D'Avalos , sente in costui « un altro Diomede » ; addi-
tandoci così il celebre duello omerico tra questo guer-
riero greco e Marte ^; dopo il quale scontro il dio, ferito
nel ventre da Diomede , sale nell'Olimpo a lagnarsi di-
nanzi a Giove di Minerva, che aveva aiutato quel mor-
tale contro di lui: episodio — e questo fa non poco o-
nore al Chariteo — che il nostro imitò molto da vicino ^.
Finalmente, l'apparizione del dio Sebeto ricorda troppo
quella del dio Tiberino, in Virgilio ^; e, così, pur da lui
son tradotti la descrizione della notte '' , i conforti della
sirena Mergellina, e le parole con cui le risponde Ina-
rirae ^, e moltissimi altri particolari ed immagini^; e
tradotto da Claudiano è anche il principio del primo
cauto ^ Ed anche quella Visione, in cui Saunazaro im-
magina che Alfonso d'Avalos, la sera istessa della sua
morte, gli apparisca e gli descriva la sua fine; scritta
poco dopo l'avvenimento (7 settembre 1495); ^^ certo
presente al nostro, quando si fece a parlare di quella
pietosa tragedia **.
Non ostante questo frequente ricorrere alla poesia
classica e contemporanea, il poeta si rivela qua e là ve-
ramente, profondamente commosso. E ciò accade per lo
più quand'egli, avendo dinanzi agli occhi l'aspetto squal-
1 Ilìad. V, S46 sgg.
2 V. le nostre »in. ai vv. 34-36, 40-42, 4G-47, 49, 52-62 del caiit. Ili
3 jEn. vili, 28 sgg.
< V. la n. ai vv. 134-139 del cant. IV.
5 Ed. X, 28-39: V. la n. ai vv. 191-205 del cant. cit.
6 Cfr., p. es., le nn. ai vv. 38-39 del cant. I; ai vv. 130-133, 154-
156, 182-183 del ir, ai vv. 37-39, 103-105, 106-108 del HI ecc.
'' V. la n. -ai vv. 1-3 del cant. I.
8 Cfr., p. es., i vv. 121-144 'lei cant. II con i vv. 52-54, 79-81, 133-
150 della Visione (nelle nn. ai vv. cit. del n ).
INTKODUZIONE CLXVII
lido c miscrevulo di Napoli, governata dai Francesi, ri-
corre subito col pensiero alla dolce vita della corte spa-
gnuola. «Chi potrebbe contenersi dal piangere», grida
allora il Garetb, al veder quattro regine aragonesi di-
sperse per il mondo; al ricordare con che virile fortezza
d'animo Isabella del Balzo assistette alla partenza del
povero marito, don Federigo, da Ischia? In una stu-
penda apostrofe tutto quel tempo, quel caro tempo, è
rievocato: malinconico quadro!, che ricorda una delle
più belle pagine della Storia cV Italia di Francesco
Guicciardini '.
Ove siete, o Joànne?: ambe reggine,
d'Ausonia e d'Aragonia ambe ornamento ,
per vertute e bellezza ambe divine? ^
Ov'è Beatrice?; ov' è '1 grande incremento
del valor d'Aragon?: di re sorella,
figlia e consorte, e di lor gloria augmento?
Or per te cresce il duolo, alma Isabella,
di re feconda madre e di vertute,
e di re guida, orientale stella! . . .
Poiché, viva, il tuo re veder potesti,
pien di sdegno, d'amore e di pietate,
scender al mar, con gli occhi alteri e mesti;
e de l'Enario ciel le vele infiate
con gli occhi prosequir per l'onde amare,
che ne portar le tue ricchezze amate;
poiché, senza morir, potesti stare
col viso forte, intento a la marina,
finché già non vedesti altro che '1 mare; 3
' Nel cap. II del libro V; riferito anche nella cit. N. Crestom. dei
Tallarigo-Imbriani, voi. Ili, p. 334, n. 3, a proposito di questi vv.
del D., ivi riportati; e nelle nostre n>i. ai vv. cit.
^ Virgilio, Georg, iv, 341-342:
. . . Oceanitides ambae,
ambae auro, pictis incinctae pellibus ambae.
3 In questa e nelle tre precedenti terzine imita Ovidio , Epist. xiii,
17 sgg, come già nella canz. XV, 49 sgg. (v. p. xci).
CLXVIII INTRODUZIONE
indizii son che sei cosa divina,
non impedita mai d'umana spoglia,
di man propria di dio fatta regina! *
Alla Methamorpliosi seguono: un cantico per la morte
de don Innico de Avelos marchese del Vasto , e la Re-
sposta contra li malivoli.
Il cantico, scritto dopo il 30 settembre 1503, quando
morì quel marchese, fu inviato « a donna Constanza
d' Avelos, duchessa de Francavilla», sorella di Inico,
la quale si trovava allora in Ischia.
Questa illustre ed eroica donna, vedova di Federigo
del Balzo fin dal 1483, perduto il padre neir84, la
madre prima del 94, nello spazio di pochi anni, aveva
veduto morire tre fratelli ed una sorella : Martino ,
conte di Montodorisio, nella prima metà del settembre
88^, a Koccasecca, Alfonso, il celebre marchese di
Pescara, come già vedemmo ^, il 7 settembre 95, sulle
mura della fortezza della Croce; Rodrigo, conte di Mon-
todorisio e marchese del Vasto, nei primi giorni del
gennaio 97, nel contado d'Arpino. Ippolita, poi, impa-
rentata con gli Aragonesi, perché moglie di don Carlo,
nipote di Ferrante I, era già dovuta morire prima del 30
' Cant. 1 , 46-72.
2 Oltre che dai Vaù-ano ed i suoi dinasti del march. L. Geremia
(Napoli, 188S), pp. 11-12, lo rilevo da un ordine di Ferrante I, ai
«guardiani de passi ponti, scafe ecc.», del i8 sett. 1488, perché non
non diano né « impaccio né molestia alcuna ad quilli che conduce-
rano lo corpo del spectabile conte de Montederisi, quale quisti di
passati morio in Roccaseccha » ; il qual corpo la « magnifica madonna
Antonella de Aquino, marchese de la Piscara, nostra fidela dilectis-
sima, de presente fa condurre qua in Napoli in la ecclesia de Santa
Maria de Monte Olivito ». Notizie biografiche di Martino, Rodrigo ed
Inico d'Avalos, nelle nn. ai vv. 62, 65, 73 di questo cantico; d' Ippo-
lita , nella ". ai vv. 133-134.
^ A p. XXX.
INTRODUZIONE CLXIX
settembre 1303 ', quando morì don Inico, ultimo dei
fratelli rimasti , per « una pestifera febre » , presa nel
Cilento, ove combatteva i Francesi e le genti del prin-
cipe di Salerno.
Il poeta, dopo di aver mostrato e confortato, con
esempi mitologici, il dolore di Costanza d'Avalos e
della moglie di Inico, Laura Sanseverino, — per la
quale, nell'istessa sventura, aveva anche scritto il son.
CXIII ^, — immagina che lo spirito di quest'ultima sia
volato, con quello del marito, nel cielo:
consorte in vita, e più consorte in morte; 3
e che', poi, per le preghiere e le raccomandazioni di
lui, di «ritornare a governare» i loro tre figliuoli ^ ,
sia ridisceso nel corpo, pallido e freddo '". Ma, ap-
1 Ippolita non era ancor maritata il 23 sett. 1499, quando don Fe-
derigo invitò « ad andar da lui il marchese del Vasto , essendo ne-
cessaria la costui presenza per conchiudere il matrimonio tra la so-
rella sua Ippolita e don Carlo nipote di S. M. » {Arch. stor. nap. XV,
708). Dunque mori tra il sett. 1499 e il sett. 1503. Nella Metham. Ili,
134, scritta certo dopo il sett. 1501, e, probabilmente, dopo la seconda
metà del 1503, è anche ricordata come morta. Il primo nov. 151 1,
« Don Carulus de Aragonia . . . exposuit . . . quemadmodum volens sa-
tisfacere ili. marchioni Piscarie et ducisse Francaville dotes quas ac-
cepit a quondam ili. Ipolita de Davolos de Aquino, eius consorte, non
habens alium modum ...» {Privileg. della Cancell., voi. 12, f. 195 r).
'■^ Laura Sanseverino, piangente , e assai « più bella » nel pianto , è
ivi assomigliata (vv. 12-13) ^'l^.
. . . novella
rosa, aspersa in rugiada matutina.
3 Vs. 96.
* Pe' quali v. la n. ai vv. 162-165 di questo cant.
s II quale era, secondo una similitudine virgiliana (uEn. xi, 68-71):
. . . come rosa , svelta in primo mane ;
purpureo color d'un bel giacinto ;
a cui la venustà dolce rimane,
ma, di terrestre umor non più nudrito,
langue, morendo tra virginee mane.
CLXX INTRODUZIONE
pena riavuto il sentimento della vita e del dolore:
squarciasi il volto e '1 petto, con asprezza
d'unghie, avide di sangue: a cui più vuole
servar la giovenil cara bellezza?
E rivolgendosi al cadavere del marito:
Chi mi rende al dolor? chi mi disgiunge
di te?
Ahi, infelice me!: chi mi perdona?
Viva, poss'io veder la fronte estinta,
degna di trionfai^ laurea corona?;
e questa destra ancor, giamai non vinta,
che fé' l'alta Salerno al suolo equare,
e di sangue ribelle uipida e tinta?
Dunque al sepolcro ti vedrà portare
la tua partenopea patria, per donde,
trionfando, vittòr devevi andare?...
bel marchese mio!: del ciel, non mio! '
E, dicendo questo, si scioglie i capelli, li taglia e li
strappa « col ferro e con le mani », e li offre, in luogo
delle «spoglie delle sue vittorie», al marito.
Ha molta somiglianza con questo cantico, e per lo
scopo per cui fu composta e per alcuni particolari , la
Consolatio ad Liviam"-, attribuita già ad Ovidio, ma
opera, forse, di autore medievale ^; in cui si con-
forta pure una donna per la morte di un suo caro,
valoroso capitano, ucciso non sul campo, ma da una
malattia. Il nostro conobbe certamente quest'elegia; e,
per convincersene, basterà solo confrontare questi versi
dell'elegia latina con gli ultimi quattro, ora riferiti, del
nostro :
* Vv. 181-186, 193-201, 206.
"^ Poetae latini minores , ediz. Baehrens , Lipsia, 1S79 , voi. I,
p. 104 sgg.
^ Come di Ovidio si trova nelle due prime edizz. delle sue opere ,
Roma e Bologna, 1471. — V. Teuffel, Op. cit. , voi. II, p. 92.
INTRODUZIONE CLXXI
Funera ducuntur Romana per oppida Brusi,
(heu facinus) per quae victor iturus erat,
per quae deletis Raetorum venerai armis...
Nil ego iam possum certa vocare meum.
Hic meus ecce luit •.
E, fra non pochi versi ed immagini e sentenze tra-
dotte ed imitate, secondo il suo solito, da Virgilio,
da Orazio, da Properzio, dal Petrarca, è bella ed af-
fettuosa questa apostrofe a due dei morti fratelli D'A-
valos :
di vertute e candidi costumi
regula santa, o bel Martin, che pria
la terra, or di beltade il cielo allumi;
dove sei?... Dove tu, che l'ardua via
prendesti al cielo, o Roderico eterno,
in region che santa esser solia?
Di Mario e Ciceron suolo materno,
per lor nata! si celebrata e chiara,
per la tua morte infame in sempiterno! 2
Nello scrivere, invece, la Resposfa contro li malivoli,
che in un manoscritto contemporaneo ^ è intitolata an-
che Besposta a le invective facte contra esso da li in-
vidi autori, nominate triumphi, ebbe certamente di-
nanzi la celebre elegia del Sannazaro: In maledicos de-
tradores * , composta nel 1485 ^
Tentando qui, per la prima e l'ultima volta ^ , la sa-
1 Vv. 173-175, I54-I55-
2 Vv. 61-69. — Ed anche quelle ad Alfonso d'Avalos (vv. 43-4S) ed
a Laura Sanseveriao (vv. 76-84).
3 Del cod. sessor. 413 della bibl. Vittorio Emanuele di Roma, il
quale contiene, mancante degli ultimi undici vv., e con varianti, il
componim. del n.; più appresso.
■* Elegiar., ed. cit., I, xi. — Per le imitazioni del Sannazaro, v. le
nn. ai vv. 1-2, 91-96, 149-130 ecc., e la n. 4, a pp. clxxii-iii.
^ V. Tafuri, Oy. cit., pp. xxxvn-viii.
•5 Veramente anche la canz. IX, diretta a Galeazzo Caracciolo, è
CLXXII INTRODUZIONE
tira, egli inveisce contro due pessimi verseggiatori , in-
vidiosi ; i quali , in un
trionfo in falsa rima,
pien di falsi adiettivi e falsi verbi,*
avevan disprezzato le poesie del nostro, — le giovani-
li, probabilmente, — e, fra l'altro , avevan sentenziato
che egli sarebbe stato dimenticato ^. Il Chariteo, al-
lora, dopo di aver detto d'essi, come verseggiatori,
che son « poveri d'invenzione » , che nulla san fare senza
l'aiuto altrui; che usano una «dizione impropria» e
che dei lor versi uno «sale su, l'altro discende»; e
che quelle loro « inezie » son scritte in prosa dall'uno ,
e tradotte in verso dall'altro; viene ad accusarli, come
uomini, di que'vizii cosi comuni agli uomini di lettere,
nel medioevo e nel rinascimento : la pederastia e la so-
domia ^, ed a rivelarne brutte azioni, e colpe non meno
infami. Accusa il primo,
— che nacque
dal falso parto del ventre mendace *
scritta contro
alcuni animi, d'atra invidia pieni,
vóti d'ogni amorosa cortesia;
ì quali, per le lodi, che il n. facea, nelle sue rime, degli Aragonesi
e della Luna, chi sa quali malignità erano andati insinuando !
1 Vv. 52-53.
2 Vv. 109-111:
venefico infando e scellerato,
vaso d' iniquità, di vizii pieno,
tu credi pur eh' io sia dementicato ?
3 Una « prammatica contro li sodomiti» fu pubblicata a Napoli nel
1504 (Notar Giacomo, p. 272).
'^ Vv. 98-99. — Il secondo vs. traduce il catulliano (lxvii, 48) :
Falsum mendaci ventre puerperium.
INTRODUZIONE CLXXIII
di una madre « morlacchese » \ — di esser
da ser Brunetto sì ben insegnato,
che li fanciulli prende in suo governo; ^
di aver disgiunti due fratelli fra loro, ed insegnato
loro a bestemmiar Dio e a odiare il loro padre; e cliia-
ma il secondo:
gloria, primo onor di Malebolge 3.
Quest'isteso, poi, che vien detto:
tanto amator del sesso masculino,
che la sua propria madre abborre e fugge,
perché fu del legnaggio feminino;*
e di cui son riferiti questi versacci:
Amor mi liba. Amor mi strugge,
hor quindi, or quinci, unquanco: oim.é!. tutCardo ,
oimé, ch'Amor nel cor mi stride e rugge!\ 5
doveva esser certo uno sguaiato scimmiotteggiatore del
Poi aggiunge (vv. 104-105):
Come Edipo fedo l'onor paterno,
se pur tra tanto volgo è certo il padre;
traducendo il Sannazaro, /. e, 57-58:
Oedipodique modo , thalamos foedate paternos ,
si modo dat certum vulgus habere patrem.
' Cioè: croata o dalmata.
2 Vv. 107-108.
3 Vs. 127. — Io intendo; seduttore; che seduttori erano i puniti nel
primo dei dieci fossi del Malebolge dantesco {Inf. xviu).
^ Vt. 15 1-153.
5 Vv. 154-156.
CLXXIV INTRODUZIONE
Petrarca e dei toscani: ma chi sarà mai *? Al Cabal-
lero'^, a me non è riuscito ancora di scovarlo.
Da' pochi versi riferiti, dal riassunto che abbiam fatto
degli altri, si direbbe che in questa satira egli si pro-
ponesse di seguire la maniera acre, violenta e sboccata
di Giovenale^; se non che, nella seconda parte del
componimento, ei prende a modello anche quella più
urbana di Orazio. Il quale, nella satira x del libro I,
rispondendo a certuni che avevan sparlato delle sue
poesie, fa capir loro che lui se ne infischia di quei giu-
dizi, se, invece, ha un Augusto, un Mecenate, un Vir-
gilio, un Vario ed altri acuti ingegni apprezzatori ed
estimatori delle cose sue:
Plotius et Varius, Maecenas Vergiliusque,
"Valgius et probet haec Octavius optimus atque
Fuscus et haec utinam Viscorura laudet uterque!
Ambitione relegata te dicere possum,
Polio, te, Messalla , tuo cura fratre, simulque
vos, Bibule et Servi, simui bis te, candide Fumi,
conplures alios, doctos ego quos et amicos
prudens praetereo, quibus haec, sint qualiacumque,
arridere velim, doliturus, si placeant spe
deterius nostra '*.
Molto similmente il Gareth:
Mordete pur , che noia non mi fanno
morsi d'un maculato e fragil dente,
di cui le lode sono infamia e danno.
* Il Capasso, p. 43, n. i, — e dopo lui il Ciavarelli, p. 28, n. —
credette che il Ch. alludesse qui al Pistoia, del quale è noto un son.,
in cui si dice male del n. {Rime, ediz. Cappelli-Ferrari, Livorno, 1884,
p. 51 ; riferito più appresso). Ma per me è fuor di questione che qui
si tratti di due verseggiatori che vivevano a Napoli e invidiavano al
Ch. il favore che questi godeva nella corte aragonese.
2 Op. cit. , p. 27.
3 Imitò anche Giovenale nei vv. io, 198: v. le nostre nn.
4 Vv. 78-89.
INTRODUZIONE CLXXV
Basta che '1 domitor di tanta gente,
lodando questo mio picciol ingegno,
ascolte i versi miei benegnamente:
quel Ferrando immortai; *
e, con costui, il figliuolo Alfonso, il nipote Ferrandino,
quel «gran» Federigo; mentre che Alfonso d'Avalos
e Andrea Matteo Acquaviva
ajiproven quanl'io canto e quanto scrivo'.
Voi, intanto, «Gagnoli impii e maligni», latrate: io
vivrò nei versi immortali del Fontano e del Sannazaro:
Parie di me il Pontan, quel bel tesoro
d'Apollo e de le Aonide sorelle,
che con la lingua sparge un fiume d'oro!
Depinto io sia ne l'opre eterne e belle
del mio bel Sannazar, vero Sincero,
ch'allora io giungerò fin a le stelle! '
j\Ii lodino amici come il Pardo, l'Altilio, il Galateo,
il Summonte, il Musetilo, il Maio, il mio Corvino;
ch'io del vostro mal dir trionfo e godo!*
Il libro di Chariteo infitulafo Pascila è un poemetto
istorico-religioso , in sei cantici, anche in terza rima;
e fu scritto, come dice il poeta, nella sua «grave età»;
certamente dopo l'autunno del 1503, — perché vi si ri-
corda già morto il Fontano, — e prima del novembre
1509, quando fu pubblicato, insieme alle altre rime, nel-
l'edizione curata dal Summonte.
Il vero scopo di questo componimento apparisce
* Vv. 163- 169.
^ Vv. 195.
3 Vv. 208-213.
* Vs. 229.
CLXXVI INTRODUZIONE
solo negli ultimi tre canti: i tre primi fanno come da
preludio. L'argomento religioso non è che un pretesto.
Come nella canz. VI, a mostrar l'origine divina della
dominazione aragonese in Napoli, il Chariteo fa che
l'anima sua, secondo la dottrina platonica, stando in
cielo, prima di entrare nel corpo, assista alla donazione
del regno napoletano fatta da Dio ad Alfonso il Magna-
nimo e ai suoi discendenti, ed alla predizione che Dio
fa delle più celebri loro imprese ' ; così , qui , a confer-
mare l'origine semi-divina attribuita ad una delle più no-
bili famiglie forestiere napolitanizzate, da una leggenda,
vecchia d'un par di secoli, e molto divulgata anche
sul principio del secolo XVI; la quale facea discen-
dere i Del Balzo da uno dei tre Magi: Baldassarre^;
immagina che Cristo , dopo la risurrezione e l'ascen-
sione in cielo , chiami a sé i Magi , e , per rimunerarli
dell'amor e della fede che aveano avuta in lui , fac-
cia loro predire dalla parca Cleto i destini dei loro
discendenti nel napoletano. — E quali destini ! Essi ,
imparentandosi con la famiglia aragonese , regneranno
sul trono di Napoli! E ciò accadrà per due donne,
figlie di Tristano di Chiaromonte e di Caterina Orsini:
la prima d'esse, Isabella, sposando Ferrante I d'Ara-
gona, sarà madre del celebre Alfonso, che avrà per
B oglie una Sforza-Visconti , Ippolita Maria; di don Fe-
derigo, di Eleonora, di Beatrice e d'altri; e Sancia,
la seconda, maritatasi a Francesco del Balzo, duca
d'Andria, avrà per primogenito quel Pirro o Pietro,
che, sposando Maria Donata Orsino, sarà padre di
un'altra celebre Isabella: la moglie di don Federigo. E
con Pirro del Balzo, poi, oltre che gli Aragonesi, s'im-
parenteranno anche tre altre illustri famiglie: i D'A-
' V. a p. cxx e sgg.
2 V. la n. al vs. 51 del cant. VI della Pascha, e cfr. Campanile,
Dell'armi overo insegne dei nobili ecc., Napoli, 1680, p. 120.
INTRODUZIONE CLXXVII
valos, con Costanza, che sposerà Federigo del Balzo,
conte dell' Acerra, primogenito di Pirro; i Guevara,
con Pietro, marchese del Vasto, che, sposando Isotta
del Balzo, prima figliuola di Pirro, avrà due figlie: Eleo-
nora , che si mariterà a Lodovico di Lussemburgo ,
conte di Ligny e di Conversano; e Covella, che sarà
moglie del celebre marchese di Montesarchio: Giovan
Vincenzo Carafa; i Gonzaga, con Gian Francesco, che,
marito della terzogenita di Pirro, Antonia, avrà, fra
l'altre, una figlia, Dorotea, che si mariterà a Giovan
Francesco Acquaviva '.
Probabilmente il poemetto fu scritto per glorifica-
re la infelicissima vedova di don Federigo , Isabella
del Balzo ', e con essa i tre suoi figliuoli: «tre re»,
— augura il poeta: — il primo de' quali sarà « quarto
Ferrando » ; e per ingraziarsi tutte quelle famiglie
imparentatesi con lei , per il matrimonio dell'unico suo
fratello, delle due sorelle e delle figlie di queste: i
D'Avalos, i Guevara, i Gonzaga, i Carafa, i Lussem-
burgo, gli Acquaviva. E poiché in alcune delle lodi che
fa, ei mostra il suo bell'animo sempre costante, sem-
pre fedele ai suoi Aragonesi; nel cui non lontano ri-
torno sul trono napoletano egli ha, piìi che una debole
speranza , una quasi salda fede ^ ; ed in altre appare
troppo caldo encomiatore di un Pirro del Balzo, di un
Pietro Guevara, di un Andrea Matteo Acquaviva, e
perfino di un Lodovico di Lussemburgo, cugino di Carlo
Vili, non certo teneri amici di casa d'Aragona; è le-
* Le notizie biografiche di qviasi tutte queste persone nelle nìt. alla
Pascha, ai luoghi citati neW Indice storico, in fine della nostra ediz.
2 La povera regina, lasciata co' figliuoli in Ischia da don Federigo,
quando questi andò in esilio in Francia; raggiunse il marito nell'agosto
1502; ma, dopo la morte di lui (9 nov. 1504), si recò a Ferrara, presso
Alfonso d'Este, figlio di Eleonora d'Aragona. Cfr. Passaro, p. 129.
3 Cant. V, 157 sgg.
* Ivi, vv. 166 sgg.
CLXXVm INTRODUZIONE
cito supporre che il povero vecchio, un tempo primo
ministro di que're, fosse stato costretto, negli ultimi
anni suoi , a sperare nella munificenza di queste grandi
e ricche famiglie; nelle quali un Giovan Vincenzo Ca-
rafa, un Andrea Matteo Acquaviva, una Costanza d'A-
valos avevan fama di appassionati ammiratori e pro-
tettori di letterati.
Tutta la parte, per così dire, storica è compresa ne-
gli ultimi tre cantici. Nei tre primi, invece, egli, se-
guendo passo passo la tradizione evangelica, e special-
mente quella di Giovanni ' , descrive tutti i principali
fatti che seguirono la morte del redentore: l'andata di
Maria Maddalena al sepolcro; la discesa al limbo, e la
risurrezione di Gesù; l'ascensione di Maria Vergine;
l'apparizione di Cristo a Maddalena, a due discepoli
sulla via d'Emmaus, agli Apostoli; la sua salita in cielo.
Per colorir questo gran quadro' egli si serve non
solo dei migliori brani dei Fsalmi, — di questi anche
qualcuno parafrasato quasi per intero^, — del Canti-
cum ^, e di sentenze ed immagini de\VA2)0cahjpsls *;
quanto di qualche breve episodio, di immaginazioni e
similitudini virgiliane ^. Come Virgilio ad Augusto sulle
rive del Mincio, anche il Gareth vuole, se mai ritor-
nerà in patria, inalzare un tempio alla Vergine, sulle
rive del Llobregat '^. Lo spavento da cui son prese le fu-
rie infernali, — che son tutt'una cosa con i malanni ed
i vizi personificati e posti da Virgilio innanzi al vesti-
* V. le nn. ai vv. 67-69, 100, 103, 115-116 ecc. del cant. I; 103-
116, 133-135, 142-143 del li.
2 Per es., il salmo xcvii, 1-9, nei vv. 223-243 del cant. I; il lvi,
8-9 nei vv. 58-60 del II; i xcv e xcix, cix, cxlv, lxxxviii, cxii, nei
vv. 106-107, 118-119, '3^' '^7. 169-171, 172-176 ecc. del III.
3 Cfr. le ìui. ai vv. 29-31, 46, 48 ecc. del cant. III.
* Cfr. le nn. ai vv. 142-144, 158-159 del cant. Ili; 83-87 del IV.
5 Per es. , quella della riflessione dei raggi solari sull'acqua (^n.
vin, 21-25), nei vv. 64-6Ó del cant. II.
8 Ivi, vv. 46-51, e Georg, m, 13-16.
INTRODUZIONE CLXXIX
bolo dell' Averne ' , — all'apparir dì Cristo , ricorda
quello del Caco virgiliano, quando vede la sua spelon-
ca smantellata da Ercole ". Il Battista rivolge a Cri-
sto , venuto nel limbo a liberar lui e gli altri santi pa-
dri, ristesse parole di Ancbise ad Enea, quando lo
rivede ne' campi Elisi ^ E pure virgiliane sono la de-
scrizione di una notte *, e dello stato del cielo, della
terra, dell'aria, del mare, dopo cbe Iddio lia parla-
to^; l'incitamento a seguir la virtù nel breve tempo
della vita"; la predizione della breve vita di Ferran-
dino ''; il compianto di Federigo del Balzo ^, il para-
gonare Costanza d'Avalos a Diana cacciatrice ^.
La somiglianza dell'argomento, l'identicità della
scena, a cui ci riconducono gli ultimi tre canti, gli
dovettero spesso ricordare il Paradiso dantesco ed il
recente poema latino del Sannazaro: il Be partii Vir-
ginis. Dell'uno e dell'altro, infatti, si trovano non po-
che tracce nella Pascila ^^ : anzi è con una entusiastica
* Ivi, vv. 143-183, ed JEn. vi, 273-2S1. — Il n. tenne anche dinanzi
Claudiano, in, 28-38, che aveva imitato l'istesso luogo di Virgilio.
' Ivi, vv. 124-138 ed Mn. viii, 238-248.
3 Ivi, vv. 197-207 ed ^n. vi, 687-694.
< Cant. II, 37-49: ^n. iv, 522-529.
5 Cant. V, 97-102: ^n. i, 254-236; x, 100-103.
6 Ivi, vv. 82-86: jEn. X, 467-469.
7 Ivi, vv. 145-147; ^n. VI, 869-870.
8 Cant. VI, 104-105: jEn. vi, 883-886.
9 Ivi, vv. 112-124: JEn. I, 498-503.
1" Per Dante, cfr. , fra le altre, V invocazione della « Diva Beatrice »
in principio del cant. IV, 4-15; il chiamare «alta laurea Augusta»
(V, 14), Maria Vergine, come nel Farad, xxxii, 119, ecc. Per il San-
nazaro, V. le nn. ai vv. 127-128, 137-141, 214-219 del cant. I , ecc. —
Di tutte queste imitazioni notate, s'accorse all'ingrosso anche il Meola,
p. Ili: «Il medesimo [Chariteo) avendo impreso a scrivere il Poema
della Resurrezion di Cristo negli ultimi anni suoi, ad imitazion del
Sannazaro, che scrisse in latino quel del Parto della Vergine, segui
il Dante {sic) nello stile e nelle forme non meno che il Petrarca nei
suoi Trionfi ...» : ivi son anche « tradotti molti luoghi del Vangelio
e dei Salmi ».
CLXXX INTRODUZIONE
invocazione all'Alighieri ed al Petrarca, ricalcata su
quella di Properzio per Callimaco e Fileta \ che si
apre questo poemetto:
Anime sante', esempio sempiterno,
lume e splendor del bel tosco idioma.
Dante e Petrarca, d'Arno onore eterno;
onde traeste voi la ricca soma
di bei volumi? e 'n qual fonte beveste?
l'antro, ove entraste, ancor come si noma?
Deh, fate omai ch'a noi si manifeste
vostra secreta selva, i lauri vostri,
sacrati a l' immortai musa celeste!
Che 'n tal guisa serraste intorno i chiostri,
che, dopo voi, nessun preclaro ingegno
v'ha penetrato, insino a i tempi nostri.
Cosi le dolci paci e '1 dolce sdegno
di Laura sian piìl dolci, e '1 sacro nume
de la Beatrice sia sempre benegno! *
La Fascila, che è il più lungo dei componimenti del
Chariteo, — sei canti di quasi duecento versi ognuno, —
è notevole per una certa larghezza di concepimento, per
una mediocre finitezza dei particolari, per il colore bi-
blico quasi sempre serbato. Ma, scritta quando il poeta
era già inoltrato nella sessantina e prossimo a' settan-
ta, risente di tutti i difetti della vecchiezza: manca,
perciò, di calore e di vera ispirazione, e mostra qua e
* Eleg. IV, I, I sgg.; e cfr. specialmente i vv. 5-6 con la seconda
delle terzine riferite:
Dicite, quo pariter Carmen tenuastis in antro?
quove pede ingressi? quamve bibistis aquam?
2 Cant. I, 7-21 e v. le n?i. a questi vv. — Nello scrivere la terza e
quarta terzina ebbe forse anche presente il Sannazaro, De part. Virg.
n, 301-308. — Nella prima delle terzine ora cit., nominando anche il
Petrarca per una sua opera dedicata alla « musa celeste » , pare che
voglia alludere al Trionfo della divinità, di cui forse imitò gli ul-
timi vv. in fine del cant. VI della Pascha.
INTRODUZIONE CLXXXI
là un certo che di pesante e di stentato, di stanco e di
monotono.
Ma son pur pieni di aifetto e di tristezza quei versi
in cui il poeta invita le sue lagrime a rinchiudersi nella
tomba di Ferrandino ' :
Tornate indietro voi, lagrime mie,
chiudetevi al sepulcro, in notte oscura,
là dove dorme Taragonio die 2.
Né manca d'espressione e di vivacità il ritratto che di
Ferrante Guevara, il vecchio conte di Belcastro, prode
guerriero e poeta ^ , tratteggia la parca Cloto nel pa-
radiso:
E di Belcastro il conte, in gioventute,
ornato fia di ramo trionfale,
di pacifica fronda, in senettute:
quel be! Ferrando ai re non inequale
in maiestade, in fronte, e lieta e grave,
con condimento di giocondo sale.
mansueta umanità, soave
nettar d'ogni tranquillo animo grande,
amaror de le menti inique e prave! *
E quest'altri, in cui la stessa Cloto compiange Federigo
del Balzo, che morirà giovanissimo, posson ben stare ac-
canto ai virgiliani e ai danteschi, da cui derivano:
1 Nella sagrestia di San Domenico Maggiore (Summonte , Historia
di Nap., Ili, 524). Questi vv. furon forse scritti prima del 21 decem-
bre 1506, quando, per un incendio, si bruciò il corpo di Ferrante II
e quelli di Alfonso I e di Ferrante I (Passaro, p. 147).
2 Cant. IV, 130-132.
3 Nel Cancionero de Lope de Stùhiga, cód. del siglo XVj ahora
por vez primeva publicado (Madrid, Rivadeneyra, 1872), a p. 337 vi
è una « Pregunta de don Fernando de Guevara al sennor Rey [Al-
fonso il Magnanimo], et la respuesta por su mandado del sennor, re-
spondiendo ea su persona ». A pp. 436-47 anche delle notizie su di lui.
* Cant. VI, 28-36.
CLXXXII INTRODUZIONE
Con man piene di gigli e di viole
onorate il candor di Federico:
Federico, di Pirro inclita prole *.
Ma più belle, più ispirate, più affettuose son le terzine
che fanno, anch'esse, come da preludio al poemetto.
Il poeta, invecchiato, già prima del tempo, per tanti
dolori sofferti, si sente, tutt' a un tratto, come rin-
giovanito, al pensiero della patria lontana, della sua
Barcellona, ove visse i lieti anni dell'adolescenza, ed
ove vorrebbe ritornare poeta, glorioso dell'amicizia e
della stima del Sannazaro, per inalzare, alle falde del
Monjuich, e presso le rive del Llobregat, un tempio
alla Vergine, come poi fece, negli ultimi anni della sua
vita, anche il suo amico, a Mergellina^:
quando fia quel di, Muse benigne,
che 'n la mia patria prima io vi conduca,
in quelle alte magion, di gloria digne?
Là conven che '1 mio nome splenda e luca,
rimembrando Tonor ch'ai cielo estolle
il mio bel Sannazar, maestro e duca:
il suo Sebeto, e '1 bipartito colle
Vesuvio, e i lauri ch'adornaro il ciglio
del re, che '1 cielo inanzi tempo volle.
Sotto '1 monte di Giove, in sul vermiglio
fiume, poner io spero un tempio d'oro
a la madre del ciel, figlia del figlio! ^
1 Ivi, vv. 104-106. — Cfr. Virgilio, ^n. vi, S83 sgg. e Dante,
Purg. XXX, 20-21; Inf. iv, 80; nelle nostre n». a que' vv.
2 CoLANGELO, Vita del Sann., p. 240.
3 Cant. I, 37-48. — Oltre che al brano virgiliano già cit. (p. clxsviii,
n. 6), il n., scrivendo questi bei vv., pensava a Dante, nel suo ma-
linconico sospiro alia patria lontana {Farad, xxv, 1 sgg.).
INTRODUZIONE CLXXXIII
VII.
Chi ha avuto occasione dì percorrere gli scrittori no-
stri non toscani del secolo decimoquinto, avrà già no-
tato da sé , da' versi sinora riferiti del nostro , che il
Gareth conosceva e adoperava la lingua toscana assai
meglio di alcuni suoi contemporanei, e specialmente
dei napoletani.
Ma di questo nessuna maraviglia. Si può dire che la
lingua toscana e' l'avesse succhiata col latte, già in I-
spagna. Barcellona , come la piìi importante città com-
merciale del Mediterraneo , nel secolo decimoquinto ,
era in continue relazioni con l'Italia. Fin dalla secon-
da metà del secolo precedente, i giovani spagnoli si
recavano nelle università italiane a perfezionare i loro
studi '. Fin dalla seconda metà del trecento, e poi nei
primi decenni del quattrocento, una intera scuola di
poeti catalani, valenziani e castigliani avevano procla-
mato lo studio e l'imitazione del nostro grande trium-
virato trecentista.
E lasciando stare Francesco Imperiai, che sin dalla fine
del sec. XIV studiava ed imitava Dante; verso il 1428
Andrea Fabrer , mentre rendeva « en verso catalano
con extremada exactitud » la Comedia, nelle poesie li-
riche seguiva il Petrarca; al quale rubava pensieri e
versi interi Jordi deSant Jordi, il presunto autore del
son. Pace non trovo, che messer Francesco avrebbe
semplicemente tradotto, quasi un secolo prima che fosse
stato scritto; Ausias March, il più originale, il piìi
grande de' petrarchisti spagnuoli del secolo decimo-
quinto , scrisse le Cdniicas de Amor in vita ed in
* V. G. TiCKNOR , Hiit. de la litt. espagnole ^ trad. frane. , Parigi ♦
1864, voi. I, pp. 316-18.
CLXXXIV INTRODUZIONE
morte di Teresa Bou o Momboy, che aveva veduta in
chiesa, un venerdì santo, proprio come il Petrarca, Lau-
ra; Giovanni Rocaberti nella sua Gloria de Amor, fra
non pochi ricordi danteschi e boccacceschi, istituisce un
/ paragone fra la poesia italiana e la francese , in cui
l'arte « de Florenga Franga venqe»\ e Dante, il Pe-
trarca ed il Boccaccio ricorda continuamente nel 8ort
en laJior de les Monges de VaUdon.sella , scritta nel
1458, Antonio de Vallmanya. E, contemporaneamente
al Fabrer, traduceva in prosa castigliana la Comedia
anche don Enrico di Villena; e Dante chiamava el huen
Florentin e prendeva come a maestro Fernan Perez de
Guzman. Juan de Mena, che verso il 1430, era a Roma
a compiere i suoi studi , nei suoi poemi : la Coronagion,
il Lahyrintho Las Tresgientas, il Dialogo de los Siete
liecados mortales, scritti tra il 1438 e il 56, e pe' quali
s'acquistava poi il nome di Ennio e di Omero spagnuolo,
aveva tenuto sempre dinanzi a modello la Comedia.
Finalmente , il più grande rappresentante di questa
scuola italiana, don Inico Lopez de Mendoza, marchese
di Santillana, ammirava, imitava e traduceva molti
luoghi delle tre cantiche dantesche e del Cansoniere
nella Defunssion de don Eìirique de Villena, nella Co-
medieta de Ponga, nella Coronagion de Mossen Jordi
de Sani Jordi, neW Infierno de los Enamorados ed in
altre sue opere; ed era il primo a introdurre il sonetto,
2i\V italico modo, nella letteratura spagnuola *.
1 V. Amador de LOS Rios , Op. cit., voli. V, pp. 190 sgg., VI, pp.
16-20, 39-32, 79 sgg., 489 sgg.; e cfr. Tickngr, Op. cit., pp. 319 sgg. —
Oltre la trad. del Fabrer (La Comedia de Dant Alighier de Flo-
renga traslatada de rims vulgars toscans en rims vulgars catalans ,
Barcellona, 1878) e quella di don Enrico d'Aragona, non ancora ri-
trovata, un'altra in prosa del solo primo canto , anteriore alle altre
due, è in un cod. della bibliot. dell'Escuriale (Amador de los Rios,
Op. cit., voi. cit., p. 31 n.). — Per mossen Jordi, v. anche Foscolo ,
Sag. sopra la poes. del Petr. {Opere, voi. X, p. 44). — Dei canti di
INTRODUZIONE CLXXXV
Nessun dubbio, dunque, che il Gareth, quando dalla
Spagna venne a Napoli, non conoscesse, non ammiras-
se-, non amasse ed avesse seco la Coiìiedla ed il Can-
zoniere. L'esempio e l'amicizia stretta ben presto col
Sannazaro dovettero confermarlo vieppiìi in quell'a-
more e dissuaderlo dall' adoperar la lingua spagnuola
nelle sue poesie, come avevan pur fatto altri poeti, suoi
concittadini, venuti alla corte di Alfonso il Magnani-
mo. ^ È sotto questo riguardo ch'egli dovette chiamar
poi il Sannazaro suo « maestro e duca » ; * ma è in-
discutibile che all'influenza di questi poeti suoi con-
cittadini si deve se il Gareth unisca immancabilmente
al nome del Petrarca, cosi ripetuto nel quattrocento,
quello, allora, quasi ignoto di Dante: ^ di Dante, piìi
acclamato e conosciuto — ahimé, convieu pur confes-
sarlo ! — in Ispagna, che nella propria patria, e special-
A. March v' è anche una trad. ital. (v. Ticknor, Op. cit., p. 303, n.) —
Juan de Mena è anche ricordato dal Galateo, txqW Esposi z. del Pa-
ter Noster {Opere, voi. II, p. 201): « Joan de Mena, lo Omero spa-
gnolo, la Coronazione con io suo comento, e Las Tricientasy). —
Il marchese di Santillana, nella lettera a donna Violante de Pradas
(4 mag. 1444), in cui accenna ai recenti suoi « sonetos . . . al itàlico
modo » , e nel Proemio al condestable de Portugal sobre las obras
{Bibl. de aut. espan. , Madrid, 1870, t. LXII, pp. io sgg.), ricorda,
oltre Dante, il Petrarca, il Boccaccio, e alcuni poeti francesi e pro-
venzali, anche il Guinicelli, il Cavalcanti, Cecco d'Ascoli.
' Amador de LOS Rios, Op. cit., voi. VI, pp. 481 sgg.
^ Pascha, I, 42 ( v. a p. clxxxii ). — Lo stesso anche dicono i vv.
75-76 del cant. VI di quel poemetto :
Quando di quel liquor partenopeo
Sincero mi pascea, dolce cantando.
Cfr. Meola , Op.cit., pp. in-112.
3 I «duo gran Toschi» nel son. CLXXXIX, 2; «i due soli, di cui
l'Arno si gloria, Onde Beatrice e Laura or son divine», nella canz.
XX, 22-23; «Petrarca o Dante» nel son. CXCIII, 4, e nella invoca-
zione al i della Pascha (v. a p. clxxx). Imitazioni dantesche poi nella
n. a p. CLXxix e nelle nn. alle rime.
CLXXXVI INTRODUZIONE
mente iu Napoli ; Dante , che il Sannazaro non ricordò
o imitò quasi mai , e che quindi non poteva additare al
giovine barcellonese; Dante, che, nel quattrocento, a
Napoli , fra tanti stridenti pappagalli petrarcheschi ,
solo Marino Jonata e Pietro Jacopo de Jennaro mostra-
no, nelle loro imitazioni, di aver alquanto studiato '.
Dicemmo già che il nostro, ripubblicando nel 1509
molte delle sue rime già pubblicate nel 1506, le cor-
reggesse tutte quante, da cima a fondo. Ora, poiché,
oltre che artistici e stilistici , molti di questi migliora-
manti son anche di lingua, "- si potrebbe dire che fu
proprio in que' tre anni eh' e' si perfezionasse un po' me-
i Nel Jardeno del primo (1463), stampato a Napoli, dal Preller,
nel 90; nelle Sei etate della vita huìnana del secondo, nel cod. ashb.
1039 della Laurenziiina (v. una Notizia del Renier nel Giorn. stor.
d. lett. ital., Vili, 248 sgg.)- ^ De Jennaro anche nel Canzon. (p.
126) ricorda la dantesca «Beatrice».
■2 Le varianti della prima ediz. ( 1506) dalla seconda (1509), tutte
nelle nn. alle rime. Qui, per mostrare qual progresso facesse il n.
nella conoscenza del toscano, in que' tre anni, riferisco alcuni dia-
lettalismi o latinismi della prima con le correzioni della seconda, in
parentesi: scendisti (scendesti) , empien (empiou), uenenosi (velenosi),
lassa (lascia), ieiuno (digiuno), iocondo {gioconào), volno allargar
(distendon), dovuncha (ovunque) , ad tal (acciò) , verte (muta), vence
(vince), gionto (giunto), scempia (schietta), risplendor (splendor),
corrozo (corruccio) , pr e termittendo (lasciando), j^ff^eV (soffrir) ecc.
ecc. — Ecco, poi, un saggio delle correzioni stilistiche ed artistiche
(pp. 15, 22, 30, 34, 38 della nostra ediz.):
La ragion vuol che creduto non sia.
Non voi ragion che fé data gli sia.
// vostro specchio chiatto
vi pò mostrar quel che non trova il paro.
Quel che non trova pare
il vostro specchio sol vi può mostrare.
INTRODUZIONE CLXXXVII
glio nella conoscenza della lingua toscana. In ogni modo,
quanta differenza dalla lingua adoperata da questo
spagnuolo a quella dei rimatori napoletani del quat-
trocento, tutti gentiluomini e cortigiani; a quella di
due dei migliori tra essi, il De Jeunaro e G. F. Ca-
racciolo, dotti, nobili e patrizi napoletani! * Essi, ita-
liani, ignorano del tutto l'eleganza, la grazia, l'ar-
monia della lingua del Petrarca, non ostante che ab-
biano costantemente aperto dinanzi il Cannoniere : che
stento, che durezza, quanta volgarità provinciale nel
loro linguaggio ; e quale dolcezza musicale, quale spez-
zatura, che facilità e leggiadria nei versi del nostro!
È vero che anche lo stile del Chariteo fu detto « irto
di latinismi e non scevro di improprietà di linguag-
Ove risplende un lucilo terreno
et l' aere è più sereno.
Ov'altro sol si vede et altra luna,
né mai l'aere imbruna.
Allora il crederò, qtiando pur senta
ch'Amor possedè il cor che mi tormenta.
Allora il crederò, quando veda io
ch'Amor tenga quel cor, che tene il mio.
Amor se chiama Morte veramente.
Morte si chiama Amor veracemente.
Ad tal che al inondo non trovassi il paro.
Acciò che a te non fusse altro simile.
1 II primo adopera nel Canzoniere i napoletanismi: lasco (lento),
ahriisciare, tresze, cierto, isso, nesciuno, orrebele; il secondo, nelle
Rime: aira (aria), riscignol, Ittica (tarda), anda, ponte (punte),
centomilia, in fase (infuse), spiasse (domandasse), sonna (sogna),
versaglio ecc. — Del Caracciolo anche il Meola (p. 113): « Spesso to.
glie in prestanza dal volgar idioma di Napoli qualche voce e qualche
modo e qualche rima ancora ».
CLXXXVIII INTRODUZIONE
gio » ; ^ ma questi difetti non sou comuni a tutte le poe-
sie. Si tratta dunque di alcune stanze della canz. VI e
delle canzoni religiose, e di qualche terzina dei poemetti
— VEndimione, ch'è la più bella opera del nostro, riman
quasi tutto incolume, — che son veramante infette dei
più crudi latinismi, repugnanti al genio del toscano ^ Ma
questo è davvero un gran difetto in uno scrittore vis-
suto nel secolo del rinascimento e nella Napoli di Lo-
renzo Valla, di Antonio Beccadelli , di Gioviano Fon-
tano e di Jacobo Sannazaro; quando, anche per la poe-
sia volgare, principal canone era l'imitazione dei mo-
delli latini ?
Se non che a me pare , ed è parso così anche a qual-
ch' altro, che questo soverchio latineggiamento del to-
scano sia stato fatto di proposito dagli scrittori della
corte aragonese ; e che non si possa quindi parlare di
difetto alcuno. Essi volevano sottrarsi al giogo dei let-
terati fiorentini, al quale dovevano umilmente sotto-
mettersi una volta che avesser riconosciuto il toscano
come lingua letteraria. ^e\V Arcadia, secondo l'edizione
del 1504, nei canzonieri del nostro e di G. F. Carac-
ciolo, nei prosatori dotti, apparisce quasi formata una
lingua, che, essendo pur in fondo toscana, ha una
tinta, un'armonia, un sapore fortemente classico, erudi-
to , derivatole da Virgilio e da Cicerone.
« Improprietà di linguaggio » ^ non ne risaltaron mol-
1 D'Ancona, Secent, p. 185.
2 Ecco'i principali latinismi che si son fatti notare di più in tutte le
rime: amisse, insonti, invia, devia, inluando , rime (fessure), verte,
fave, pavé, assentator, tute, vecordia, flavo, rutilare, inscitia, sepi-
ìnento , pervio, rubo, labe, soro, trabea, lugendo, fahelle, abéne, cani
(capelli bianchi), obnubilare , papille , efflagran , perfuse, impensa
ecc. ecc. Moltissimi altri nelle nn. alle rime.
3 Si notino, per esempio, i vv. 256 sgg. della canz. VI :
Poi che '1 misero Hvdronto
INTRODUZIONE CLXXXIX
te ad Anton Maria Salvini , che postillava pazientemente
le rime del Chariteo; nelle quali lo stesso Salvini non
potè notare che tre o quattro spagnolismi , ed uno —
e forse due, aggiungerò io, ma non più — napoleta-
nismi *.
Dall' istesse fonti a cui aveva attinto la lingua to-
scana, derivò quasi tutte le forme metriche che adoperò
nelle rime. Infatti tutti i sonetti e le canzoni, una ballata,
i madrigali, le sestine riproducono, quasi senza nessuna
innovazione, i tipi metrici del Cannoniere; ^ come la
da r impia gente fia direpto e preso ,
et po[xilato inerme e d'improvviso ,
questo interrito . . . ecc.
Pe' quali il Meola (p, 114): «Tesse una stanza di nobili latinismi,
ma troppi». E poco prima (pp. 112-113): «Se non che, non si può
tacere, che il Canteo in ciò eccedesse di molto, portando, oltre le
frasi, de' vocaboli ancora che poi non sono stati ricevuti».
* Notò più volte «sperar» (aspettar), «coraggio» (cuore), « ag-
grave» (entri in collera) dalle voci spagnuole esperar, coragon , a-
graviarse. Ad essi bisogna aggiungere spanto ' maraviglia ' dallo sp.
espanto, adoperato dal n. solo nelle poesie giovanili, e comune an-
che al Leostello (p. 186 ecc.) e al Notar Giacomo (p. 29.3). L'unico
napoletanismo osservato nelle rime del n., lo ricordò nelle Annotazioni
alla Bella mano (v. la n. 4 a p. xcv), p. 2S0: « Nanzi per innanzi han
detto il Cariteo Poeta Napolitano amico del Sannazzaro, e parmi anco
il Sannazzaro stesso. Ma non è da usare: avendo più aria del dialetto
Napoletano, che del Toscano». — Il n, scrive sempre , non so perché,
seperato per ' separato '.
2 I tipi metrici delle quartine (ABBA o ABAB) e delle terzine (più
comuni : CDC . DCD , CDE . CDE , ODE . DCE ; meno comuni : CDE .
ECD , CDC . CDC , CDE . EDC , CDD ..DCC , CDE . CED) dei sonetti del
n. corrispondono a quelli adoperati dal Petrarca; come ai tipi metrici
delle canzoni di quest'ultimo, meno qualche lieve divergenza, quelli
delle diciannove canzoni à^ìV Endimione: I (I, x) , II (I, xni), HI (II,
1), IV e IX (II, hi), V (I, v), VI (I, VI), VII (III, n), VIII (I, xvi) ,
X (HI , i) , XI (III , v) , XII (II , vi) , XIII e XVII (III , i v ) XI V (I , x) ,
XV (I, XI), XVIII (I, III), XIX (I, vi;, XX (II, vi). E cosi la II e la
VI (II, vi ; III, in) (ielle canzoni religiose; ma le altre quattro (ABC
CXC INTRODUZIONE
terza rima, adoperata nei cantici e nei poemetti, le
terzine de' Trionfi e della Comedia.
Eccezioni ve ne sono; ma son ben poche e di assai
poca importanza. Mi sembra, però, alquanto notevole la
forma metrica della canz. XI, la cui stanza è formata
di quindici versi tutti endecasillabi , eccetto il setti-
mo, l'ottavo e il dodicesimo, settenari, e i cui due
ultimi versi :
pianga ciascun di ciò che gli arde il core,
che piangendo releva ogni dolore,
vengon sempre ripetuti, senza nessun cangiamento, come
ritornello, in fine di ognuna delle sette stanze; e, al-
quanto modificati , in fine del commiato \ E dovrei
pure far notare le forme metriche di quattro compo-
nimenti, che io, seguendo l'ultimo editore delle migliori
cose del Chariteo , ^ ho intitolate ballate (II- V) ; e che
BACcDEDFeF ; ABCBACCDdEEfGfG ; ABCBACCDdEFFGeG ; ABC
BACCDdEffGeG) e la XVI deW Endimione (ABCABCcDEEDFGfG)
non hanno rispondenza fra le petrarchesche. Quest'ultima è molto si-
mile alla XIV del Sannazaro. — La ball. I e i madr. I-III del n. ricopiano
la forma metrica della ball, vi e dei madr. ii e m del Petrarca. Di
sette sestine, solo la V è doppia, come l'unica (II, i) delle nove petrar-
chesche.
1 Anche nella canz. di J. Sanguinacci: Deh mieta stile, presso F.
Baratella , Compendio dell" arte ritmica (in Da Tempo, Delle rime
volg., Bologna 1869, pp. 194-197), in fine di ogni stanza si ripete
sempre questo verso :
Che per vecchiezza morte tutto passa ;
e leggermente modificato in fine del commiato. Ma il n. la conosce-
va? Sulle rime del Sanguinacci, v. Giorn. stor. d. lett. ital, VILI, pp.
496 sgg. e IX, 211 sgg.
■2 Ecco gli schemi metrici di questi componimenti : ABcACBDEf
DFEGHHG ; aBCBaCJdEFeFgHHIGI ; ABBAGDdCEeFGGF ; ABCBAG
CDeDFfEGEGgHH.
INTRODUZIONE CXCI
meglio si direbbero stanze di canzone : forma metrica
particolare che, con grande varietà di l'orme, adope-
rarono Dante, Guido Cavalcanti ed altri poeti dello
stil nuovo; e che, nei manoscritti e nelle vecchie stam-
pe , si suol chiamar anche canzone e qualche volta bal-
lata e madrigale \
E cosi, adoperando la terza rima nella sua satira in-
titolata liesjìosta contro li malivoli, e' fece, a me pare ,
cosa del tutto nuova: che il primo esempio di una serie
di terzine di argomento satirico , nella letteratura ita-
liana, è appunto questo del nostro. Esso infatti precede
le satire di Antonio Vinciguerra, pubblicatesi a Vene-
zia nel 1495 ^ — il componimento del Chariteo fu cer-
tamente scritto prima di quell'anno ^ — e quelle dell'A-
riosto, composte tra il 1517 e il 31 : nelle quali, come è
stato ripetuto finora, era la prima volta adoperato, per
metro satirico, la terza rima.
Nelle poesie giovanili, che si trovan solo nell'edizione
del 1506, e che fiiron poi tutte rifiutate dal Gareth,
quando, piuttosto che poeta popolareggiante volle essere
poeta d'arte, si adoperano naturalmente due delle forme
metriche più comuni alla poesia popolare: la serie inde-
terminata di endecasillabi incatenati e lo strambotto.
L'endecasillabo incatenato, con rima al mezzo
con rima ripercossa, ^ che il nostro adopera nelle sei
canzoni giovanili, una volta in un componimento di sei
stanze, ognuna delle quali è formata da sette di questi
endecasillabi preceduti da un settenario; ed altre cin-
1 V. a pp. 114-115 del Canzoniere di Dante (Firenze, Barbèra,
1873); a pp. 373-74, 375-76 delle Rime del Cavalcanti (ediz. Er-
cole, Livorno, 1883); a p. 247 del voi. II della Raccolta di rime
ant. tose. (Palermo, 1S17). Cfr. anche Casini, Sulle forme metr.
ital., Firenze, 1884, p. 15.
2 Quadrio, Op. cit., voi. Il, 543.
3 V. a n. preliminare alla Resposta nella nostra ediz., p. 335.
♦ MiNTURNO, L'arte, poetica, Venezia, 1564, pp, 221-22.
CXCII INTRODUZIONE
que volte in una serie più o meno lunga degli stessi
con un solo settenario in principio; non è solo il metro
drammatico delle f irse e di altri componimenti dram-
matici napoletani del quattro e cinquecento. Fu anche
metro lirico: che lirici furono i famosi gliomari , '
liriche alcune egloghe del Sannazaro e di Pietro Ja-
copo de Jeunaro ^ ed altre poesie de' quattrocentisti
napoletani; nelle quali l'endecasillabo incatenato, mi-
sto a terzine o ad altro metro , fu adoperato lirica-
mente. Ma è noto eh' ancor prima di loro, come metro
lirico lo aveva già usato il Petrarca: del quale chi
non ricorda, oltre la frottola Di rider ìio gran vo-
glia, attribuita a lui^, quella nebbiosa canzone 3Ial
non vo' più cantar , in istanze di quindici versi , tutti
endecasillabi fuori del decimo e quattordicesimo, sette-
nari, tutti quanti incatenati da rime interne ed ester-
ne? Dal quale esempio e da un altro molto simile di
un petrarchista del principio del quattrocento, non igno-
to ai letterati napoletani della corte aragonese, di Giu-
sto de' Conti \ — il quale in un componimento non meno
oscuro del petrarchesco, da cui trae origine, per ben
* F. ToRRACA, Li Gliommeri di J. Sannazaro , in Giorn. star. d.
le», ital, IV, pp. 209 sgg-.
2 Arcadia, ediz. Scherillo, pp. 23 sgg., sgg. , 344-346: e F 7>z«rod.
pp. CCXVIII-XXII.
3 A pp. 362 sgg. delle Rime, Padova, Cornino, 1722.
* Infatti P. J. DE Jennaeo, nel cit. poema Belle sei etate della vita
hum. , lo ricorda cosi :
De Valmontone ancor mira quel Justo
con tanti dulci effecti in sua eloquencia ,
che muove l'aspro cuor non che '1 venusto.
Ma l'allusione sfuggi al Renier, che illustrò questi vv. ( v. la n. 1
a p. CLXXxvi). Anche « Justo da Valmontone » io cliiaraano Benedetto
DA Cesena {De honore miilierum, IV, 11) ed il Calmeta {Vita di Ser.
Aquil., nelle cit. CoUettanee).
INTRODUZIONE CXCIII
due volte, ad alcune terzine aveva fatto seguire una
serie a bastanza lunga di endecasillabi e di settenari con
rime interne ed esterne;^ — i poeti napoletani, con a
capo il Sannazaro, derivarono l'uso dell'endecasillabo
incatenato, come metro lirico e come drammatico. Fu
così, dunque, che come metro lirico, col Sannazzaro i-
stesso, col De Jennaro , con Francesco Galeota, ^ con
Kustico de'Perleoni, ^ l'adoperò anche il nostro.
La forma metrica degli strambotti solo nei primi sei
si presenta identica alla forma che questo componi-
mento ebbe originariamente e piìi comunemente presso
il popolo: l'ottava siciliana, formata, come si sa, da otto
'* Si leggono a p. loi e sgg. della Bella mano, dopo alcune terzine :
Ma chi ne incolpo — in tanta mia mina?
Sentenzia divina — e mia sciocchezza;
e '1 volto e la durezza — di ch'io adoro
Né quel , né questo — ond' io mi lagno ognora
in guisa che mi accora, — ed è ragione
savrebbe la cagione — al duo! eh' io provo.
Ah , eh' un novo Sinone ! — Or basta ornai , ^
Amor, che assai tai guai — per noi son pianti ,
e gli occhi santi — donde ancor mi struggi.
Ed altri, poco dopo, sin quasi alla fine del componimento, che si
chiude con altre terzine.
' Nella Froctola a lo Illustrissimo S. don Frederico in glio?naro,
ricordata dal Napoli Signorelli ( Vicende della colt. , IV , p. 549) ,
e di cui io posseggo una copia (v. la n. 3 a p. e) :
Magnanimo Frederico ,
per novellar l'antico — mio servire,
ho preso alquanto ardire — del bascio ingegno,
levarlo in alto segno — non usato :
però ch'ardir m'hai dato — ch'io te scriva ecc.
3 Al f. Ixxiii del Perleonio (v. la n. 3 a p. e), in mezzo a terzine :
Se mai per fede o gran mansuetudine
1' alta beatitudine — se acquista ecc.
CXCIV INTUODUZIONE
versi endecasillabi con due sole rime alternate; ^ metro
che doveva esser molto in voga quando il Chariteo co-
minciò a rimare ( 1480), essendo quasi l'unica forma
che lo strambotto assuma nelle mani dei rimatori na-
poletani contemporanei "^ Negli altri ventisei strambotti
egli segue il tipo metrico dell'ottava toscana o rispetto,
di tre rime, cioè due alternate nei sei primi versi, l'al-
tra a bocca baciata nei due ultimi. Tanto è vero quello
che asserimmo più avanti: che il nostro, movendo dal-
l'imitazione dell'arte popolare, s' accostò prima, e per
poco tempo, alla scuola tiorentiua de' cortigiani di Lo-
renzo de' Medici, che alla lor volta a quell'arte popolare
s'eran sovente ispirati; poi si détte tutto a studiare e
a riprodurre l'arte, la grande arte del Petrarca e di
Dante.
Vili.
E non solo l'arte di questi due grandi, sì bene, come
abbiam veduto, quella anche dei migliori poeti latini. La
lingua de' quali gli era pur familiarissima; — in essa,
come vedremo, scrisse anche un saporito epigramma
catulliano al Sannazaro ed una epistola in prosa a E-
gidio da Viterbo; — ma egli non si sentiva nato per
poetare in latino. Al Sannazaro confessava con un certo
rammarico che
... il fato l' aveva in tutto privo
del grandiloquo stilo: . . . quel più bello,
antiquo , alto idioma I 3
' V. C. NiGRA, La poesia popolare italiana, iauanzi ti Canti po-
pol. del Piem. (Torino, 1888), p. xi sgg. — Lo str. II , come spesso
lo strambotto popolare, ha le due parole -rime con omofonia della
sillaba atona {-anta -ento).
2 V. Casini, nella Riv. crit. d. leti, ital., Ili, col io8, n. 2.
3 Canz. X, 97-99.
INTRODUZIONE CXCV
Pur tuttavia egli si credeva a bastanza fortunato di
poter gustare, nell'originale, le bellezze del «gran Ver-
gilio », del suo prediletto Properzio, di Orazio « arguto,
e grave » ; * e di poterle trasfondere nelle sue poesie,
qualche volta con le loro istesse parole. Egli conosceva
anche il greco , e forse ebbe conoscenza diretta di « quel
sempre più fiorente Omero » , — com'egli lo chiamò con
frase lucreziana;^ — forse del divino Platone, di Pin-
daro e di Callimaco: che di questi ultimi due fa un af-
fettuoso ricordo , come di vecchi amici , in una delle più
classiche sue canzoni ^
' Canz. XX, 12-22:
Che, se quel sempre più fiorente Omero
e '1 gran Vergilio, ne i parnasii gioghi,
ottenner da le Muse i primi luoghi ;
d' alcun altri ancor vive il nome intero.
Io veggio pur graditi in seggio altero
e Pindaro et Orazio, arguti e gravi;
veggio gli alti e soavi
Callimaco e Properzio, or più fulgenti
per lingue alte, eloquenti,
volar con pregio eccelso e gloria grande:
che i rai non in un solo Apollo spande.
Cfr. Orazio {Od. IV, ix, 5-12).
2 De rer. nat. 1, 124: « . . . semper florentis Homeri ».
3 V. i vv. cui qui si accenna, nella n. qui sopra — Un episodio del-
l' Iliade imitato dal n. nella Metham. (v. a p. clxvi). Nella epistola
ad Egidio da Viterbo (a p. 463 della nostra ediz.): « Mi Ito Hesiodum
et Theocriti Eglogas. Homerum, quia ante discessum meum conte-
gendum librario dedi, in praesentia mittere non possum ». — Per Pla-
tone V. la n. a p. cxx ed al son. II ecc. — Che conoscesse il greco , si
rileva anche dal Galateo, che, nella cit. Espos. del Pat. Nost. (Opere,
voi. IV, p. 8), dopo aver ricordati molt' altri scrittori dotti nel greco,
esce a dire: « et per passare alli nostri, li dui Attaldi, el mio Sana-
zaro elegantissimo , et candido in tutte le cose sue , precipue nelle Let-
tere Grece et Latine, il bon Carbone, Chrisostomo, Pardo, Charileo ,
Cotta, Puzio, Summonzio, et lo illustre Aquevivo».
CXCVI INTRODUZIONE
Ch'egli poi fosse fornito di un' erudizione non co-
mune, non è da metterlo in dubbio: che, ove le rime
non ce '1 dicessero in ogni lor verso, ce lo afferme-
rebbero le testimonianze dei contemporanei. E, senza
altro, questa sola del Galateo. Il quale, nel De sitii
Japygiae, ricordando gli amici eruditi, a cui aveva invia-
ta una copia di un'iscrizione eh' egli credeva messapica,
scolpita sur una lapide trovata ne' sepolcreti di Vasta,
perché essi ne dessero il loro parere; nomina il nostro
in quarto posto, cioè appena dopo il Fontano, Ermo-
lao Barbaro e il Sannazaro : « Harum literarum exem-
plum. Fontano, Hermolao, Actio tuo, — cioè di Giovan
Battista Spinelli , cui era dedicato quel libro — immo
et meo; Chariteo, et Summontio misi, et nounullis a-
liis: omnes mecum sensere has esse Mesapias literas »^
Altra prova di questa sua non comune erudizione è
il vederlo ben presto accolto fra i discepoli, fra i com-
pagni del Fontano. Se verso il 1482 lo troviamo già
stretto in intime relazioni col Sannazaro, coli' Altilio e
con altri letterati napoletani, ^ vuol dire che già fin
* Opere, voi. I , p. 78. — Fra i « doctissimi viri » napoletani, accanto
ad A. M. Acquavi va, al Sannazaro, al Pardo, a Crisostomo Colonna, al
Summonte , lo ricorda lo stesso Galateo nella Apologia al Laoniceno
{Opere, voi. II, p. 62) e nella cit. Esposiz. del Pat. Nost. (Opere, voi.
Ili, p. 201) : «Li multi leggeranno Burchello , li romanci, li sogni de li
Palatini , Bove di Antona , li Morganti , Serafino e Rustico , la Fiam-
metta ed il Filocopo, e, come dice Paolo: ad fahulas convertentur.
Altri chi sono di più alto ingenio , chi desiderano parer più belli e
dissen volti ed omini de palagio, disprezano lo greco e lo latino, e
Dante e Petrarca, Sannazaro e Cariteo , ameni dottissimi; se mette-
ranno ad solazar nel dolce romanzo». Poco avanti (p. 194) aveva detto :
«Ho avuto pratica non con omini, si non coti persone dotte, juste e
consumate {sic), come fo Matteo Aquila, Soiimena, Lanzilao, Ermolao
Barbaro , Corvino e li due Attaldi , e , per poco tempo , con Teodoro
Gaza, lo Panormita, lo Pontano, Sanazaro, Carbone, Galeazzo e Jovan
Francesco Carazolo, Cariteo, Pardo».
'^ Il son. XCI, in cui egli nomina questi suoi amici, fu scritto tra il
1482 e r84.
INTRODUZIONE CXCVII
d'allora egli doveva far parte dell'accademia. Dunque,
prima di quest'anno, il Garetli, incoronato del tradizio-
nale alloro, * aveva dovuto assumere quel nome ac-
cademico con cui è stato solamente conosciuto, per
ben quattro secoli, sino ai giorni nostri. Con questo
nome vien ricordato, la prima volta, in alcuni docu-
menti del I486, ^ e nel sonetto che gli diresse il po-
vero Giovanni Antonio de Petruciis, scritto certamente
prima del decembre di queir anno ^ E questo nome ac-
cademico, secondo me, nacque dall' arrotondimento alla
latina del cognome spagnuolo: Garethèiis modificato,
per la gran somiglianza di suono che offriva con
un derivativo di Charites, in Chariteus, dagli amici, e
probabilmente dal Fontano. I quali , nelle loro relazioni
con questo gentile e biondo barcellonese, essendo quasi
costretti continuamente ad ammirarne il gusto e l' ele-
ganza nella sua vita privata, la grazia e la leggiadria
de' suoi versi, la dolcezza della voce nel recitarli e nel
cantarli, dovettero non poche volte ricorrere col pensiero
alle tre greche divinità, di cui quel giovine appariva
un alunno tanto prediletto *.
Che neir accademia poi egli occupasse uno dei primi
posti, lo mostrano a sufficienza le stesse testimonianze
dei contemporanei. Basterà qui riferir solo alcuni brani
dei dialoghi del Poiitano, e di alcuni opuscoli di An-
tonio de' Ferrariis, alcuni endecasillabi e pochi versi
1 L'Ubaldini, nella Vita A. Colotii (Roma, 1673) : « Ritns autem iw
nomine mutando hic servabatur. Primo lauro caput cingebatur, aca-
demicorum mox suffragiis faventibus, nomen in album referebatur ,
deinde convivio exceptis Academicis carmina novum cognomentura
laudautibus, eodem salutabatur, conditione adjecta, ut lauream semper
capite retineret inter Academicas exercitationes ».
2 V. la M. 5 a pp. xx-xxi.
3 V. la n. 3 a p. xx.
* V. ciò che, dell'eleganza e del gusto del n., dice il Fontano nel
prologo dei De Splendore ( riferito a p. lii e n. 3) ; e il continuo ri-
cordar le Charites negli endecasillabi diretti al Chariteo (p. covi).
CXCVIII INTRODUZIONE
di uq' elegia del Sannazaro e di un' egloga di Giano A-
nisio.
Nel Poeta persoìiaf US , che segue il dialogo Antonius,
— il quale s'immagina avvenuto prima del 1475 '» — il
Fontano fa descrivere da un cantastorie una guerra av-
venuta in Ispagna fra Sertorio e Pompeo ; nella quale egli
dà, certamente per ischerzo, ad alcuni dei combattenti il
nome suo e quelli degli amici accademici. Infatti ci
vediamo passar dinanzi, oltre il Fontano (Pontius), l'Al-
tilio, il Fardo, il Corvino, il Marnilo; e, fra gli altri,
per ben due volte, tra il suo concittadino Fardo ed il
suo congiunto Corvino la prima, e con quest'ultimo
la seconda, comparisce anche il nostro.
Et qui
prima puer musis dedit ocia, moxque secutus
arma , tulit meritum primae legionis honorem
Pontius, a quo etiam ducta est Fontana propago.
Quem sequitur volucerque Melas, alacerque Metiscus
et Pardus gladio melior , Cliariteius liasta
insignes hederis, meritaque ad tempora fronde
et cui casta comas tegit infula, certus et arcu
et certus conto pugnax Corvinus acuto.
Quo territa retro
Pompeiana acies, poatem turbata petebat.
Urgebat fugientem basta Chariteius , ut se
proripit e specula. Simul et clamore premebat
iuncta cohors. lUi abruptis referuntur habenis.
Saevit at hic gladio incumbens Corvinus et harpe
ut quondam lupus in pecudes furit: omnis ab uno
grex fugit. lUe atrox et dente cruentai et ungui. 2
iiieìV Asinus , scritto dopo il i486, ^ il Chariteo è il
* Ai 14 di marzo dì quell'anno era morto Enrico Poderico, uno
degli interlocutori di quel dialogo (MixiEai Riccio, Biogr., p. 153).
2 Antonius (Napoli, Mattia Moravo, 1491)1 ff. miiii »'-r, mv u.
3 Vi si accenna {Asinus, Napoli, S. Mayr, 1507, f. kr) come da
poco conchiusa per opera del Pontano, la pace fra Innocenzo Vili e
Ferrante I (12 ag. i486).
INTRODUZIONE CXCIX
principale interlocutore dopo il Fontano, paziente am-
maestratore dell'allegorico asino, ingrato \ È al nostro
come a persona di buon gusto, che il povero vecchio
delirante scrive dalla sua villa d'Antignano, quella
«saporitissima» epistola che comincia,: Amabo, Cha-
ritee meus ocule; in cui lo supplica di comperare per
il suo caro Cillaro « pectinem auratum », « fulgentis-
simum stragulum delicatissimum textum, solidissimum
muscarum repagulum », «dabellum pavoninum», col
quale possa far vento alla sua delizia nelle ore calde ^
'^QW^gidius, finalmente, che par composto dopo il
1501 , ecco anche il Ohariteo che si affatica, in un lun-
go discorsone tutto pieno di teologia, a dimostrare, tra
i frizzi e le celie — che ci rivelan molta parte della
vita privata del nostro ^ — degli amici Fontano e Fardo,
che i cardini del cristianesimo, secondo la dottrina del
filosofo Ermete, siano la creazione e la redenzione *.
1 È noto che, secondo il Porzio, Coyig. de' Baroni (Firenze, San-
soni, 1885, p. 206), nell'asino fu rappresentata dal Fontano l'ingra-
titudine del duca di Calabria verso lui , suo maestro e consigliere.
2 Asinvs, f. ivi v—a Quid? — dice ivi il Chariteo all'Altilio e al Pardo,
che si maravigliano al sentir raccontar le stranezze a cui è giunto il
Fontano, per amor del suo asino: — Quid? istis Parde oculis videas ,
domum si meam ingressus fueris , bracteolas argenteas , auratas la-
mellas, flosculos etiam gemmalos auro intertextos asino parari. Usque
adeo cum sapientia simul cultus quoque accomptus. ad asinum tran-
siit. Hoc hoc illud est, quod dici solet, omnia tempus suum sortito
consequi. Malora ne aut audire aut sentire vultis? Epistolam legite ,
quam nuper suis ex hortis vester senex , quod gaudere oppido abunde
potestis , ad pueritiam iam regressum , ad me per cursorem quam
festinatissime misit ». Cfr. Tallarigo, G. Pont., P, II, p. 547 sgg.
3 V. le nn. a pp. l, lui, liv.
* JEgidins, ff. hii v. — Eccone il punto principale : « Vos igitur qui hic
adestis viri optimi sic accipite: Hermetem illum, quem vetustas ob in-
genii divinitatem agnominavit Termaximum; bis ipsis diebus , suis me
armis, suis item telis instruxisse, meque illius iurasse in verba, ita-
que Platone relieto, ex hoc die raililiam eius sequor In re quidem
Christiana duo potissimum principia esse consideranda, et mundi ip-
co INTRODUZIONE
E neWArcadia^ in cui il Sannazaro sotto la veste dei
pastori volle certamente rappresentare gli amici pon-
taniani o co' propri nomi , o con quelli assunti nell' ac-
cademia con altri pastorali, il Gareth apparisce una
volta in principio , nella cosi detta seconda prosa , col
nome accademico , come « bifolco venuto da la frutti-
fero Hispania » , ed allegorico intagliatore di « una te-
sta de ariete con le corna maestrevolmente lavorata »
in cima di «un bastone di nodoroso mirto, le cui e-
stremità son tutte ornate de forbito piombo » , — al-
ludendo così alla squisita arte del nostro nel tornir le
sue canzoni amorose , alle quali mi par quasi certo che
si accenni col «mirto», sacro a Venere; — e poi, in
fine, ma col nome della sua « patria prima »:« Bar-
cinio ». E, questa seconda volta, dopo aver « per buo-
no spazio assai dolcemente sonata ... la sua sampo-
gna » , insieme a « Summonzio » , come « pastori fra
le nostre — cioè napoletane — selve notissimi » , deplo-
rano, cantando l'ultima egloga, «i casi del misero
Meliseo » : il vecchio Pontanu '. E, se vogliam credere
all'ignoto postillator contemporaneo di un esemplare
dell' Arcadia summontiana, anche sotto « l'Ophelia che
sona la samponia», della quarta prosa, si nasconde-
rebbe « il Cariteo .... il quale fue musico gentilissi-
mo » ; mentre l' Ophelia bifolco, dell' egloga nona, rap-
sins, rerumque quae eo continentur, hominisque praecipue creationem,
quod priraura qiiidem principiura est; et generis ipsius humani, post-
quam in immensum crevit, labique in ruiiiam improbitate ac libidine
coepit sua, salutem atque ab interitu ilio miserabili receptionem, quod
secundura quidem principiura iure appellandum censeo ».
* Arcadia, ediz. Scherillo, pp. 22, 290 sgg. — Per le parole riferite
del primo brano, il Sansovino {neW Annot. sopra l'Are, nelle Opere
volg. di J. S., Padova, Cornino, 1723, p. 196) trasforma il Chariteo
in «un'orefice di molta eccellenza»; il Ciavarelli {Op. cit, p. 17)
in un intagliatore in legno. Cfr. il Giorn. stor. d. l. ital. XI, pp. 228-29.
INTRODUZIONE CCI
presenta poi il Sannazaro *. — Nella già ricordata elegia,
In malcdlcos detractores., scritta dal Sannazaro in difesa
degli amici accademici, e nella quale i nominati son
tutti naturalmente pontaniani, il nostro comparisce fra
i primi , com' uno dei principali e più saldi sostegni
dell' accademia :
Quin et rite suos genio Chariteus honores
praebeat , et festas concinat ante dapes '.
E così in alcuni endecasillabi, molto simili, per 1' ar-
gomento, a questa elegia, intitolati In maledicum,
che vien chiamato ivi Acontius:
paternos Pudericus ad penates.
Quin doctissimus unus Italorum
qui me plus oculis suis amat , nec
absentem patitur iacere , cultis
Pontanup meus ornat umbilicis.
Tum Sumnaontius inter eruditos
Fontani legit et coiit iibellos.
Fontano quoque vel iubente seras
decantat Chariteus ad lucernas.
Illos est puto non tacebit unquam
sacris Antiniana harundinetis 3.
Ed anche fra i pontaniani, e tra i primi , lo ricorda
il Galateo xìqW Argonautica o De hyerosoUmitana pere-
grinatione, in cui questo gioviale scrittore fantastica
non so che matta spedizione di tutti gli accademici na-
poletani in Oriente. Di essa: «tu, — die' egli rivolgen-
dosi ad Andrea Matteo Acquaviva, cui aveva dedicata
quella sua operetta, — dux noster, eris Jason, Accius
— il Sannazaro — erit nobis Orpheus; Galeatius — Ga-
leazzo Caracciolo, il valoroso di Otranto, a cui il no-
* V. lo ScHERiLLo, nell'introd. aiiV Arcadia, p. ccvii.
' Elegiar. I, xi, 37-38.
3 Pubbl. nello Spicil. romanum, voi. Vili, 511 (v. la n. 4 a p. xlix).
XXVI
INTRODDZIONR CCII
stro dedicò la sua canz. IX , e che pare dovesse far par-
te anche lui ^ dell'accademia; — qui [Virgilio, ^n. vi,
880-81]:
seu cum pedes iret in hostem
seu spumantis equi foderet calcivibus armos,
semper strenuus ac ferox, Castoris et Pollucis aget Phi-
ladelphiam. . . . Ego, si vos conceditis, Melampus ve-
ster ero: Chariteus et Summontius Argonautographi :
Josias, Hannibal, Bernardinus, Mauritius tuus et Ser-
gius; ceterique comites heroes, hac post sua sortien-
tur nomina »'. E nell'epistola che il Galateo scrisse,
dopo il 1498, a Crisostomo Colonna per la morte del-
l'unico figlio dei Fontano, il Gareth vien ricordato,
vicino al Pardo e a Giovanni Cotta, fra i più cari « a-
lumni » del Fontano, i quali, figli spirituali di lui,—
essi « non vili semine genuerit, mentis tamen et doc-
trinae illis foecundis seminibus et fovit et aluit » —
potranno ben consolare il padre per la morte del figlio
corporale ^
* Di lui a p. cxxxi e n. 6, e nelle nn. alla canz. IX. — Questo Ga-
leazzo era fratello consanguineo di Giovan Francesco , il poeta degli
Amori. Ora come va che il Chariteo , amicissimo di Galeazzo , non
ricorda mai •! fratello, uno dei migliori lirici napoletani del quattro-
cento e tanto lodato dal Sannazaro ? Poiché i due fratelli furono in
continua lite per Teredità paterna ( Minieri Riccio, Biogr., p. 310
sgg.), mi par naturale che il n. , intimo di Galeazzo, non ricordi mai
Giovan Francesco; e che quindi il Sannazaro, amico di quest'ulti-
mo, lanci i suoi frizzi {Epigram. II , xl) contro Galeazzo.
2 Opere, voi. II, p. 173.
3 De tnorte Ludi Fontani [Opere, voi. II, p. 146): «Qui euntibus
ordine fatis illum sequentur, illustris Acquevivus, et Comes Potentia-
nus, Sincerus, Garbo, Milanus , Altilius, Corvinus , Pardus, Chari-
teus, Cotta, Puccius, Augustinus, Gravinas et Summontius candidis-
simus librorum Fontani censor et cultor, et tu ipse, Chrysostome ».
Lucio Francesco Fontano mori il 24. agosto 1498 (Tallarigo, Giov.
Pont., P. I, p. 100); ma questa epist. fu scritta dal Galateo dopo il
1500 (v. CoLANGELO, Vita di G. Vont., Napoli, 1826, p. 119).
INTRODUZIONE CCIII
E, come accademico, è pure ricordato da Giano A-
nisio in un'egloga, che dal Fontano s'intitola Melisaeus.
Ivi il Chariteo ed il Summonte , come capi dell' accade-
mia , — forse dopo la morte del Fontano e la lontananza
del Sannazaro, — sotto i portici pontaniani levano al
cielo le poesie di Giovanni Cotta, come abbiam visto,
anche lui accademico. Ed appunto di costui parla Ae-
gilus, quando dice:
Audivi hunc equidem mirum canere hunc beri ad Arcum
tollebant caelo Summontius et Chariteus *.
In questa accademia il Chariteo, e con lui Giovan
Francesco Caracciolo , e , in parte , ma più efficacemen-
te, il Sannazaro rappresentavano la letteratura e l'arte
in volgare. « Fioriva in Napoli , — dice un contempora-
neo — un' academia de litterati , la qual sotto l' auto-
rità e reverentia del Fontano, nel portico Antoniano,
a lochi e tempi se congregava : Jacobo Sannazaro , Al-
tilio, Musephilo, Chariteo et altri assai eruditi, e di
perspicace ingegno. Ma quelli, che, oltra il latino, nel
vulgare ottenessero il principato, erano il Sannazaro,
Francesco Caracciolo e Chariteo » '\ I pontaniani non e-
rano, come alcuni de' primi umanisti, così fanatici am-
miratori della bellezza antica , da disprezzare l' arte
che s'esprimeva in lingua volgare, specialmente quando
questa, come quella del nostro, impregnata tutta del
sentimento antico, si servisse di una forma a bastanza
classica, latineggiante. A questi eruditi, a questi filo-
sofi, a questi grammatici il Chariteo dovette leggere
non poche delle sue poesie. Nella villa del Fontano,
* G. Anisio , Varia poemata e? safy rag (Napoli, Suitzbach, 1531),
p. 9. — Giovanni Cotta (14S1-1509) era a Napoli nel 1498 (v. la n, pre-
cedente).
2 Calmeta, Vita di Serafino AquiL ( v. la n. i a p. xvi).
CCIV INTRODUZIONE
ad Antignano,* — dove anche solevano, naturalmente
nella primavera e nell'estate, riunirsi, — il nostro pare
che leggesse la più bella delle sue canzoni politiche »
r Aragonia: perché ivi è chiaramente invocata la « Musa
Antiniana » ^ E così son anche entusiasticamente ri-
cordate , in altre poesie di lui, le « selve Antiniane » ^,
il « bosco Antiniauo » ^, e le « Fontane schiere » ^
Le relazioni di amicizia del Grareth col « gran Fon-
tano », com' egli lo chiamò sempre, e vivo e morto ® ,
erano già dovute cominciar da qualche tempo nel i486,
quando vediamo già uniti Gioviano , ministro di stato,
ed il nostro, percettore dei dritti del suggello reale ,
nella segreteria di Ferrante I. ' La venerazione, che il
Gareth ebbe per questo buon vecchio, cede un po' solo
a quella, del pari grande, che n'ebbe il Sannazaro. Se
del Fontano non ignoriamo , come di tanti altri grandi,
il giorno di nascita, lo dobbiamo quasi tutto ad un af-
fettuoso sonetto del Chariteo, che volle tibuUianamente
cantare quel natale :
, salvo sii tu, sereno, adorno
* MiNiERi Riccio, Cenno star, della accad. pontan., Napoli, 1876,
pp. i6-i8.
s Canz. VI, lo-ii :
Tu, musa Antiniana,
comincia un suon conforme alla materia.
3 Canz. XVI, 42-43 :
Le selve Antiniane in varii cauti
risonaran ...
« Son. xeni, 5; Pascha I, 52.
5 Metham. IV, 205.
6 Son. C, 7; Pascha I, 54.
' V. a p. XXII e n. 2.
INTRODUZIONE
CCV
di rose e fior, ch'ai lume de' { ;ti
apristi gli anni, al tuo settimQ|iorno 1
Se all'accusa d'ingratitudine ver» gli Aragonesi, lan-
ciata al Fontano dal Guicciardini molti oggi non pre-
stano ancor fede, è per le paro! con cui il nostro
ricordò « il fedele ministro » di E frante I , il « santo
e puro e nitido Fontano » ". Di « questo altro Vergi-
lio » , di cui tutt' i begl' ingegni ci fiorirono in Napoli
nella seconda metà del secolo X\ , si può dire che fu-
rono discepoli « imitatori » ^ il nostro enumera ,
poeticamente, in due sue canzonile principali opere ■*,
come già aveva fatto il Sannazar( in una sua celebre
eltìgia % ed altri dopo di lui ".
Quale stima facesse il Fontano dd poeta amante della
Luna , quanta bella impressione aresse ricevuta dalla
lettura dell' Endimione, mostrano alcuni voluttuosi suoi
endecasillabi del primo libro Baianm, che sono un inno
alla classica facilità, alla leggiadra delle rime amo-
rose del Gareth. Al Fontano, ispiraiiesi, sulle rive baia-
ne, alla vita e alla bellezza antica, dovettero spesso ritor-
* Son. e, 9-II. — V. Tafori, Op. eie, p. xxin. ; Tallarigo, Gzor.
Pont., P. I, p. 14 e n.; Minieri Riccio, G. G. Fontano (fascicol. a parte
delle Biogr.), p. 20, «. i.
^ Son. XC, 12-14. — V. Minieri Riccio, Op. cit. , pp. 17-18.
' Così, di lui, il n. (canz. VI, 196-498):
Né mancaranno ingegni ,
imitator di questo altro Vergilio,
nel regno che t'aspetta sempre e brama.
* Cioè l'Urania e il De Principe nella canz. VI, 190-195; il De
amore coniugali, nuovamente 1' Urania, il Meteoron'.ìn liber, gV Ey-
ìnni nella canz. X, 31-42.
5 Eleg, I, IX, intitolata: De stiidiis suis et libris J. Pontoni.
^ Per esempio Ferrante Carafa, nel poemetto a Maria d' Aragona
{Delle stanze di div. aw^, Venezia, 1581 , P. II, pp. 60-65).
COVI INTRODUZIONE
nare a mente i vesi in cui dal nostro vien rappresen-
tata la Luna ignua, che scende nelle acque del « dolce
Bagnuolo » * :
Ad Charìteum,
Sunt grata in tenebria faces ; in aestu
afflatus lewr recentis aurae ;
defessis soor ; instrepentis undae
languenti snitus; silique pressis
stillans e ptera fluente lympha ;
est grata e senibus quies , merumque.
Nec aegro iveni sopor, nec aura,
nec rivus sfepitans, quies, merumve
aufert tristiiam, aut levat dolores ;
sed risus teerae procax puellae,
petisque ex Dculis remissa fiamma ,
afflai quae eneremque, gratiamque ;
sed dulces ecreant leporis aurae,
et molles' cioreae, et modi canori.
Felix Endynion suopte somno !
Non curae dgiles amoris illum
torquent, S)ilicitudo nec diurna,
non suspirii, garrulive questus,
quem coelo dea dum petit relieto,
dum Latmon petit et suos amores,
titillai placido loro iacenlem.
Sopito illecebras facit, iocosque ;
sopiti immoritur labris , genisque ,
pareli sed placidae tamen quieti.
Al te balneolae tuae bearunt,
beavit Veneris sopora myrtus,
bearunt Charites deae ministrae ,
e quis, Charitee, nomen liauris.
Hae, dum balneolis frequens lavaris.
dum myrtos canis , et canis Dionen ,
et Lunae revocas per ora nomen,
illam composito loro locarunl,
et laetam gelida stetere in umbra,
effulsitque novo decore Luna ,
ac nudis iubar estuili papillls.
' Canz. XII , 39-44 (nella n. 2 a p. lxx ).
INTKODTJZIONE CCVII
Cuius roridulo e sinu beatae
spirabant rosei liquoris aurae;
cuius de teneris fluens labeliis
stillatim ambrosiae iiquebat humor.
Quo , myrtos ubi , lectuluraque et ipsum
afllavit , zephyrumque ab ore civit,
in te delicias suas refudit,
refudit Cyprium et Syrum iiquorera.
Ac tecum viridi iocosa in umbra,
tecumque Assyrio beata lecto
ludit Idaliae iocos palestrae,
et tecnna placida cubat quiete.
Felix balneolum, lavante Luna!,
felicesque, dea locante, myrti ! ,
felix lectule, lusitante diva!,
felices, Chariteo amante, Baiae!*
Ed alla donna dell'amico suo, come faceva pe' suoi
più cari , volle anche dedicare uno dei suoi epigrammi
sepolcrali :
TOMULUS LUNAE PUELLAE. IPSA LOQUITUR.
Ne me, ne rogo terra tegat: sinito aera apertura:
degravet et cineres tegula nulla meos.
In lauri hic tantum titulus sit cortice : Luna,
hinc abii ad superos : non milii terra placet.
Manibus et Lunae pateat coelum , ossaque et artus
condas sub tacito tu, Charitaee, sinu. 2
E queir istesso dolore che 1' amico aveva espresso così
bene in una delle sue canzoni ^ per la partenza della
Luna; volle anche ricordare il Fontano in quest'altro
epigramma funebre:
1 Hendecasyllaborum. seri Baiarum liber primus (a'ff- mii r-v delle
poesie varie del Fontano, Napoli, Mayr, 1503).
2 Nel libro secondo De Tumulis (al f. iiii v del voi. cit. nella n. pre-
cedente).
3 Canzz. XI e XIL
covili INTRODUZIONE
TUMULUS VOCIS AMATORIAE.
VOX IPSA ET VIATOR COLLOQUUNTUR.
— Claudite me in tumulo.— Quae nam es ?— Vox.— Cuia es? — Amantis.—
— Quid clamas ? — Heu , heu. — Die age cur geminas ? —
— Bis quouiam periit mihi Luna. — Et quae nam ea Luna est ? —
— Una quidem Phoebi est, una soror Charitum. —
— Quo nam abiit, periitque simul ? Quod utramque gravaris ?
— Utraque nam periit : illaque et iila gravat.
Quae Plioebi ad supei-os abiit ; Ciiariteia ad amnes
Hesperiae. Haec atque haec liei mihi bis periit ! —
— Utraque num est eadem? — Una est et simul utraque et ambae. —
— Una ne cum periit, num periere duae ? —
— Quin eadem Luna est, eadem simul utraque et ambae,
Unaque bis periit, utraque cum periit. —
— Cur nec amans petit et coelum, et petit aequor? It ipse
ad Styga quaesitum: perdita Stys recipit.
Placabit manes cantu , victorque redibit :
Lunaque erit terris reddita, Luna mari.
Cur tumulo cupis ipsa tegi ? — Ne sentiar. Ipsa
ne fuga ne sit coelo cognita , neve mari.
Ne se aether praedae accingat , neu pontus ad arma :
Lunaque sit pelago praeda, sit ipsa polo. —
— Ne doieas, mea vox : taceas ; tibi consule : nostro et
conde sinu. Hoc pectus urna erit, hoc tumulus ! *
Né contento di tramandare ai posteri, in modi così lu-
singliieri, i nomi poetici dell'amico e della donna sua,
Grioviano volle immortalare l'affetto che lo univa al no-
stro anche in un'altra sua opera; e nel secondo libro
De liortis Hesperidiiììi, e propriamente nel capitolo « De
limonibus et earum cui tu » , dava il nome di Chariteia
arva alla spiaggia amalfitana , nutrice di limoni , e a
questo frutto il titolo di Chariteia limon '.
• De Tumulis, lib, ii, f. ìv r-v (v. n. i , p. ccvn).
' De hortis Hesper., lib. ii, ff. cciu sgg. dell' ediz. di Aldo Manuzio
(Venezia, 1505).
INTRODUZIONE CCIX
È l'amico Pietro Summonte, che, in certe sue po-
stille a' luoghi più oscuri delle opere pontaniane, ci sco-
pre questa recondita e non poco lusinghiera allusione ,
dichiarando: «Chariteiaque arva; item Chariteia limon.
Tacite tamen, ut Chariteum amicum celebret, ad eius
nomen alludit » '.
L'amicizia col Sannazaro, un po' più affettuosa, più
intima, era di già incominciata tra il 1480 er82, del
qual tempo son tre sonetti del nostro; nel primo dei
quali , il Gareth ad Actio suo dà ancora del « voi » ,
negli altri due lo chiama semplicemente « Sincero » , e
chiede notizie dì lui « così lontano » : in alta Italia col
duca di Calabria ^.
Al Sannazaro, — non volgare onor del secol nostro,
Tra noi, come tra stelle un vivo sole, — ^ è anche diretta
tutta la canz. X, che è come un quadro della corte
letteraria di Ferrante I.
E tu, di cui l'ingegno ogni altro avanza,
che l'una e l'altra lingua hai esornata,
l'alme Muse evangeliche illustrando *.
Diceva a Jacobo il nostro, alludendo a\V Arcadia , 2à\Q
Rime, ai T)e partii Virginis. Or dal primo di questi versi
e da questi altri del suo epigramma latino al Sanna-
zaro, in cui lo chiama:
1 In fine del De Fortuna del Fontano, f. giiii r (v. la n. 2 a p.
Lvi). — Ne fu fatta un' ediz. a parte, ma da un ms. alquanto diffe-
rente: P. SuMMONTii Notae in loca difficiliora poemat. I. I. Fonta-
ni, Napoli, 1795; in cui il brano riferito è a p. 20. — Il Fontano ri-
corda ancora il n. nel De sermone, nel De splendore, n&W Erida-
nus, i cui brani v. riferiti a pp. XLVi-ix, Lii-iii, lv.
» Sonn. XXI, XCI, XCIII.
3 Canz. X, 1-2: scritta nel «decimo» anno del suo amore per la
Luna, cioè nel 1490 (v. la n. 3, p. xcviii),
* Canz. cit., 76-78.
CCX INTRODUZIONE
optiraus poeta,
ille maximus omnium poeta,
quos arguta Neapolis creavit; *
par proprio di dover ritenere che, per il Chariteo, il
Sannazaro, come poeta, fosse superiore al Fontano. E
con tutta probabilità, il platonico e petrarchista adora-
tore della Luna, il pio scrittore della Pascha e delle
canzoni religiose, per quanto ammirasse 1' arte sensuale
ed epicurea delle JBaiarum e degli Eridanorum , si sen-
tiva vieppiù attirare verso il sentimentale scrittore àe\-
y Arcadia, il rimatore petrarchista, il cristiano cantore
del De partii Virginis: in lui trovava un modello più
confacente alla sua indole, al suo ideale di uomo e di
artista. E, infatti, in tutta la sua carriera poetica, il
nostro ebbe sempre presente l' arte del Sannazaro : le
canzoni, i sonetti, il poema latino di lui sono per il Gareth
il tipo più perfetto d'un' arte superiore, che nessun con-
temporaneo avea raggiunto , che e' posponeva solo a
quella di Dante e del Petrarca, e si sforzava, per quan-
to poteva, di raggiungere ^ Oltre a ciò, s'aggiungeva.
• A pp. 462-3 della nostra ediz.
2 Infatti se da una parte l'influenza delle opere del Sannazaro sulle
rime del n. è a bastanza notevole, poca e scarsa è quella del Fon-
tano. Nella Methani. IV, 28 sgg. , il Gareth ricordò gli amori di Se-
beto per Partenope e la trasformazione di quello in fiume e personificò
in tante sirene le località napoletane, come aveva fatto il Fontano nella
Lepidina. Il son. CCIX, che dedicò alla moglie, potè anch'essere un
riflesso del De amore conjitgali. In questi vv. della Resposta contro
li malivoli (34-36) :
Non è di quei lor sogni altro rimaso
che '1 crepito, che fa il ventre indigesto :
un mal suono a l'orecchie puzza al naso;
è ripetuta una sentenza del Fanormita contro i maldicenti, ricordata dal
Fontano neW Antonhts (f. fvi'): «Hos venlris crepitibus similes dicebat
Antonius, nares tantum offendere, coetera ventum esse, si quidem ven-
tosos esse ac putidos ».
INTRODUZIONE CCXI
pare, anche un sentimento di gratitudine, da parte del
nostro, verso il Sannazaro: che era stato lui proprio i
— il suo « bel Sanuazar, maestro e duca », — che l'aveva
avviato pe' sentieri della gloria, iniziandolo all'arte della
poesia volgare ^
Il Sannazaro ricambiava il nostro di pari affetto. Lo
ricordò infatti, tra gli amici accademici, neìV Arcadia
e nelle poesie latine : - mai però così affettuosamente,
come in questi due distici di un'elegia che e' dovette
scrivere, quasi certamente, nel 1486 a Eoma, — dove
era col Fontano che trattava la pace tra Ferrante I ed
Innocenzo Vili, — e dirigerla a N'apoli a Francesco
Scala :
Nerao est, crede mihi, te fortunatior uno,
nec quoi tot dederint miraina delicias.
Tecum est dimidium noster Chariteus Arion,
qui mihi vel propria carior est anima 3.
Ai quali faceva eco il Gareth, anch' egli da Homa, ma
parecchi anni dopo, tra il 1501 e il 1503, ricordando
l'amico lontano, esule volontario in Francia, in questi
versi del son. CLXXVI:
Dove mezzo or son io, sacre Sirene,
* V. la n. a p. clxxxv.
^ V. a p. Lv e a pp. cc-cci.
3 Pubblicata nello Spicil. romanum, voi. Vili, p. 505. Ivi è intitolata
Ad Fulvium Scalam; ma il Fulvium die doveva essere nell'originale
una: F. , è certo un arbitrio del copista del cod. vatie. ; perché lo Scala,
segretario di Ferrante I, presidente della Camera della Sommaria, ecc.
erudito e bibliofilo, lodato dal Panormita, dal Pontano, dal Marullo,
dal Sannazaro, da Giuniano Maio e da altri accademici , si chiamava
Francesco (v. V. Capialbi, Memorie di R.Zeno ecc., Napoli, 1848,
pp. 19-22; e MiNiERi Riccio, Biogr. pp. 27-33). Della sua amicizia col
n. nessun' altra testimonianza, olire quella del Sannazaro, che deve
essere anteriore all' 8 di agosto 1498, quando lo Scala era già morto.
CCXII INTRODUZIONE
con voi, volesse il ciel!, vi lussi intero,
et udissi il cantar del mio Sincero ,
nel Mergellino suo dolce Ippocrene!
Pietro Summonte, l'affezionato discepolo del Fonta-
no, fu amico fraterno del Chariteo, per ventun' anni :
dal 1493 al 1514, se il nostro, come abbiam detto,
morì proprio in quest'ultimo anno \ Durante i quali vis-
sero — confessa il primo di essi , — « sì couiunctamen-
te . . . . che né scripse ipso [Chariteo] , né pensò mai da
doe parole in su, che io non ne fossi stato partecipe,
per modo che non havea cosa ad me occolta, come io
meno ad lui » ^. Alla virtù, alla dottrina, grandissime
tutt'e due nell'amico, inneggiò in due sonetti il Cha-
riteo, ^ come aveva già fatto il Sannazaro nel noto e-
pigramma De Sumniontii pietate; il Sannazaro, che forse
per ricordar appunto questa amicizia fraterna , volle u-
nire i loro nomi nell'ultima egloga dèìV Arcadia. Ed in
compagnia de' tre grandi amici il Summonte è passato
ai posteri. Quanto disinteresse in questo dotto , che de-
dicò tutta la sua vita alla gloria di un Fontano, di un
Sannazaro, di un Chariteo! Che ne sarebbe avvenuto di
quasi tutte le opere pontaniane , deW Arcadia, delle
rime del nostro, se egli, salvando gli autografi da certa
1 Erano già amici intimi nel principio del 1495, quando il n., per la
entrata di Carlo Vili, fuggendo da Napoli con Ferrante II, affidava
tutti i suoi libri e manoscritti al Summonte (v. la n.2 a p. xxvii).
2 Lett. al Colocci : v. la n. i a p. ccxni.
3 Sonn. CLXVI-VII. — Nel primo di essi diceva:
Se'n r amicizia sei vero cultore
molto più di vertù che di fortuna,
il so, che ti conosco e dentro e fuore.
Lo ricorda anche nella Methatn., nella Resposta, nella Pascha (v.
Ind. storico); e nella canz. VI, 200; ma, nel testo di questa, secondo
r ediz. del 1506, manca il suo nome: il che vuol dire che la canz. è
anteriore al 1493, quando pare che incominciasse la loro amicizia.
INTRODUZIONE CCXIII
perdita, facendo violenza alla modestia e alla timidezza
degli amici , non ce ne avesse date , con cura filiale e
fraterna, quelle nitide e corrette edizioni mayriane che
tutti sanno? Quanto al Chariteo, se noi, adesso, senza gran
fatica, abbiam potuto dare delle sue rime un'edizione
quasi come se fatta sotto gli occhi dell' istesso poeta;
se questo poeta si è potuto presentar al giudizio severo
del secol nostro, nell'ultima forma ch'egli aveva dato
alle sue immaginazioni, il merito è tutto del buono, del
fedele Summonte '.
Il Gareth ebbe anche carissimi Gabriele Altilio , Gio-
vanni Pardo e Antonio de Ferrariis. Kicordando che
l'Altilio, già prima del 1483, era «precettore de l'il-
lustrissimo signor principe de Capua », e suo segretario
neir85; * s'intende bene come, già fin d'allora, egli si
fosse legato d'amicizia col nostro: cortigiano , poeta, e
1 II Summonte (n. 1483) fu lettore nello Studio napoletano di gram-
matica, di poetica e di rettorica,ed ebbe, fra gli scolari , Dragonetto
Bonifacio (Giorn.stor. d. let. ital., X, 199), e fra gli uditori, don Fe-
derigo d'Aragona; non lasciò che epistole latine, dedicatorie alle o-
pere del Fontano , un carmen sulla disfida di Barletta , degli epi-
grammi e alcune lettere volgari , fra le quali quella più volte citata
al Colocci, sul suo Chariteo, pubblicata per intero dall'originale vati-
cano, qui appresso (Docum. XII). Mori il 14 agosto 1526. V. Talla-
RiGO , G. Pont., P. I, pp. 170 sgg.; Minieri Riccio, Biogr. pp. 418
sgg. — In un suo capitolo In obitn J. Fontani, che si trova nei mss.
del Meola (Naz. di Nap. xiii . d . 27), il Summonte avrebbe detto alu. :
Né tu, col tuo valor, et co' tuoi vanti,
o Cariteo gentil , più canterai
Endìmion ne' tuoi felici istanti.
Ma quasi tutte le poesie volgari inedite che si trovano in quel ms. , io
le credo falsificazioni del Meola. Vedine due pubblicate nel Docom. X.
■^ Per tutto ciò che riguarda questo pontaniauo e le sue relazioni
col n. , V. la cit. pubblicazione di M. Tafuri, Epital. di G. Altilio ecc.
pp. XXVII sgg. Cfr. anche Tallarigo, G. Pont., P. I, pp. 137-40.
CCXIV INTKODUZIONE
futuro primo ministro di quel principe. Unico documen-
to di quest'amicizia, per parte dell' Altilio, è quella
epistola, scritta forse da Eoma nel 1484, ' in risposta
di un'altra, con cui il Chariteo accompagnava una co-
pia dell' invettiva del Sannazaro contro i detrattori del-
l' accademia.
Giovanni Pardo, di cui, come uomo e filosofo, ci ha
lasciato un cosi bel ritratto il Fontano, nel trattato De
conviventia e nel primo libro del De sermone ^ , fu
unito al Chariteo dalla patria e dall' ufficio : perché
anch' egli spagnuolo e compagno del nostro , sin dal
i486, nella cancelleria aragonese, ove serviva come «ho-
mo docto in greco e in latino » ^ Ch' egli fosse , oltre
che uno de' più forti ingegni dell'accademia, anche buon
poeta latino, ce lo conferman questi due versi che gli
dedicava 1' amico :
Il lume di Aristotile e d'Omero
mi lodi: io dico Pardo insigne e chiaro,
per gemino idioma al mondo altero ''»,
' Ripubblicata di su V unico ms. che la contenga (cod. vat. 2847 , ff.
8v-gv) nel DocuM. XI. — Oltre questa, dell'Altilio ci resta il classico
epitalamio in 260 vv. per le nozze d'Isabella d'Aragona con Gian Ga-
leazzo Sforza, e altre sette poesie latine minori, ripubblicate tutte dal
Tafuri , Op. cit., pp. 2-67; il primo con trad. di G. B. Carminati. —
Il n. lo ricorda nelle canz. VI e VII (v. la n. 2 a p. xliv) , nel son.
XCI , nella Resposta { v. Ind. stor.); ma nella canz. X , 61-68, pare
che accenni ad un suo poema sull'impresa d'Otranto, il quale non è
giunto sino a noi.
2 Del Pardo, che premori forse al Chariteo (era ancor vivo nel 15 12),
ci restan solo alcune poesie latine , ricordate dal Caballero, Op. cit. ,
p. 43 ; e dal Minieri Riccio, Biogì\,\)p. 12-16; alle quali bisogna ag-
giungere un'altra nei Poemata di Cosimo Anisio (Napoli , SuUzbach,
1533), p. 26.
3 V. a p. xxii.
< Resp. contro li mal., 214-15. Lo ricorda anche nella canz. VI e
nella Pascila (v. Ind. stor). Nella canz. X, 46 sgg. si accenna anche
ad un suo poema sulla guerra della prima congiura dei Baroni , pro-
babilmente perduto.
INTRODUZIONE CCXV
Antonio de Ferrariis, medico, filosofo, scienziato, che
dalla natia Galatona volle chiamarsi Galateo ^ , aveva
già conosciuto ed imparato ad amare il Gareth, nel
I486: in quell'anno, infatti, l'annovera fra gli ca-
mici optimi et suavissimi .... quos omnes praeterito
anno Neapoli amplexatus sura » '. L' amicizia divenne
quasi fraterna dopo il 1490, quando il Galateo chia-
mato a Napoli, come «medico fisico del signor re»,
nella corte di Ferrante I ^ , ebbe modo di apprezzare
la dottrina ed il cuore del nostro. D'allora in poi non
e' è opera scritta dal De Ferrariis , in cui non si ri-
cordi affettuosamente il Chariteo *; il quale gli ricam-
1 Su di lui V. Casetti , Vita ed opere di A. Galateo (nel Giorn. na-
poi. di fil. e lett. I, 193 sgg.), e Minieri Riccio, Biogr. pp. 388 sgg.
^ la una sua lettera inedita, probabilmente del 1487, si trova que-
sto brano , che debbo alla cortesia del sign. E. Cannavaie: «... praeci-
pue Pudericus , Accius , Altiiius, Pardus , Chrysostomus et Chariteus
et Summontius , amici optimi et suavissimi, quales nunquam habuit
nostra Academia , quos omnes praeterito anno [i486] Neapoli ample-
xatus sum ». Era a Napoli il 26 giugno 1489, quando — dice il Leo-
STELLO , Effem.., p. 233 — «assaltato da certa febre messer Antonio
Galatheo da Lecci , medico doctissimo et subtilissimu ; illico sua I. S.
[ il duca di Calabria ] ordinò li fusse parata la camera in casa de sua
S. et governato come sua persona in omnibus et per omnia ».
3 Nelle Ced. di tesnr. dal 1491 al 93 è pagata la provvisione di due.
200 a «Messer Antonio Galatheo medico fisico del S. Re» {v. la n.
al V. 217 della Resposta contro li mal.) Era tuttora medico di corte
alla morte di Ferrante I (1494: v. Passaro, p. 340). Il Capialbi, Opu-
scoli varii (Napoli, 1489), t. Ili, p. 235: «In un conto delle spese
della casa reale del 1490, firmato, se ben mi ricordo, da Pascasio
Diaz Garlon , ... ho letto che si pagaron ducati cento a messer A. Ga-
lateo, medico regio, perché si fosse conferito in Napoli ad assistere
presso la corte ».
"* Lo nomina infatti, oltre che nella lett. cit. nella n. 2 di questa pag.,
nel capit. if del De situ Japigiae (voi. I delle Opere, ediz. cit., p. 78),
neVC Apologia al Leoniceno, nell'epistola De morte Ludi Fontani, nel
De Hyerosolimit. peregr. (voi. II, pp. 53, 62, 173), nella epistola a G.
Altilio, tre volte neWEsposis. del Pat. Nost. (voi. Ili, pp. 143, 194, 201,
IV, p. 8); nel De imttil. literarum (in Papadia, Vit. di ale. uom. ili.
salene. , Napoli, 1806, p. 23). Questi brani , eccetto l'ultimo, son rifariti
a pp. xLiv n. I , xLix, cxcv n. 3, cxcvi n. 1 , cci, ccu e n, 3.
CCXVI INTRODUZIONE
biò tanto affetto, chiamandolo, in una delle due volte
che lo ricorda, « fisico raro » ^
Felice quel, che, senza esser notorio
al volgo, stato umil non bave a sdegno !
Quest' è Ja gloria vera e'I vero regno:
viver senza timor, vivere inglorio.
Puderico gentil P
Cosi il nostro, in un sonetto, tutto massime oraziane,
a Francesco Puderico, nubile napoletano, dotto e scien-
ziato , discepolo, adoratore del Fontano ^, il cieco ed
acuto critico, a cui il Sannazaro veniva rileggendo il
suo poema latino ^ 1' « homo emunctae naris » di Ora-
zio , secondo Pietro Summonte ^ A te debbo — gli di-
ceva, orazianamente, il Chariteo — se, disprezzando il
lusso e l'ambizione,
de la benigna vena del mio ingegno ,
di fede e mente retta io sol mi glorio^.
Finalmente, in altri sonetti, ricorda come amici con
cui ebbe una certa familiarità: Girolamo Carbone, pa-
trizio napoletano , signor di Padulo , parco scrittore di
versi latini non ineleganti, a cui diresse il sonetto CLXIX,
che abbiam ricordato più innanzi ^ e che è tutto un gio-
chetto sul suo cognome * ; Pietro Jacopo de Jennaro ,
1 Resposta, 1. cit. nella n. 3 a p. ccxv; e nella Pascila, VI, 173.
2 Son. CCX , 5-9.
3 Tallarigo, G. Pont., P. I, pp. 140-141; Minieri Riccio, Biogr.,
pp. 156-161. — Il Puderico mori nel 1528.
* Crispo, Vita del Sann, (in Opere volg, del Sannazaro, ediz. cit.,
p. xxiv).
5 Nell'epist. premessa sàVActius del Pontano (Napoli, Mayr, 1507).
6 Son. cit., 3-4.
' V. a p. CLi.
8 Ne scrisse una biografia il Mazzuchelu , ora nelle schede inedite
della Vaticana ( v. la n. a 1 p. xn )i a' IT. 448 r-43oy del cod. 9265.
INTRODUZIONE CCXVH
anch' esso nobile napoletano , fecondissimo ma rozzo
scrittore di un poema , di egloghe , di rime petrarche-
sche , di strambotti e barzellette, e di prose in vol-
gare ' ; Crisostomo Colonna , prete , di Caggiano , nel
Principato Citeriore , precettore e segretario di Ferran-
te, primogenito di don Federigo, maestro forse di latino
a Bona Sforza, figliuola d'Isabella d'Aragona, duchessa
di Bari; e forse autore, anche lui, d'un canzoniere in
volgare ' ; Giovan Battista Musefilo , — suo « giocondo a-
mico », — eugubino, tra i più fidi consiglieri di don Fe-
derigo, e precettore de' figli di Inico d'Avalos e d'An-
tonella d'Aquino, per i quali compose anche una gram-
matica latina \ Il Musefilo, che fu poi lettore di « poe-
sia » d' « humanità » nello Studio napoletano dal
1508 al 1S12 *, vien ricordato dal Chariteo anche nella
Anche ivi si cita malamente un suo canzoniere in volgare stampato
a Napoli, nel 1506, da Gio. Antonio de Caneto Paviense ; che sarà
certamente quello di G. F. Caracciolo, uscito appunto in quell'anno
e dallo stesso stampatore, per cura del Carbone. V. anche Minif.r'
Riccio, Biogr. (nell'/fa^m Reale, presso la Soc. di stor. patr. napol.)
n. Lxvi. Sulle sue poesie v. Giraldi, De poet. n. temp. i, p. 385.
* Il Canzoniere cit. nella n. i a p. xcix ; gli strambotti e le bar-
zellette nei Rimai, napol. del quattroc. (nella n. a p. xlui), alcune e-
gloghe in appendice sXV Arcadia, ediz. Scherillo, pp. 321 sgg. Del poe-
ma (v. la n. I a p. clxxxvi) e dei trattati , per ora , due notizie del
Renier (Giorn. stor. d. lett. it. , Vili, 248 sgg. e XI, 469-475).
2 Son. CXV. — V. su di lui G. Augelluzzi, hitorno alla vita ed
alle opere di G. Colonna, Napoli, 1856; e Minieri Riccio, .S/o^ir. pp.
453-459, che attribuisce a lui le Operette del Parthenopeo Suavio ,
(Bari, 1535). Col suo nome ci restano : un' elegia per la disfida di Bar-
letta , tre epigrammi, alcune lettere e l'opuscolo De situ et moribus
Hollandiae (nelle Inferior. German... antiquitates, Lione, i6ii).
3 Son. LXIX. — V. su di lui Minieri Riccio, Biogr. pp. 355-361. —
Nel cod. V. 0. 12 della Naz. diNap., le sue Institutiones Gramma-
tice a Jo. Musephilo Ivcubrate; nei cui esempi ritornan sempre i no-
mi Alfonso. Costanza, Rodrigo, Ippolita, che appartenevano ai figliuoli
d'Inico d'Avalos (v. Vlnd stor).
■* Si rileva dalle Ced- di tesor. , voli. 183 e sgg. — Era morto nel
giugno 15 12.
XXVIIl
CCXVIII INTRODUZIONE
llesposta contro i malivoli S insieme, e col titolo di
« Quintiliani del secol nostro » e « moderatori della gio-
ventù », al maestro del Sannazaro, Giuniano Maio, ca-
valiere napoletano, anch'esso privato precettore di prin-
cipi, e lettore di rettorica nello Studio generale di Na-
poli, dotto compilatore del De priscorum proprietate
verhorum, uno dei primi dizionari latini, e autore del
trattato in volgare De Majestate, scritto nel 1492 e
dedicato a Ferrante I ^
Dei poeti e letterati non napoletani che , come ami-
ci, troviam ricordati nelle rime del nostro, il Colocci ,
Marco Cavallo ^, Pietro de' Pazzi *, solo il primo richia-
ma alquanto la nostra attenzione.
Angelo Colocci dimorò in Napoli dal 1486 al 91 ^; ma
' Vv. 220-222.
' V. , fra gli altri, Minieri Riccio, Biogr. {aeW Italia reale) n. xcvi ;
A. MiOLA, Propugnai. N. S. I, pp. 141 sgg.; D. Lojacono, L'opera ined.
De Majestate di G. Majo ecc., Napoli, 1890. — Nell'istessa Resposta
(vv. 223-225) è ricordato quel Corvino, parente del Chariteo (v. p. lvi
e n. 3), certamente Massimo, napoletano e vescovo d' Isernia, nunzio
apostolico, che mori nel 1522, e di cui ci rimangon solo alcune orazioni
latine (v. Caballero, Op. cit., pp. 57-62; M. Tafuri , Op. cit. , pp.
xxxvii-vm, n. 34; Minieri-Riccio, Biogr., pp. 96-99). — Nessuna poe-
sia ci è rimasta di Michele Dolce , che il nostro chiama poeta ( son.
CCVI) e che è ricordato solamente da P. Gravina (v. la n. 1 a p. cliv);
di Antonio Severino, napoletano, anch'esso poeta (son. CLXXXV), a
cui G. Anisio inviò alcuni endecasillabi (Poemata, f. 83 r) , e che P.
Giovio ricordò, fra i poeti napoletani della prima metà del sec. XVI,
nel dialogo De viris litt. ili. (v. la n. al son.) ; di Ferdinando di Car-
dines, marchese di Laino (v. la n. 1 a p. lxxvii), che, secondo il n.,
aveva celebrato in una poesia latina T amor coniugale ed al quale il
Gareth consigliava di lasciare il « il sermon prisco » , per il volga-
re: cosi sarebbe riuscito il miglior dei poeti contemporanei, eguale
solo «all'alta lira fiorentina» (son. GXXXIX): il Petrarca.
3 Son. CLXXXVI e v. la n. prelim.
i Son. CLXXV, e v. la n. prelim.
5 Lancellotti, Vita di A. Colocci (innanzi alle Opere, ediz. cit.),
pp. II -12.
INTRODUZIONE CCXlX
non pare che frequentasse durante quel tempo, l'ac-
cademia, né fosse in relazione col Fontano o con gli a-
mici di lui '.
Il Chariteo lo conobbe certamente a Eoma, molt'anni
dopo, durante la sua dimora in quella città ^ vale a dire
tra la seconda metà del 1501 e la prima del 1503 ^ Al
futuro vescovo di Nocera, ilGareth, come già accen-
nammo, parlò di un « libro di poeti limosini», — cioè
provenzali, — ch'egli avea nella sua biblioteca a Na-
poli, e gli mostrò — come poi ebbe a dire lo stesso Co-
locci — « in un poco di quaderno, in quarto di foglio,
la traduzione in lingua nostra volgare, fatta da lui,...
de le rime di Folchetto di Marsiglia » *. Chi sa quale
accanito raccoglitore di manoscritti romanzi fosse il Co-
locci, può immaginare quale smania gli dovettero met-
tere addosso le parole del Chariteo!
Si può essere piìi che sicuri che, d'allora in poi, il
dotto prelato non pensò che a diventar lui il possessore
di quel manoscritto e della tradazione di Folchetto. Na-
turalmente, non appena che il Chariteo se ne morì, cioè,
come abbiam detto, nella seconda metà e prima del de-
cembre del 1514^, egli s' affrettò a scriver all'intimo a-
mico del poeta, al Summonte, perché cercasse ad ogni
costo, d'acquistar dalla vedova, per lui, quel manoscrit-
to. La povera donna, che, come vedemmo, alla morte del
marito, era rimasta piuttosto bisognosa ^, non resistette
molto alle insistenze del Summonte, e, prima del decem-
bre di quell'anno , il manoscritto era già a Roma, nelle
' M. Tafcri , Op. cit. , p. Lxxvi n.
2 Nel son. CLXXIX, 9, rivolgendosi al Colocci: «Quand'io te vidi
in Roma ».
3 V. a pp. xxxvii-ix.
* Summonte , Lett. al Colocci, ripubblicata nel Docum. XII. Cito sem-
pre da essa , parlando , qui appresso , del cod. di rime provenzali.
5 V. a p. XLii.
6 V. a p. Lv.
CCXX INTRODUZIONE
mani frementi ed impazienti di monsignor Colocci; ma
con quanta stizza e delusione dei bibliofili, degli ama-
tori e mecenati napoletani ! [ quali , « con la mano strit-
ta lor solita, avevano offerto quattro quattrini»; sicu-
rissimi che , per le non floride condizioni domestiche
della signora Gareth, esso sarebbe certamente andato
a finire, prima o poi, nelle lor mani.
Ma appena volato via il libro, il suo pregio, per le
continue richieste, s'accrebbe incredibilmente. La mar-
chesana di Mantova, Isabella d'Este- Gonzaga, che passò
a Napoli i primi quindici giorni del decembre di quel-
r anno, ^ « solicitata non si sa per qual via, '^ faceva in-
stanzia» di vederlo. Giovan Vincenzo Carafa, marchese
di Montesarchio, amico del poetale savio protettore delle
lettere e dei letterati, venuto a conoscere l'importanza
del libro, aveva detto in pubblico, il 26 luglio, tre giorni
prima che il Summonte scrivesse la sua lettera, «che
volea mandare un scriptore ad posta in Koma et con bou
mezzi optinere dal Colocci che li ne faccia cavar copia».
Il nipote istesso del Chariteo, Bartolommeo Casassagia,
si pentiva di « non haverne pigliata copia ordinata ad
tempo che lo tenne tanti mesi in poter suo » !
E, col pregio, crebbero le ire. Tutte andarono a ca-
dere addosso al povero Summonte. Era stato lui che
aveva dato mano a far uscire da Napoli « una cosa si
rara », senza avvertirne neanche « gli amici », i quali,
almeno, ne avrebbero potuto far « pigliar copia»: essi
— insinuavano gli amici — avrebber certamente dato alla
1 V. a p. XLii, n. 2.
2 Io credo da Mario Equicola, studioso ricercatore e possessore di
manoscritti provenzali (v. Chabaneau, Notes sm' quelques 7nss. pro-
veìigaux , Parigi, 188$, pp. 19-21; Renier, nel Giorn. star. d. lett.
ital., XIY , p. 217 n.), e, com'è noto, dal 1508 sino alla morte (1523),
precettore e segretario della Gonzaga (Luzio, I pt^ecett (Tlsab. d'E-
ste, Ancona, 1887, pp. 40 sgg.).
3 Gli dedicò un son. e Io ricordò nella Pascila (v. a p. cxui e n. 3).
I
INTRODUZIONE CCXXI
vedova « molto maggior prezzo » che non il Colocci. Ma
la « patrona », — soggiungeva il Summonte, — « non sta
niente pentita, perché è certa, che, havendo adesso lo li-
bro, seria in li medesimi termini, dove era da prima ».
Questo codice esiste tuttora ed è veramente impor-
tante. Passato dalle mani del Colocci, che l'aveva amo-
rosamente studiato e postillato sui margini, e del quale
aveva fatto egli stesso una copia per potersene servire
più comodamente nei suoi studi, non volendo sciupare,
con l'uso, il prezioso originale; in quelle di Fulvio Orsini,
che lo studiò e l'ebbe anche molto caro; entrò, con tutto
il resto della biblioteca di questo erudito, nella Vati-
cana, dove fu conservato, col n. 3794, fino al 1797»
quando, con molti altri manoscritti, passato in Francia,
fu conservato, e si conserva tuttora, nella biblioteca na-
zionale di Parigi, prima coli' indicazione di « suppl. frane.
2033 », ora col n. 12474 S consultato e meritamente ap-
prezzato da tutti i romanisti , dal Raynouard ai moder-
nissimi". È un volume in 4°, — rilegato insieme ad un'al-
* La storia e la identificazione del cod. del Chariteo col parigino
si deve al De Nolhac, La hibliotèque de Fulvio Orsini, Parigi, 1887,
pp. 318 sgg. — Sulle postille del Colocci v. C. De Lollis, Ricerche ini.
a canz. prov. di erud. ital. del sec. XVI (nella Romania, XVIII ,
pp. 433 sgg.) — La copia fatta dal Colocci del ms. del Chariteo è rap-
presentata dal cod. vat. 3203 [g], di ff. 188 (De Nolhac, Op. cit., p. 320):
ne détte una descrizione e l'indice, il quale può servire anche per il
cod. del Chariteo, il Gruzmacher neWAr^chiv f. d. Studium d. neiir.
Hpracheu. Licer. (Brunswick, 1864), t. XXXV, pp. 84 sgg. Altra copia,
pur derivata dall'istesso cod. del n., è il ms. 1290 {g*\ dell'Universitaria
di Bologna: descrizione e contenuto in Mussafia, Del cod. estense di
rinieprovenz. (in Sitzungsh. der kais. Akad. d. W^js5.,LV,pp. 447sgg.).
2 V. , fra gii altri, il Raynouard , Choix des poésies orig. des trou-
6ad., Parigi, 1817, II, p. clvii ; Bartsch , Grundriss zur Gesch.
der prov. Lit., Elberfeld, 1872, p. 28; Gròber, Die Liedersani'
mlungen der Trouhad. (in Romanische Stitdien, II, pp. 510 sgg.) —
E in gran parte pubblicato dal ]!klAHN, Gedichte der Troubad. (Ber-
lino, 1836-73) , voli. I, pp. 8 ecc., II, pp. 10 ecc., Ili, pp. 4 ecc., IV,
pp. I ecc.; e quindi utilizzato dal Bartsch, nell'ediz. delle poesie di
CCXXIl INTRODUZIONE
tra raccolta manoscritta di rime provenzali [^«] — di
279 fogli membranacei; nei primi dieci, non numerati,
si trova un indice dei poeti, e, dopo un foglio bianco,
nei seguenti 268, — numerati dall' istessa mano che tra-
scrisse tutto il codice nel secolo XIV, e adornati da
miniature, — le rime dì una sessantina di trovatori ,
e , specialmente un bel manipolo di poesie di Giraldo
di Bornelh, di Folchetto di Marsiglia, di Bernardo di
Ventadorn , di Pietro Vidal , di Gaucelmo Faidit , di
Americo di Pegulhan, di Pietro d'Alvernia, di Pietro
Cardinale; e, fra queste, alcune di Eambaldo di Va-
queiras, di Eaimondo di Miraval, di Guglielmo di Saint-
Didier, di Arnaldo di Marueilh, di Rambaldo III, conte
d' Grange , di Arnaldo Daniello , di Bordello , di Jaufré
Elidei, di Pietro Rotgiers, di Beatrice, contessa di Die,
di Bertrando de Born, di altri ancora, men noti, ed, in
fine alcuni descorU e parecchie tenzoni *.
Che il Gareth conoscesse molto bene il provenzale
ce lo attesta il Summonte, quando, presentando al Ca-
locci, il nipote del Chariteo, Bartolommeo Casassagia,
assicurava che questi le « cose Limosine le legeva et
intendeva così bene, come il Zio, et non voglio dire
Peire Vidal (Berlino, 1857) e nella Chrestomathie provengale (Elber-
feld, 1880), coli. 55-58, 60-74, 81-84 ecc.; dal Canello, La vita e le
opere del trov. A. Daniello, Halle, 1883 (pp. 162 sgg., 176 sgg. ecc.);
dui Monaci, Testi antichi ined. prov., Roma, 18S9, coli. 75, 84, 102
ecc.). —Questo cod. del Chariteo si suol indicare dai provenzalisti con
la lettera M; con G solamente da P. Meyer, Les derniers troub. de
la Prov. {Bibl. de l'école des Chartes, t. XXX, p. 255), e con dal
MussAFiA , Op. cit. , pp. 356 , 450. — « Il y a dans le manuscrit cer-
taines mentious d'une ecriture differente et un peu plus ancienne, qui
est peut étre de Canteo. Faut-il y voir celle que les savants romains,
en 1582, osaient attribuer à Pétrarque? » (De Nolhac , Op. cit. , p.
318, n. i; cfr. Mahn, Gedichte, II, al n. 438).
1 Un' indice completo del cod. ili" non è stato ancor pubblicato; ma,
in luogo di esso, ci siam giovati di quello già edito vat. 3205, il
quale, come dicemmo, è copia del ms. del n.: v. la n. i a p. ccxxi.
IJJTRODUZIONK CCXXIII
migliore: la qiial comparationc si era vista più volte,
quando l'uno et l'altro, qualche volta, ragionavano
del migliore et del peggiore di questi tali poeti Limo-
sini; et questo con lo libro in mano, quale adesso è
in vostro potere ». Migliori, fra' trovatori contenuti nel
suo codice, il nostro dovette stimare Arnaldo Daniello
e Polclietto di Marsiglia, — i due trovatori così cari an-
che a Dante ed al Petrarca! — se di essi trascrisse accu-
ratamente , emendando solo qua e là qualche scorrezio-
ne, quasi tutte le canzoni che nel suo « libro » eran lo-
ro attribuite: quattro del Daniello e nove di Polchetto'.
Né per quest'ultimo trovatore, a credere al Colocci,
si sarebbe contentato di trascrivere solamente le nove
sue canzoni: le avrebbe anche tradotte. Ma il buon Sum-
monte, che, dopo la morte dell'amico, per incarico del
Colocci, aveva esaminate, pazientemente, una per una,
ma senza alcun frutto, tutte le carte del poeta, per
trovarvi la traduzione di Fulchetto , dichiarò che essa
doveva esser stata fatta solo nell'immaginazione del-
l' amico doveva essersi perduta '"'. E perduta, forse, la
* Nel cod. M, come si rileva duirindice del cod. g, sua copia (v. la
n. 1 a p. ccxxi), i componimenti attribuiti a Folchetto son diciasset-
te. Nella sua trascrizione il Chariteo , o il Cassasagia nella sua tra-
duzione, tralasciò gli ultimi otto (Erani destrehih, Ban moti, Chan-
tan. Sit tot mi sui, la nos ciigom, Pos entremes, En chantan, Fin
amors).
' II SuMMONTE nella cit. Lett. al Colocci, che gli aveva chiesto
« la traductione in lingua nostra volgare » « de le rime di Folchetto
di Marsiglia, la quale era in un poco di quaderno in quarto di fo-
glio » , « mostratali per ipso messer Chariteo » , in Roma ; rispondeva
di « haverla trovata, poi di alcuni di, dentro lo Plinio o vero Sene-
ca suo » ; se non clie, esaminando meglio quel « quaderno » , a casa
sua , s' accorse che conteneva semplicemente « il texto limosino di
Folchetto » ed « anco lo Arnaldo Daniello », ma nessuna « traductione
in volgare italiano ». Voleva dir dunque — continuava il Summonte, —
che l'amico o non l'aveva mai fatta, e l'aveva data per tale al Co-
locci, perché « multe volte si dilectava parlare poeticamente »; o l'a-
vea fatta nel suo soggiorno a Roma , e perduta : che lui , durante i
CCXXIV INTRODUZIONE
credo anch'io, o distrutta dal poeta ; ma del tutto im-
maginata, no; elle di essa trovo ancora qualche vesti-
gio nell' £';it?/?w/o Pie. Quel componimento, che nella no-
stra edizione è intitolato ballata V e che è, come ab-
biam detto poco fa , piuttosto una stanza di canzone ,
non è che traduzione e parafrasi della prima cohla di
una canzone di questo appassionato amante dell'orgo-
gliosa viscontessa di Marsiglia \ Di modo che è lecito
vent'anni della loro amicizia, non n'aveva mai sentito parlare. Al-
lora, per non lasciar deluso l'amico, il Summonte delle quattro can-
zoni del Daniello (Sim fos. Lo ferm. Moutz braills. Era sabrai :
questa non è d'Arnaldo), e delle nove di Folchetto (Per Dieu, Ben
han, Amors merce, Greu fera, Mout i fes , Ad qan, S'alcor, TJns
volers, Tan m' abellis), contenute nel «quaderno» del Chariteo — e
da lui stesso trascritte dal « libro » grande, ove si trovano attribuite
ai due stessi trovatori, e con leggerissime varianti, — fece fare, « a suo
modo », una traduzione interlineare dal Casassagia ; e la inviò al Co-
locci con la lett. più volte cit. L'originale di questa traduzione, in « tre
quaderni in quarto di foglio,., in tucto charte xxx » , con postille,
indicanti dubbi e schiarimenti, e una lettera al Colocci, del « mede-
simo traduclore », è il cod. vat. 4796 ; e una copia di esso , purgata
dalle « molte forme vernacole, proprie del napolitano », è il vat. 7182
(v. De Lollis, Op. cit. nella Romania, pp. 459 sgg.; e cfr. Fourtoui.,
Rev. d. deiix mond. XIV, 571; Casini, Riv. crit. d. let. it.. Ili, coli.
89-90; Chabaneau, Rev. des l. rom., S, III, t. XIII, pp. 257-59).
* Anche i primi due vv. del son. XIII (v. a p. lxxix).
Io seguo chi mi fugge e si nasconde,
e fuggo da chi vuol farmi contento,
sembran tradotti da questi della caiiz. Ben an mort di Folchetto
(Mahn, GedicìUe, III, p. 172):
cho quem encaussa vau fugeti,
e so quem fui vau seguen.
Anche la prima quartina del son. LXIII:
Se fusse eguale il mio cantare in riinri,
donna, al vostro divino alto valore,
io sarei tra' poeti oggi il migliore,
come tra donne voi siete la prima.
INTRODUZIONE CCXXT
concliiudere che il poeta , parlando al Colocci della sua
traduzione di questo trovatore , non asserisse cosa del
tutto immaginaria. Quando fu a Roma (1501-1503), ei
doveva, in tutto in parte, averla già fatta; ma poi,
forse poco contento, l'aveva distrutta, salvandone solo
par derivata dalla prima cobla di una canz. di Guglielmo di Saint-
Didier (Raynouard, Choix, III, p. 300):
Aissi cum es bella sii de cui chan,
e belhs sou iioin, sa terra e son castelh,
e belb, siey dig, siey fag e siey semblan,
vuelh mas coblas movou totas eu belh ;
e die vos be, si ma chansos valgues
aitai! cum vai aiselha de cui es,
si vensera totas cellas que sou,
cum ilh vai mais que neguna del mon.
E del quarto vs. della strofa quarta di quest'istessa canzone:
Belha domna, pus ieu autra non blan
endreg d'amor, ni n'azor, ni n'apelh,
qu'una non es en fag ni en semblan
que contra vos mi valgues un clavelh,
pare eh' e' si ricordasse , quando affermò che tutte le belle donne an-
tiche e moderne non eran degne d'esser lodate (son. VI, 14):
quanto un capillo sol de la sua Luna !
E cosi dalla canz. Vas vos soplei ài Gm^o d'Uisel derivò forse il son.
XXVI e specialmente le due terzine, benché in esse s'intravedano
anche reminiscenze petrarchesche e ovidiane :
Drizza le insegne a più famosa impresa:
vince costei, che par si dolce in vista,
e contra te fu sempre amara e forte :
che gloria no, ma biasmo al fin s'acquista,
de pugnar contra cui non fa difesa,
e disarmato incauto corre a morte,
dalla quinta cobla provenzale (Mahn, Gedichte, III, p. 69) :
XXIX
CCXXVI INTRODUZIONE
quel brano, che, sembratogli il meglio riuscito, inserì,
così fuor di posto, nel canzoniere.
Ecco, ad ogni modo, la traduzione, in qualche punto
proprio letterale e ripetente quasi ristesse parole del-
l'originale (vv. 1-5, 14-16):
Amor, tu sai che la dolce umiltade
tanto suol più salir, quanto più scende,
et è vertù, più ch'altra, in ciel gradita,
e l'orgoglio crudel, quando più imprende
volar per l'alto, ailor più presto cade: ...
che, come varia ognor nostra ventura,
cosi mutar si può la vostra gloria:
che, poi d'un chiaro di , vien notte oscura.
Amors, ben faitz vulpilhage failhensa,
qau mi qe sui vencutz venez ferir,
e laissatz leis cui non pot convertir
dieus, ni merces, ni dreg, ni conoissensa.
Nei sonn. XIV-XVI, in cui è cantata la gioia dell'amante nel sognare
la sua donna, potette ben ricordarsi dei molti luoghi consimiU di Ar-
naldo DI Maruelh (v. Raynouard, Choix , III, pp. 215, 21S, 222).
L' ultimo di questi brani del Maruelh è anche ricordato dal Ciava-
RELLi , Op. cit. , pp. 59 sgg. : ma gli altri luoghi provenzali eh' egli
arreca per dimostrare una probabile relazione fra la poesia troba-
dorica e quella del n. , come dicemmo altrove {Giorn. star. d. lett.
ital. XI, pp. 22<)-25), non sono che luoghi comuni incontri casuali.
Tutte le poesie provenzali, che citammo sin qui, sono nel cod. M, né
credo che il n. ne possedesse altro. Di modo che non mi pare che il
Chariteo, Dell'adoperare il ritornello di due vv. in fine delle strofe
della canz. XI , potesse aver presente quello di tre vv. usato da Gi-
RARDO RiQuiER nella sua poesia Ad un fin aìnan (Raynouard, Choix,
III, pp. 466-467), come il CiAVARELLi (Op. cit., pp. 63-64) lascia cre-
dere, o altro di altro trovatore; perché nel cod. M non si trova il
componimento del Riquier, né io, fra quelli che ho potuto leggere, ve
n'ho trovati altri con ritornello. — Nelle similitudini del cigno mo-
rente, della salamandra vivente nel fuoco , che si trovano nelle rime
del n. , non si può vedere una sicura influenza provenzale : perché
queste, come altre immagini, son comuni cosi al repertorio dei tro-
vatori che ai lirici italiani dei secoli XIII e XIV, e qualcuna anche ai
latini. V. Nannucci , Manuale, I, pp. 57 n. 8, 117 n. 5; Gaspary,
Scuola poet. sicil., pp. 105-106.
INTRODUZIONE CCXXVII
Per deu, amors, ben sabez veramen,
com plus descen plus poia huruilitaz,
et orgoilli chai on plus aut es poiaz.
Don dei aver gauch e vos espaven,
qanc se mostraz orgoilh contra mesura,
e brau respos a mas liumils chansos :
doncs es semblant qe l'orgoilh chaia ios,
q' apres bel iorn ai vist far noit escura *.
Ma ritorniamo agli amici suoi letterati. Furono ancor
tali, sebbene non ricordati nelle rime del Gareth, Gio-
vann' Antonio de Petruciis , frate Egidio da Viterbo e
i due fratelli Anisio.
Giovanni Antonio de Petruciis, il povero conte di
Policastro, dal fondo della sua prigione, l'orrido « forno
di San Vincenzo», dov'ei stette rinchiuso dall'agosto
al decembre del i486, e dove venne pietosa a conso-
larlo la musa del dolore , inviava al « suo Chariteo » ,
questo sonetto sulla sua misera sorte, rimasto , da parte
del nostro, — al quale, per questo atto d'ingratitudi-
ne, non van fatto punto delle lodi, — senza risposta
alcuna :
Ad Chariteo: lo conte de Policastro saluta.
Conosco contra me si adverso fato,
che credo , vivo e morto , ò da patere.
Si la anima è immortale , e ne le fere
transmigra , corno ce bave demostrato
* Non essendo ancor nota la lezione del cod. M, seguo quella del
laurenz. 43, plut. xli , pubblicata dal Gruzmacher neW Archiv cit. ,
t. XXXV, p. 3S1. Altre lezioni di altri codd. in Mahn , Gedichte,
I, pp. 48, 131, III, p. 172. — L'ultimo vs. di Folchetto era stato
anche tradotto, più di due secoli prima, da Buonaggiunta Urbiclvni
(in Nannucci, Alan., I, p. 145):
Che di bel giorno vist' ho notte oscura
contra natura fare.
CCXXVIII INTRODUZIONE
Pythagora; serragio transmutato
in qualche ucello , che habia da manere
sempre presone , per donar piacere
a quillo che terrà me carcerato!
Caritheo mio , o vero si a lo Averno ,
o vero al summo celo have da andare ;
serragio descacciato da lo inferno ,
al paradiso non poragio intrare:
da alcun serò restrecto in sempiterno.
La terza opinion me pò salvare! *
Ad Egidio Canisio, agostiniano, discepolo e succes-
sore, nell'eloquenza, di Mariano da Gennazano, e fa-
moso oratore, che un verso di Virgilio, acconciamente
citato in una sua predica, aveva stretto in intima a-
micizia col Sannazaro ^ e che, amico pur del Fontano,
il quale aveva intitolato dal suo nome uno dei suoi
dialoghi, s'era fatto ammonitore dell'arte di lui troppo
lasciva e pagana^; il Gareth diresse un'epistola pri-
ma del settembre del 1501; in cui, tra lodi ed ammi-
razioni al gran predicatore e moralista, troviamo pure
un' allusione a codesta missione che e' s' era imposta
di spaganizzare i poeti napoletani. « Te enim — dice
il Chariteo — ego solum hac nostra aetate aspicio, qui,
dum in mortalium inveheret mores , ab omnibus miri-
fico diligeretur: eosque , quos severissime acriterque
reprehenderet , aequos dimitteret atque placatos " ».
1 Dal ms. xiii . d . 70 f. i r» della Naz. di Nap.; piuttosto che dalla
ediz. cit. de' Sonecti (p. 52), in cui questa poesia ha il n. lvii e non
riproduce esattamente la lez. del cod. — Sul De Petruciis v. il Torra-
CA, Studi di stor. lett. napoi, pp. 133 sgg.
- V. B. Pino, da Cagli, Del galant., Venezia, 1604, pp. 153 ^-154 r.
3 V. su di lui GregoroviuS, Stor. di Roìna, trad. ital., voi. Vili,
388-90; MiNiERi Riccio, Biogr. (nell' Italia reale, n. m)'; Fioren-
tino, Egidio da Viterbo e i pontanìani di Nap. (in Risorg. filos. del
5fMa«rocento, Napoli, 1SS5, pp. 251 sgg.).
^ A p. 463 neir Appendice alle Rinie del n. e cfr. anche la n. —
Molto similmente di lui Paolo Cortese nel De cardinalatu (in Ca-
INTRODUZIONE CCXXIX
Pare che uno de' poeti convertiti fosse appunto il Ga-
reth; ed io starci quasi per afiermare che le canzoni
religiose e la Pascila e' le scrivesse per suggerimento
del platonico frate \
Le une e l'altra son certamente posteriori al 1501 ,
quando già il nostro era in relazione con Egidio: in
quell'anno, essendo il celebre predicatore in Napoli, era
venuto a visitarlo nel convento degli agostiniani , in
San Giovanni a Carbonara, col Fontano e con Girola-
mo Carbone , anche il nostro Chariteo '.
L' abate Giano Anisio , nelle sue liriche e nei suoi
epigrammi latini , facile imitatore del Fontano e del
stro Cartesio, 13 io), dopo di aver ricordato Roberto da Lecce, Ma-
riano da Gennazano e G. Savonarola : « Quid itera modo de Egidio
Viterbense dicam? qui unus iiiter multos videri potest ad Italorura in-
genia flectenda et mitiganda natus , cuius sermo ita litteratioris ele-
gantiae sale conditur, ut in summa verborum concinnitate oranis adsit
sententiarum succus, ac ita suaviter et numerose fluit, ut in vocis va-
rietate et fiexu plectri similes exaudiantur soni ». — Egidio ricorda il
n. fra gli uomini illustri napoletani, nel ms. ix.b. 14 della Naz. di
Nap., f. 239 r: « in ea pi'aecipue civitate regia, ubi elegantissima Fon-
tani musa viget; ubi Actius Sincerus Sannazarus, huius saeculi deli-
tiae; ubi Petrus Gravina; ubi Hieronimus Garbo; ubi Charitheus et
Sommontius ; ubi alio in genere Augustinus Suessanus et Galatheus:
rara omnes eruditione illustres viri » (Fiorentino, Op. cit., p. 265).
* Anche Egidio era poeta, ma sono della sua gioventù la Caccia
d'amore (Venezia, 1523, con le opere del Benivieni), ed i sei madri-
gali amorosi del cod. magi. 720 (Trucchi, Poes. ital. ined., Prato,
1846-47, III, 124 sgg.). L. G. GiRALDi {De poet. suor. temp. 1, in 0-
pera , Lione, 1696, voi. II, col. 541): « Valuit et Card. Aegidius
Carmine latino, sed et vernaculo Hetruscorum: extant nonnulla ipsius
apud quosdam carmina, quae illius ingenii subtilitatem ostendunt, sed
conversus ad linguarum notitiam in sacrae Theologiae studiis con-
quievit ».
2 Fontano, JEgidius , f. \r: «... Aegidius... heremita : quem
superioribus diebus in hortis coenobii Baptistae Ioannis cum deam-
bularemus , quod est Neapoli ad Carbonariam , adessentque mecura
una, quem hic adesse ceruitis, Hieronymus Garbo, itemque Ciiari-
teus , ita quidem locutum , et ipse memini , et hi ipsi testificari hoc
idem possunt ».
CCXXX INTRODUZIONE
Sannazaro, che venerò come maestri, scrittore di satire
oraziane e di una tragedia cristiana anche in latino,
ricordò due volte il Chariteo nelle sue poesie : ' nel-
r egloga Melisaeus ^ e nella satira nona del I libro
delle Satyraey diretta Ad Scornam. In quest'ultima,
lamentando che i bagni di Baia , in luogo di servire
al benessere e alla salute, fomentassero invece la mol-
lezza, il lusso, la corruzione, esclama:
Nana saevo cruciatu , corpora si aegra levantur ,
remigio et velis ibo admonitum Chariteum,
curatum ut veniat capitis stillam atque podagram,
admonitum Pudericum orbatum luce oculorum,
Syncerumque, introrsus qui e pulmone laborat,
et Bassura misere quem pustula sontica adedit,
inde alios , morbus quos pernox perdius angit,
At si istic animi curantur, iam ibiraus omnes
praecipiti cursu, hospitium mihi Scorna parato 3).
Il fratel suo, Cosimo, medico ed anche lui poeta la-
tino , diresse al nostro solamente questo epigramma :
scherzante, parmi , sul contrasto tra la giovenalesca
Resposta contro li malivoli e le platoniche rime amo-
rose per la Luna.
AD CHARITEUM.
Insanos, Charitee, qui poetas
dixit, ac Bromio deo sacratos,
nae dlsit lepide nimisque vere.
• V. su di lui MiNiERi Riccio, ^/ogrr., pp. 59-65 ; Tallartgo, G.
Pont., I, pp. 168-69, e Studio su G. Anisio, Napoli, 1887; B. C[a-
PASSo] x\e\V Ardi. stor. nap., II, 414.
2 V. riferiti i vv. che riguardano il n., a p. coni.
3 Satyrae (Napoli, Suitzbach, 1532), I, ix, f. 32 r-v\ e cfr. i Cam-
mentarioli in Satyras I. Anysii del fratello Cosimo Anisio, in fine dei
Poemata (v. n. seg.), f. 183. — Se il Bassum del 6° dei riferiti vv. è
il Colocci , la satira fu scritta prima del 1491, quando quel letterato
lasciò Napoli (v. p. ccsvin e n.).
INTRODUZIONE CCXXXI
Quis non rideat? Ille qui ferocem
iactabat satyram, en canit puellam
tenello numero Se tenellulo ore;
parumque abfuit, & repente centum
esemplo hoc epigrammata evomebat:
quid negotii, Luna cammarique. ')
Dopo il suo Ferranclino , dopo il Sannazaro e il Fon-
tano, il Garetli ebbe sopra tutto cari due figliuoli d'I-
nico d'Avalos e di Antonella d'Aquino: '•' Alfonso e
1 Poemata (Napoli, Sultzbach, 1333), lib. 11, f. 27 v. — A prestar fede
ad altre falsificazioni del Meola, sarebbero stati anche intimi amici del
Gareth, Scipione Capece , dotto giureconsulto e poeta lucreziano del
De principiis rerinn e del De vate maxima (Tallarigo, G. Pont.,
P. I, pp. 185 sgg.; MiNiERi Riccio, Biogr., pp. 229 sgg.); Pietro Gu-
lino , detto il Compare generale , V allegro compagno del Fontano
(Tallarigo, Op. e /. eie, pp. 141 sg.): Manilio Rallo, greco (Minieri
Riccio, Biogr., neWPalia reale, n. xxiu). Il Capece (ms. xiu. d. 27
della Naz. di Nap) avrebbe scritta questa orribile terzina:
Altilio ancor vedrassi e Cariteo ,
il buon Marin, insiem con suo fratello,
che per li Regi suoi cotanto feo.
Gli altri due, i due capitoli In nvptiis Charitei , pubblicati da noi, in-
sieme ad niì epistola del Compatre al n., sebben certamente opera del
Meola, nel Docum. X. — E a credere sempre a quest'ultimo, avrebbe
ricordato il n. anche Giovanni Filocalo da Troja nel Poetnetlo cit.
nella n. 2 a p. ccxxxvii. Se non che, nelle parole: Nec non cui ìiomen
amata Musa dedit e nelle seguenti, com'ebbe a notare pure il Capasso,
Op. cit., p, 44, n. 2, si allude evidentemente a Giov. Batt. Musefilo: che
il Chariteo prese il suo nome accademico dalle Charites, non dalle Muse.
2 Senza ricordare le poesie che si riferiscono ad Alfonso e Costan-
za, il Gareth celebrò Inico padre nella Pascha (VI, uo-iii); pianse
la morte di Antonella nella classica canz. XIII, tutta reminiscenze vir-
giliane e platoniche sull'oltretomba; la perdita d'Inico II, di Marti-
no, di Rodrigo e d'Ippolita, loro figliuoli, in un Cantico e néWà Me-
thamorphosi (III, 130 sgg.); il nipote Francesco Ferrante nel son.
CLXXXIII. Il Chariteo fu dunque il poeta di questa famiglia, nella
quale, quando il nostro pubblicava la seconda edizione delle sue rime
(decembre 1509), entrava anche una poetessa: Vittoria Colonna.
CCXXXII INTRODUZIONE
Costanza. Son tutt'e due confidenti del suo amore per
la Luna ' : v' era dunque fra essi ed il poeta una cara
intimità.
Alfonso e Costanza non furono solamente degli eroi,
furono anche amanti e protettori delle lettere e dei
poeti. E questa bella virtù aveano ereditata dal padre
Inico; colui che col nome di « conte camarlingo » fu
celebrato dal contemporaneo Vespasiano da Bisticci
come « il più gentile signore » che fosse in Napoli.
« Era la casa sua, — dice il buon « cartolaio » fioren-
tino , — uno ricetto di quanti uomini dabbene erano
nel Kegno. . . . Dilettossi maravigliosamente di libri, e
aveva in casa sua una bellissima libraria: tutti libri
degnissimi, di mano de' più belli iscrittori d'Italia, e
bellissimi di miniature di carte; e d'ogni cosa gli vo-
leva in superlativo grado, e non guardava a quello che
si spendesse, fussino i libri degni » ^. Durante il tempo
che fu a Milano, presso il duca Filippo Maria Vi-
sconti, fu tra i protettori del Filelfo, e da costui vien
ricordato due volte nelle Satyrae e fatto interlocutore
insieme al fratello Alfonso, nel I Conviviorum ^ « For-
nito grandemente degli ornamenti delle ottime lette-
re » — continua il Da Bisticci — « istituì i figliuoli di
laudabili costumi e volle eh' eglino avessino notizia
delle lettere latine e di tutte le cose che si apparten-
gono a' figliuoli de' principi, come era lui».
Chi voglia saper poi tutti i prodigi di valore di Al-
fonso d'Avalos., del « miglior cavallier di quella etade »,
1 V. i sonn. CXXVI, CXXVIII, CXXXIII, CXXXVI.
2 Vespasiano da Bisticci, Vite di uoìn. ili del sec. XF (Firenze,
'S59), PP- 397-398. — Un cod. della del sec. XV delT universitaria di
Catania (p. c. xi. e, 6) ha questa sottoscrizione: «Hic liber Vitae plii-
losophorum est ad usum mei Ynici d'Avalos » (Ardi. stor. sicil. , XIII,
p. 429).
3 Caballero , Op. cit. , p. 83. — V. anche il Meola , nelle nn. al
Poemetto del Filocalo, p. 73.
INTRODUZIONE CCXXXIII
come lo chiamò l'Ariosto ' , non lia die a leggere le
cronache napoletane contemporanee ^, le storie del Gio-
vio ^ e del Guicciardini *. Ivi vedrà qual fosse l' inge-
gno, l'accorgimento, il valore, l'eroismo di lui durante
tutta la guerra di difesa e di riscossa contro Carlo Vili:
nella disperata impresa di Komagna; a Monte San Gio-
vanni e al Castel Nuovo; nell'assalto del molo grande
di Napoli , durante il quale chi lo vide lo disse « un
lione », « uno nuovo Marte» ^. Ma a noi importa solo
ricordare che questo « nobile paladino » ^ fu anche dotto
e poeta, e, come il padre suo, musico gentile ^ ; e che,
* Ori. fur., xxxiii , 33 (lo ricorda anche xv , 28) :
Cosi dicendo mostragli il marchese
Alfonso di Pescara, e dice : — Dopo
che costui comparito in mille imprese
sarà, più l'ispleudeute che piropo,
ecco qui nell' insidie che gli ha tese
con un trattato doppio il rio Etiópo ,
come scannato di saetta cade
il miglior cavallier di quella etade. —
2 V. Passaro, pp. 65, 67, 78-Si; G. Gallo, Diurnali, ediz. Volpi-
cella [Napoli, 1846], pp. 9, 14-15.
3 Historie, trad. Domenichi (Venezia, 1533), lib. m, pp. 51, 66 w, 109,
114U-116, 118 V, e Vita del Pescara {yen&zìdi, 1561), ff. 170 f, 171.
4 Storia d'Italia., II, cap. v, pp. , 138, 164, 165, 209, 211, dell' e-
diz. di Torino, Pomba , 1853.
5 Passaro, p. 79. — Il Delaborde, Op. cit., p. 554, lo chiama « le plus
fidèle comme le plus vaillant des capitaines » aragonesi. Ne scrisse
una vita, al solito, non scevra d'inesattezze, il Meola nelle note al cit.
Poemetto del Filocalo, p. 73.
6 Passaro, p. 63.
' A lui accennava il n., quando diceva a Ferrandino, che gli avea
chiesto delle poesie non amorose (son. CXLI, 3-4) :
dal tuo Marchese aspetta altiere rime,
me lascia lamentar, ch'altro non cheggio.
E parimenti nella canz. XIX, 31 sgg. :
CCXXXIV INTRODUZIONE
per tali virtù, il nostro si strinse a lui d'un legame
fraterno, ne cantò la gloria e il valore, jjianse la per-
dita della moglie, e finalmente l'infelice fine di lui in
due interi canti della MethaìnorpJiosi e in un sonetto del-
l' Endwiione, avendo a compagni, in questo pietoso uf-
ficio , Jacobo Sannazaro ^ e Gioviano Fontano ^
Né per valore Costanza d'Avalos fu da meno del
fratello. Castellana d'Ischia, seppe resistere nel 1503,
per quattro mesi continui, a quaranta galee francesi che
assediavano l'isola, e s'acquistò il nome di novella
«Amazzone».
A lei debbono gran parte della loro grandezza i ne-
poti Francesco Ferrante, marchese di Pescara; Alfon-
so, marchese del Tasto, guerriero e poeta ^; Costanza
juniore, duchessa d'Amalfi, gentile rimatrice *; Vitto-
ria Colonna, a cui fu madre, educatrice, consigliera di
opere grandi e virtuose.
La bellezza e l'onestà, la dottrina e la saggezza,
il valore di Costanza d'Avalos, che Federigo del Bal-
strenuo, o saggio, e inclito Marchese-
fané sentir col suon di propria lira
la clade de l'esercito francese.
E nel «prologo» alla canz. VII (a p. 461 della nostra ediz. ) : « Tu
solo, e non altro, inclito signor mio, deve emendare questa mia can-
zone: non solo perché per ingegno, più che per discorso de etade,
sei pervenuto ad quella perfectione de litteratura, che pochi hanno
possuta consequire in iuventute ». — Anche il De Jennaro, nel canto
XVII delle Sei etate della vita humana , introduce Alfonso d' Avalos
a ricordare scrittori classici e contemporanei (v. Renier, Giorn. stor.
d. leti. ital. , Vili, 250-251).
1 Nella Visione nella ìnorte dell'illustrissimo don Alfonso Lavalo
marchese di Pescara (in Opere volgari, pp. 407-411).
2 Nel I libro De Tunmlis, f. giiiiu: « Tumulus Alfonsi Davali Mar-
chionis Piscariae ».
3 V. TiRABOscHi, St. d. leti, ital., VII, 124 sgg.
•1 V. Crescimbeni, 7sfor. d. volg. iwes. lì, 480; Mazzuchelli, <Sm(-
tori, I, P. II, p. 1223; RoscoE, Vita e pont. di Leone X, VII, 66.
INTROCtrziONE CCXXXV .
zo, morendo giovane, lasciò vedova giovanissima e con-
tessa d'Acerra, e che don Federigo nominò duchessa
(1501) e Carlo V principessa di Francavilla (1533) ' ; son
ritratte assai bene in una vita che di lei scrisse in
latino Giovanni Tommaso Moncada, conte di Aderuò -.
Ivi questa donna è circondata da tale un'aureola di
saggezza e di virtù , che noi saremmo tentati a dichia-
rare quell'opera esagerazione di malaccorto adulato-
re di ammiratore fanatico , se il coro delle lodi che
s'innalza a lei da tutti i poeti e letterati contempo-
ranei non giustificasse pienamente la venerazione del
Moncada.
Per lei scrivono dei sonetti, oltre il nostro, Gio-
1 V. i voli. Ili e vili dei Quinternioni , ff. 31 e 62, e le nn. al
Cantico per la morte del fratello Inico, nella nostra ediz. p. 339.
^ JoANNis Thomae Montecatini, Adernionis comitis : De vita illu-
stris Constantiae Davalos comitissa Acerrarum ( cod. x . b . 67 della
Naz. di Nap.); di cui S. Volpicella pubblicò, tradotti, due brani {Le
nozze di Costanza d' Avalos e Federico del Balzo nel sec. XV, e La
moglie esemplare) nella strenna La Sirena, 1845 e 46. — Anche a « Jo-
hanne Thomaso de Moncada conte de Aterno, maestro lusticero de
Sicilia » indirizzava le suo « Canzoni et sonetti » P. J. de Jennaro
(Canzon., p. 63 sgg. )• — Nella vita che ne scrisse Filonico Alicar-
NASSEO (sul quale v. il Volpicella, Studi di lett. stor. ed arti, Napoli,
1876, pp. 37 sgg.), poco si parla di essa. ìì^qW Elogio di Costanza La-
valo seniore del Meola (nelle note al Poemetto cit. del Filocalo, e
nel ms. xiv . g. 15-16, della Naz. di Nap., in cui anche il testamento ,
l'inventario dei libri, documenti, e le testimonianze del Sannazaro e del
Ch. sulla D'Avalos) non mancano fantasticherie e lungaggini. — « Du-
cisse Francaville, - così una lettera regia del io genn. 1307, con cui le
si dava la terra di Montescaglioso col titolo di contessa {Quinternioni,
Vili, f. 1041'), - que ob servitia grata et grandia prestita bello et pace
domui nostro et nobis per suos antecessores et per ipsam maxime in
defendendo et conservando civitatem, castrum et insulam Iscle prò statu
nostro contra Gallos parvifacientem classem et hostilem exercitum ac
si erit conductor et imperator exercitus, quod certo in muliere maius
virtutis et laudis opus esse non potest». Ed in un'altra del 1528, con-
cedendosele la tei-ra ed i passi di Pescara: « ob servitia quae grandia
prestitit , tamquam Amazone in arce Isclae » (cit. dal Broccoli , Di
V. Colonna e dei due G. di Tarsia, Napoli, 1884, p. 20 ).
CCXXXVl INTEODUZIONE
vanni Antonio de Petruciis ' , Francesco Galeota ' ,
Pietro Jacopo de Jennaro ^ , e forse anche Giovan
Francesco Caracciolo ^ Il Fontano % il Sannazaro ^,
il Galateo ', la ricordano con lode e venerazione. La
venerò Vittoria Colonna ^; la ricordò Girolamo Brito-
* Il XXVI dei Sonecti : « Ad la contessa de la Acerra chiamata Con-
stanza, confortandola ad usare constanza per haver perso lo Gran
Siniscalco»: Pietro Guevara, cognato della D'Avalos, perché aveva
sposato Isotta del Balzo ; mentre Costanza il fratello di lei , Federi-
go. I sign. Le Coultre e Schultze, editori dei Sonecti, asseriscono, in-
vece, che Costanza fosse moglie del Guevara (p. 26) !
^ « Sonecto mandato a la excellentissima Contessa de la Cerra con
imagine di Laura ». E inedito : v. la n. 3 a p. e.
3 II son. xcvn: «Al tramortir de la IH. ma contessa de la Cerra a-
presso al corpo del quondam suo patre S. conte camberlingo » {Can-
zon., p. 391).
* Il primo vs. del suo son. {Amori, f. Ixxvi r):
Contessa mia, del secol nostro onore,
ha qualche somiglianza con i due primi del son. CXI del n., diretto
anche alla D'Avalos;
Constantia ferma, al fermo polo eguale,
nel secol nostro indicio & vero segno.
5 Nel lib. 1 Baiaruìn, f. m vi: « Ad Constantiam».
6 Nella cit. Visione, cosi Alfonso d'Avalos al Sannazaro (vv. 124-1 26) :
Cosi, s' a te non grava , ancor vorrei
pregassi poi la mia bella Gostanza ,
che col pianto non turbe i piacer miei.
' Esposi::, del Pat. Noster, p. 90: « Ma a zo che intenda V. S. quanto
è cara a Dio la castità, la verginità, o vero la pudica viduità, come la
vostra — d'Isabella d'Aragona, a cui è dedicato quel libro — et le due
serenissime Joaniia et Beatrice, et di la illustre Costancia-».
8 La chiama «magnanima Costanza» r\Q\\'' Einstola al marito {Ri-
me, Firenze, 1860). Il Saltini, che curò questa ristampa, confuse poi la
Costanza, duchessa di Francavilla, con l'omonima nipote, duchessa di
Amalfi (pp. 455-56, 462).— Fabricio Luna, che pubblicò nel suo Voca-
bìdario (Napoli, J536) queir Epistola, ne! commiato Al libro, gli or-
dina di presentarsi alia « nova Pallade Colonna e la magnanima Costan-
INTRODUZIONE CCXXXVII
nio ' ; e a lei dedicarono le loro opere Giovanni Pilocalo
da Troia'^ e Giovan Berardino Fuscano^ Finalmente Sci-
pione Ammirato, dopo averla chiamata « oracolo di pru-
denza e di sapere nel suo tempo », soggiunge : « Mi rac-
contava Berardino Kota cose maravigliose del senno et
della prudenza di questa donna , onde a lei quasi una
nuova Reina Sabba molti per consiglio ricorrevano, et el-
la d' ogni cosa saviamente discorrendo mostrava trapas-
sar la capacità dell'intelletto femminile » *. Che ma-
raviglia, dunque, che il Chariteo, in un gruppo di so-
netti, inneggi alla sua bellezza, alla sua pudicizia , e
la chiami « margarita del cielo » ^ e « decima musa » ®,
e, dedicandole il cantico per la morte del fratello I-
nico, la dica addirittura una dea ^ e, altrove, l'asso-
migli alla Diana cacciatrice di Virgilio ? *
Ed anche mecenati del nostro — oltre Alfonso II, il
quale non amò e protesse nel Gareth solo l'accorto e
fedel cortigiano, come vedemmo, ma pure il dotto ed
il poeta , secondo una bella testimonianza del Gala-
za , in Ischia , le quali ivi , come la Tiburtina e Cumana Sibilla , reggon
di Cumei l'antica cima e aramaestran la nova luce d'Avali ». — Nel Car-
teggio di V. Colonna (Torino, 1889), alcune lettere della poetessa a
« Costanza d'Avalos del Balzo, duchessa (e principessa) di Franca villa »
(pp. 35, 104, 130)-
* I Cantici e i ragionamenti (Venezia, 1550), p. 181?^.
^ Il Genethlìacum Carmen in diem natalem F. fiUi Alphonsi Ava-
li & Mariae de Aragonia, opus dicatìim Constantiae Avalae Principi
Francavillae (Napoli, Sultzbach, 1531) , ripubblicato, tradotto e anno-
tato dal Meola (v. la n. a p. ccxxxi).
3 La sua Paraphrasi nel quinquagesimo psalmo (Napoli, Matteo
Canzer , 1532) è dedicata, con una lettera, « Alla illustrissima signora
Costanza d' Avalo principessa di Francavilla ».
* Ammirato, Delle famiglie nob. ìiapol. (Firenze, 1651), P. II, pp.
95-98.
5 Sonn. CXII, 6 ; Cantico in la morte di don Inico, 251.
Sonn. XCVIII , 3; Metham. II , 93.
7 V. a p. 334 della nostra ediz.
8 Pascila, VI, 113 sgg.
CCXXXVIII INTRODUZIONE
teo ' ; oltre Ferrandino , oltre i D'Avalos , — dovettero
essere il « cavaliere misser Cola d' Alagno », signore di
Eocca Bainola, nipote della celebre Lucrezia ^ ; ed il car-
dinale Lodovico d'Aragona. Al primo, « al virtuosissi-
mo Cola d' Alagno », che aveva desiderate lungamente
le rime di lui , egli dedicò con un « prologho » la prima
edizione deW Endimion, nel 1506 ^i e, nella seconda,
del 1509, diresse a lui la canzone Vili, ed il sou.
CXCIV, tutt' e due d'intonazione interamente orazia-
na; dai quali veniamo pure a sapere che sull'animo
del D' Alagno , in un periodo della sua vita , avevano
esercitato un gran fascino la libera vita dei campi e
le vergini Muse.
Al cardinale Lodovico d' Aragona, quando si trovava
in Ispagna, tra il 1499 ed il 1503, e probabilmente nel
1502 ^, il Gareth diresse il son. CLXIII, chiedendogli
notizie della sua Luna che dimorava appunto colà. V'era
dunque una intima familiarità fra il poeta ed il cardi-
nale: quanto, poi, costui amasse e proteggesse il nostro
ce lo dice Pietro Summonte in queste parole della sua
lettera Al reverendissimo & illustrissimo Signor Cardi-
nale di Aragona, che precede l'edizione principe dell'-^r-
cadia (i 504): «Movendomi anchora ad questo — a pubbli-
car V Arcadia, — non poco la auttorità del vostro Chari-
teo; dal quale non solo sono stato ad ciò con ragione in-
dutto, ma con tutte le forze de la amicitia constretto» ^.
' Nell'inedito De inutillt. lìte?-ar. (iu Papadia , 0/j. cit. , p. 23) :
« Alphonsus junior paucas habebat literas, sed doctos viros in maxi-
mam semper habuit venerationem. Pontanum , ut patrem coluit , et
summis magistratibus honoravit; Gasam, Argyropulum , Lascarim ,
Actium meum,... Summontium, Attaldos, Altilium , Chrysostomum ,
Albinum, Caritheiim, Pardum . . . dilexit, amavit, veneratus est».
5 "V. le nn. al vs. 14 della canz. Vili, e al 3 del son. CXCIV, pp. 93 ,
232 della nostra ediz.
3 Riprodotto neW Appendice, a pp. 459 sgg. della nostra ediz.
4 V. Arditi, Op. cit. (a p. Xlll , n. 2), p. 283.
^ Arcadia del Samiazaro tutta fornita et tratta eniendatissima
INTRODUZIONE CCXXXIX
IX.
Multi anni prima che fosser pubblicate per le stampe,
nel 1506' e nel 1509, le rime del Chariteo dovettero
andare- manoscritte ^ per le corti d'Italia; se in quasi
ognuna di queste , tra la fine del quattrocento ed i
primi anni del cinquecento, esse eran conosciutissime,
e il nome del poeta n'era assai celebrato.
Vincenzo Calmeta, che scriveva la Vita di Serafino
Aquilano, poco dopo la morte di lui (1500), sapeva già
dal suo originale (Napoli, S. Mayr, 1 504), f. aii r-v. — Fu forse anche suo
protettore il celebre Andrea Matteo Acquaviva, marchese diBitonto,
che il n. ricordò nel son. XCI , neWà Resj)Osta , 191 sgg. e nella Pa-
scila, VI, 98-99. É nota r erudizione sua e il favore mostrato ai ponta-
niani : egli fondò per essi fin' anche una tipografia nella propria casa , a
Porta Donnorso (v. su di lui Minieri Riccio, Biogr. -aelVItal. reale, n. i).
* Ecco l'elenco dei codd. che, a mia conoscenza, contengono rime del
n. — Il cod. Zeno, cart. del sec. XVI, col nome del Sannazaro (v. Opere
volgari, p. 434), il son. LIX: Qual anima ignorante; che è anche nel
cod. palatino 221 , f. 43 v, con l' istessa attribuzione (^I codici palatini ,
Roma, 18S6, voi. I, p. 295). — Un ms. fior, del sec. XVI, cit. a p. xcix »t.,
ha il son.: A voi sola vorria, fra rime di Lorenzo de'Medici. — Il cod.ses-
soriano 413 (bibl. Vitt. Eman. di Roma), la Resposta contro i malivo-
li; della quale ho potuto dar le varianti, in confronto col testo summon-
tiano, nelle nn. della nostra ediz., per una copia favoritamene dal sign.
A. SpineUi. — Il cod. vat. urb. 729, pei-gam. di ce. 72 (21 X 24), nei ff.
6v , 33r-u, 6ir, 63^, e^r-v contiene gli strambotti XX, XVIII, XII,
X, XXIX, VI, I; dei quali debbo una copia al prof G. Zannoni.— Final-
mente nel ms. h h. ix. 201, cart. del sec. XVI della Palat. di Parma,— i-
dentificato ora dal prof. V. Rossi {Giorn. stor. d. leti. ital. XV ,213) col
cod. del dott. Buonafede Vitali di Busseto, scritto dopo il 1493, secondo
J'Affò, che lo ricordava nella pref. sXVOrfeo del Poliziano (Venezia,
1776: cfr. Xe Sfa>i5e del Poliziano , ediz. Carducci, p. 124), — si tro-
vano, ai fF. 28r-3or, in una lezione molto simile a quella della stam-
pa napol. del 1506, i sonn. XV, XXI, LI, XXXIII, XLIX, tutti attri-
buiti a « Caritheus ». — Il son. CLXXIX , in lode del Colocci , è nel
cod. vat. 2951, f. 299, come diremo or ora.
CCXL INTRODUZIONE
che in Napoli, verso il 1492, « quelli, che oltra il la-
tino nel vulgare ottenessero il principato, erano il Sa-
nazaro, Francesco Caracciolo e Chariteo » \ Ma gli
strambotti del nostro , già prima di quel tempo , verso
il 1490, eran cantati da un gentiluomo napoletano nella
corte di quel Lodovico Sforza, al quale poi, il nostro
dirigerà, quattr'anni dopo, nel 1494, la sua celebre
canzone politica , ammonendolo a smettere quella po-
litica infernale ^ E, probabilmente in quell'istessa sua
corte, certamente prima del 29 aprile 1502, quando
era già morto, Antonio Cammelli componeva quel noto
suo sonetto , in cui , passando in rassegna tutt' i più
celebri rimatori della penisola, giudicava, forse per in-
graziarsi il padrone, « vani », cioè vuoti, i versi del-
l'aragonese Gareth; il quale, per altro, non se ne do-
vette doler molto, perché veniva a trovarsi in assai
buona compagnia. Fra i poeti che andavan così poco a
genio al pistoiese, v'era, né più né meno, che il suo
caro Sannazaro:
Actio Partenopeo culto et ignudo;
Jacomo un bel giardin con pochi frutti;
Cosmico è come lui scabroso e crudo;
Caraccio!, Chariteo, son vani tutti 3.
E l'unica nota discordante in un coro generale di
lodi al nostro poeta; ma è scusabile. Il Pistoia doveva
conoscer certamente del Chariteo solamente le rime
giovanili; riguardo alle quali il suo giudizio non é
molto severo. Ma, ammesso pure che avesse anche let-
te le migliori di lui , qual peso può avere per noi il
' Nelle Collettanee cit.
2 "V. a p. cxxxiv.
3 Nelle Riììie, eJiz. Cappelli-Ferrari (Livorno, 1884), il son. In rima
taccia ognun {p. 51) ; ma era già nelle Rime scelte de' poeti ferr. (Fer-
rara, 1713), di dove fu citato dall'anuulatore del Crescimbeni, lat. d.
volg.poes., Ili, 301.
INTRODUZIONE CCXH
giudizio di un uomo, di cui è tanto nota la mutabilità
dei gusti letterari? Basterebbe ricordar solo questo:
che il Cosmico, dichiarato, nei versi ora riferiti, poeta
scabroso e crudo , in altri venga detto « il mi|[:flior di
tutta Lombardia » e venga preposto al Bojardo ! *
Il Chariteo era ben noto anche nella vicina Mantova,
nella corte della illustre marchesana Isabella Gronza-
ga, l'ardente protettrice dei poeti, de' letterati di tutta
Italia , r innamorata di tutte le cose belle "'. Vedem-
mo già nel 1495 il nostro al fianco del marito Giovan
Francesco , quando costui venne nel Eegno ad aiutar
Eerrandino, nella guerra di riscossa contro i Francesi ^.
Or, il 15 agosto 1506, la marchesa di Cotrone^, invian-
do a Tolomeo Spagnoli, segretario dei Gonzaga, e fra-
' Nel son. Chi dice in versi (p. 52 dell' ediz. cit.):
— Chi è il miglior di tutta Lombardia?
— Cosmico padoano è bono autore, t-
— Èvvi altro? — Si, '1 conte Matteo Maria. —
' V., fra le belle monografie, che van pubblicando A. Luzio e R.
Renier, sull'illustre gentildonna, quella di quest'ultimo: Isabella d'E-
ste Gonzaga marchioness ofMantua and her artistic and literary
relations {ucW Italiana Monthly Magazine, Roma, mag.-giugno, 1888).
3 V. a pp. xxxi-xxxu.
* Nel 1495, sotto Carlo Vili, litigano, fra l'altro, per il titolo di
marchese di Cotrone, Guglielmo de Pittavia , « dominus Clarvitii » ,
figlio di Polissena Ruffa, e Antonio Centelles, figlio di Antonio e di
Enrichetta Ruffa , la vera marchesa di Cotrone , già morta. Il titolo
rimase al primo: in quell'anno, almeno, è detto « marchio Cutroni »
(BoRRELLi, Appaì^atus historicus, ms. della Naz. di Nap. , ix. e. 16,
fi'. 610-611). Di modo che, nel 1506, marchesa di Cotrone doveva es-
sere la moglie di questo Guglielmo di Pittavia, della quale io non so
il nome. Moglie di Antonio Centelles fu una figliuola di Giovann'An-
tonio del Balzo-Orsino, principe di Taranto (De Lellis, ms. della Naz.
di Nap., X . A . 8, f. 211); e, se la lite, dopo il ritorno degli Aragonesi,
fu ripresa e vinta dal Centelles, cui veramente sarebbe spettato quel
titolo, anche quest'ultima, nel 1506, poteva essere la marchesa di
Cotrone amica d'Isabella d'Este.
CCXLII INTRODUZIONE
tello del celebre Battista Mantovano, un ritratto in
marmo d'Isabella, lo accompagnava con un sonetto del
Chariteo, e con una lettera sua, in cui diceva: « Non
scrivo altramente a sua Excellentia, perché in questo
sonetto che ha far^to il Chariteo vedrà tutto quello
eh' io porria dire » \ Neil' edizione delle rime del no-
stro, uscita appunto nel principio di quell'anno, questo
sonetto non si trova; e non si troverebbe neanche nella
seconda edizione del 1509, se non si volesse riconoscerlo
in quello diretto alla cognata della marchesana, la du-
chessa d'Urbino, che si chiamava anch'essa Isabella
Elisabetta ^: il qual sonetto, con leggiere modifica-
zioni, poteva egualmente magnificare la fama e la ge-
nerosità di ognuna di queste due celeberrime dame del
rinascimento. Altrimenti, non saprei spiegare perché
il nostro avesse escluso dall'edizione del 1509 un so-
netto scritto per la Gonzaga nel 1506, quando nella
istessa stampa ne inseriva tant'altri in lode di oscuris-
sime persone.
E , verso ristesso tempo , quasi certamente dalla stes-
sa corte mantovana, il «molto magnifico et celeber-
1 Docum. dell' Arch. Gonzaga, che non dà altri particolari. Mi fu
comunicato dal Renier.
2 Son. CLXXIV. — Per il docum. cit. nella n. preced., io l'avevo
creduto diretto alla marchesana di Mantova ; spiegando però stentata-
mente il secondo di questi vv. :
Onor de l' alta Gallia cisalpina ,
de' trionfi Feltreschi alto incremento ,
de le forme del ciel vero argumento,
duchessa, alma Isabella, anzi regina.
Ma, col son., comunicati i miei dubbi al Renier, egli mi fece notare che
ne' «trionfi Feltreschi » si alludeva alle glorie de' Montelfeltro , e che
qupl componimento era certamente diretto alla duchessa d'Urbino, mo-
glie di Guidobaldo I di Moutefeltro. Quel son., per altro, mutatovi solo
il Feltreschi del secondo ed il duchessa del quarto vs. , potette ben
essere inviato anche ad Isabella d'Este.
INTliODUZIONE CCXLIII
rimo poeta», Galeotto dal Carretto, de' marchesi di
Savona, ricordava, assieme ai piìi celebri poeti fioren-
tini e settentrionali del secolo XV, il nostro e gli altri
due più noti lirici napoletani, nel suo Tempio de Amore,
pubblicatosi, poi, la prima volta a Milano nel 1518 ';
L' altro, eh' indi non longe sta in disparte,
è quel gran Sannazar, eh' à '1 primo vanto
d' egloghe , come ben mostran sue earte.
Quell'altro che gli sta al sinistro canto
è il bon Caracciol ; T altro è Chariteo,.
col metro ornato e affettuoso tanto!
L'Ai'iosto ferrarese e '1 Thimoteo
van dietro a questi.
E l'anconitano Andrea Statai, nella su.a. Aiìia^onida
stampata a Venezia nel 1503, ricordava anche lui il
nostro, fra i poeti ed i rimatori contemporanei:
Sannazzar, Caracciolo e Cariteo,
Laur de' Medici e il Politiano,
Cinthio d'Ancona e il chiaro TebalJeo,
Marco Cavai , Serafino e Fontano ^.
E da Parma, verso gli stessi anni, Enea Irpino, che
era stato anche alquanto tempo in Napoli, sui principii
del secolo XVI ^ — e l'unico, pare a me, fra quelli ri-
* Comedia nuova. . . intitolata Tempio de Amot^e (Venezia, N. Zopi-
no, 1524), f. eviit\ — V. Renier , Giorn. stor. d. lett. ital. , VI, 231
sgg. , che cita, a p. 233 n. 4, quattro esemplari della prima ediz. (Mila-
no , Giov. Antonio Legnano, il i sett. 15 18); e cfr. Riv. stor. man-
tov., I, 82.
■^ Cit. nel Giorn. stor. d. lett. ital., V, p. 249 n.: cfr. Molini, Operette
bibliog., Firenze, 1858, p. 156.
* V., su di lui, I'Affò, Memorie degli scrilt. e lett. parmig. (Parma
1761), voli. Ili, pp. 182-92 ; VI (aggiunte e correzioni del Pezzana, Par-
ma, 1827), pp. 423-5. — Il Can^-ontere dell' Irpino , ora nella Palat.di
Parma, fu messo insieme dal poeta istesso, nel 1520.
CCXLIV INTRODUZIONE
cordati, che mostri un certo buon gusto e discernimen-
to, — in un sonetto, in cui son ricordati i migliori ri-
matori suoi contemporanei , dichiarava soave e chiaro
il canto del nostro e collocava il Chariteo , come poe-
ta, subito dopo il Sannazaro:
Napol gentil nel bel tosco idioma
donar può il verde lauro al Sannazaro ,
et pò al suo Cariteo , soave e chiaro ,
cinger di mirto e d'edera la chioma *.
Finalmente Giovan Filoteo Achillini, bolognese, in-
viando nel 1504 il suo poema intitolato il V iridar io ,
stampato poi nella patria sua nel 151 3, ai principali
poeti contemporanei, diceva al suo libro:
Saluta nel Reame il Sannazaro,
Cariteo, Caracciolo e 'I Pontan darò 2.
L'edizione napoletana del 1506, fatta quasi certa-
mente sotto gli occhi del poeta, non dovette bastare al-
le richieste di tutti gli ammiratori , che al Chariteo ,
da quel che abbiam visto, non dovevan mancare nel-
l'Italia superiore; sicché gli stampatori veneti, prima
e dopo che uscisse la seconda edizione napoletana del
1 509, allestirono della pi'ima, l'un dopo l'altro, parecchie
ristampe. La prima, e più rara di esse, è in -8° piccolo
(mm. 160 X 100) senza numerazione di carte, col regi-
1 È riferito tutto dalPArFÒ, Op. cit, p. 183; in parte dal Mazzuchelli
nella cit. biografia del n., f, 565 r, con queste parole (n. 25): « Così
scrive rirpino in un sonetto riCerito da Apostolo Zeno nel Tom. IV di
dette Memorie [de' Poeti Volgari] a car. 149 t. » — « Il codice posse-
duto dalla biblioteca di Parma è forse quello stesso che nell'agosto 1716
possedeva Girolamo Lioni da Ceneda, il quale ne dava notizia allo Zeno
(cod. Marc. Ital. x, 73, e. 187 sgg. ». Comunicazione del prof. V. Rossi.
2 Questi poeti, che ricordano rimatori napoletani, eccetto l'Irpino, son
citati anche dal Renier, Giorn. star. d. lett. ital., Vili, p. 257.
INTRODUZIONE CCXLV
stvo A-E iiii, ed ha, in mezzo al recto del primo fo-
glio , questo titolo , in caratteri semigotici : Opere di
Chariteo \ stampate novamente \ Sonetti \ Canzone |
Strambotti ; e poi in fine , senza indicazione di anno
ne di città, che è certamente Venezia: Stampata per
Manfrin Bon. Lo poesie si succedono nell'istesso or-
dine della stampa originale: Al virtuosissimo cava-
liere I misser Cola dalagno proto \ go di Chariteo in lo
libro in I scripto Endimion a la luna (f. Aii r-v) ; il Li-
bro de Sonetti et Canzo \ ne di Chariteo intitulato \ En-
dimion a la luna (if. A iii r — Diii v) ; gli Strammotti di
Cariteo (if. D iiii r — D viii v) ; poi Al Illustrissimo Si-
gnor Don Alfonso Davalos Marchese de Feschara gran
Camerlengo del regno neapolitano : Prologo di Chariteo
in la canzone de Lode del serenissimo Principe di Ca-
pila (f. D vili v) ; la Canzone di Chariteo de \ lode del
Serenissimo si \ gnor principe de Capua (ff. E r — E iii r);
la Canzone di Chariteo inti \ tulata Aragonia (ff. E iii
r — E viii r) \
* Questa stampa è nella Marciana ( ax. 8. 6476 ). Di essa ebbi una
minutissima descrizione dal prof. V. Rossi; e, per mezzo del Ministero
della P. I. una copia diplomatica. — C. Castellani, prefetto di quella bi-
blioteca, la descrisse nel Bibliofilo, Vili, n. i (Di un' edis. delie poe-
sie del Cariten fatta nei primi anni del sec. XVI ignota ai bibliografi
ecc.). — Ma, oltre che dal Morelli {La libreria già raccolta. .. dal
signor M. Piaelli, Venezia, 1787, I, p. 363) e dal D'Ancona (Poesia
j)op. it., p. 133 n.), come ebbi a notare altrove (Giorn. stor. d. lett. it.,
X, 267-79; -A-rch. stor. napol. XII, 485 sgg.); essa è ricordata dal La
MoNNOYE, nelle note alla Alenagiana (ediz. cit., t. IV, p. 304), di su un
suo esemplare delle poesie minori del Fontano, sul quale, alle parole
Felix Enditnion degli endecasillabi riferiti a pp. ccvi-vii , aveva postil-
lato: « AUudit ad amatorios quosdam Charitei versiculos qui typis Man-
frini Bon. (an Bononiae, an Bononiensis?) 8'' prodierunt, non indicato
editionis anno, nec loco, inscripti Endimion à la Luna » ; dal Mazzu-
CHELLi, nella vita del n. , f. 563 v- dal Gervasio nel voi. ms. Varie
notizie di stor. lett. napol., (bibl. de' Gerolam. di Napoli): « Opere di
Chariteo | stampate novamente | Sonetti | Canzone | Strambotti | . . . .
Stampate per Manfrhi Bon » ed unite alle opere del Cornazzano ed alle
CCXLVI INTRODUZIONE
Identica, in tutto, a questa di Manfrin Ben, anche
nella forma esterna, è un'altra, pure veneta e dei
principii del sec. XVI, Jn-8°, senza indicazione di anno
e del luogo di stampa, senza numerazione di carte,
ma col registro: au-eeiiii, e con questo titolo: Opere
di Chariteo \ stampate nouamente | Sonetti \ Cannone \
Strambotti; ed in fine : Stampata per Alexandro de Bin-
doli ^
Oltre queste, a quel che affermano i bibliografi, ve ne
sono altre due, pure venete e di uno stesso stampatore,
il milanese Giorgio de' Rusconi; ma io non le ho potuto
ritrovare in nessuna delle biblioteche italiane. Portano
questo titolo: Sonetti e Cannoni del Chariteo intitolate:
Endimione a la Luna, In Venezia per Giorgio de' Ru-
sconi, 1507, in-8°; ed: Opera nova e amorosa, composta
in laude della sua amante, cioè: sonetti, canzone e stram-
hotti. Stampata per Zorzi de Rusconi, 1519, in-S" ^.
Ed è una di queste , quella che l' annotatore del
Crescimbeni dice di aver "veduta presso Pier Cate-
rino Zeno, con il titolo di « Opera nova del Chariteo
Stame del Poliziano « stampate in Veuetia per Manfriuo Bono de
Monferà: del m . cocce . mi a di xvi de marzo ». Il Gervasio l'avea ve-
duta « trai libri del Cav. Carelli » (Capasso, Op. cit., p. 42 n.). — V.
anche citata nelle Stanze del Poliziano , ediz. Carducci , p. lxxxvi ,
una stampa delle Cose vidgari delTAmbrogini fatta a Venetia, da Man-
frina Bono de Monferrà, nel 1504. Un esemplare di queste ristam-
pe del Poliziano e del Comazano e di molte altre dello stesso stam-
patore sono nella bibl. de' Gerolamini di Napoli.
• Anche nella Marciana (Misceli. 2226) ; e 1' ho potuta studiare. Con-
frontata con quella di Manfrin Bon, non offre che leggerissime varietà,
dovute certamente al tipografo. A quella « assomiglia — mi scrive il
prof. V. Rossi — anche nella forma esteriore ».
"^ V. La prima è ricordata dal Quadrio, Op. cit., II, 213; dal Maz-
zucHELLi, nella biografia del n., f. 565; dall'HAYM, jBt6/iof. italiana,
Milano, 1803, II, p. 82; dal Panzer, Annales typographici (Norim-
berga, 1800), Vili, p. 388; la seconda, dallo stesso Haym, l. e; dall'E-
BEKT, Allgeìneines bibliogr. Lexicon, Lipsia, 1821 , I, col. 312; dal
Graesse, Trésor, II, p. 122; dal Buunet, Manuel, I, coli. 1802-3.
INTRODUZIONE CCXLVII
intitolata Endimione alla Luna. In Venezia jjer Gior-
gio de liusconi , manca l'anno in 8 » ^ o è una quarta
ristampa della prima edizione napoletana ? E ve ne
sarebbe anche una sesta, se quella ricordata sola-
mente pur dal Orescimbeui, come « veduta senza fron-
tispizio e giudicata dalla qualità del carattere per di-
versa » dalla napoletana del 1506^, non fosse per av-
ventura da identificarsi con qualcuna delle cinque ora
ricordate. ^
Del volumetto napoletano del 1506 era pììi conve-
niente la ristampa e lo smercio. Di modo che, anche
dopo che nel 1 509 uscì la seconda edizione napoletana
fatta dal poeta stesso con 1' assistenza dell' amico Sum-
nionte, co' bei tipi di Sigismondo Mayr, gli editori ve-
neti continuarono a ristampare quella del 1506; lascian-
do così a questa nostra edizione il merito di riprodurre,
per la prima volta completamente e seconda 1' ultima
forma data loro dal poeta , le rime del Gareth ^ Pro-
babilmente il privilegio che andava unito all'edizione
del 150956 nel quale il Gran Capitano proibiva severa-
mente « che per x. anni nel Regno tal opera si potesse
stampare, né stampata portarsi da altre parti sotto la
pena in esso contenuta » *, faceva prevedere che nes-
8U!io esemplare se ne sarebbe potuto vendere nel Na-
poletano.
Solamente più tardi, nel 1550, un altro stampatore
veneto toglieva dall'edizione napoletana del 1509, quasi
1 Op. cit., voi. ni, p. 301. — È ricordata anche dal Gobbi nella Scelta
di Sonetti e Camoni, cit. più appresso, 3* ediz., p. 2, e dal Mazzu-
CHELLi, nella biogr. del n., f. 565.
2 Op. cit., voi. Ili, p. 301.
3 II solo Panzbr, Op- cit., p. 430 ricorda una ristampa napoletana
del 1519 dell'ediz. summontiana; ma egli certamente la scambiò con
quella del Rusconi dell' istess' anno , che non cita; tanto più ch'egli
si riferisce all' Haym, il quale registra quest'ultima, ma non la sup-
posta napoletana del 15 19.
* V. a p. LX.
CCXLVm INTRODUZIONE
tutte le poesie religiose e morali: vale a dire le sei
canzoni per la « natività » della Vergine e 1' altra per
la «natività» di Cristo, quella «in laude dell' humi-
lità», quasi tutta la Pascha, eccetto l'ultimo canto,
il sesto, d'argomento prettamente istorico, e il cantico
« del dispregio del mondo », e li ristampava , con qual-
che leggiera modificazione qua e là, nel Libro sexondo
delle rime spirituali, parte non più stampate, parte
novamente da dimrsi aiitori raccolte '.
Ma, molto prima ancora che la fama del poeta si
spandesse per tutta Italia, prima ancora che le sue
poesie fosser pubblicate a Napoli e ristampate a Ve-
nezia; già fin dal 1490, — quando il poeta era celebre
e festeggiato solamente nella corte aragonese , — la fa-
cilità, la leggiadria, l'affetto delle sue rime amorose
gli avevano acquistato un bel numero d' imitatori.
Il primo, in ordine di tempo, è quel Serafino Cimi-
nello Cimino, com'ei preferì sottoscriversi, piìi noto
col nome che gli venne dalla patria ^. Il quale , accor-
tosi forse di non poter far mostra delle sue poesie né
d'originalità ne di una fisonomia propria ma solo di una
gran potenza di assimilazione e d'imitazione; si do-
vette accontentare di servirsi di concetti e pensieri al-
trui, ch'egli, gonfiando ed esagerando, popolarizzava, il-
leggiadriva, cantandoli con la sua bella voce, accom-
pagnandoli con la musica, e adattandosi sempre al gu-
sto della gente di mondo, per la quale scriveva e dalla
quale egli voleva solamente essere apprezzato. E come
1 Nella raccoltina delle Rime Spirituali stampata In Venetia al se-
fjno della Speranza, nel 1550. I componimenti del n. alle ce. 105 r-i 17
x\ 206W-227U. Innanzi al cant. II della Pasc/ia è aggiunta la postilla:
« nel qual l'angelo racconta anchora il successo della resurrettione di
Christo ». Le modificazioni alla stampa del 1509 son di poco conto.
2 V. E. Casti, La vera genealogia di S. Aquilano (nel Boll, del-
la star. patr. A, L. Antinori negli Abruzzi, 1889, 1, pp. 69 sgg.)-
INTKODUZIONE CCXLIX
dal Sannazaro gli venne l' itlea di scrivere le sue eglo-
ghe allegoriche, e dal Tebaldeo apprese l'arte del tor-
nire il sonetto; così dal Chariteo quella di comporre gli
strambotti. E poiché da quest'ultima gli venne maggior
fama ed il titolo di primo stramhottaio del quattrocen-
to ', è al nostro specialmente ch'egli deve quella glo-
ria che gli tributarono , vivo e morto , i contemporanei.
Adolescente, dai dodici a' quindici anni, tra il 1478
e rSi, Serafino era stato a Napoli, paggio nella corte
del giovine conte di Potenza, Antonio di Guevara; la
cui casa era tenuta in governo da un Paolo de Legi-
stis, fratello della madre di Serafino ■; ma, quasi cer-
tamente, non vi aveva conosciuto nessuno di que' poeti
napoletani, dei quali, molti anni dopo, a detta dell'a-
mico Calmeta, egli, cantando e improvvisando, doveva
formare l' ammirazione.
Vi aveva solamente appresa la musica « sotto la e-
ruditione d'uno Gulielmo Fiammengo, in quello tempo
i^Iusico famosissimo». Xel 81 tornò in patria, e, per
« tre anni», si détte «ad imparare sonetti, canzoni e
triomphi dil Petrarcha», che cantava, accompagnandoli
maravigliosamente col liuto. Poi, venutosene a Koma
a tentar la fortuna, trovò accoglienza specialmente
nella corte del cardinale Ascanio Sforza , col quale ,
verso il 1490, si recò in Lombardia. «Essendo Sera-
phino in Milano, — dice il Calmeta, — prese amicicia
con un notabile gentilhomo napolitano, chiamato An-
drea Coscia ', dil duca Ludovico Sforza soldato, il
' D'Ancona, La poesia pop. ital., p. 134.
- V. Casti, Op. cit., p. óg. — In seguito, per la vita di Serafino,
seguo e cito sempre dalla biografia del Calmeta nelle Collettanee
citate.
^ Di questo tempo, trovo ricordato un « Andrea Coscia, figliolo di
Giovanni e di Girolama d'Angelo del Seggio di Porto» (Aldimari,
Historia genealogica della famiglia Carafa, Napoli, 1691, II, 231).
Aveva sposato Isabella Carata , figliuola di Galeotto e di Vittoria
CCL OTKODUZIONE
quale molto soavemente cantava nel liuto; e, tra li al-
tri modi , una sonata , ne la quale dolcemente stram-
moti di Charitheo esprimeva. [Per] la qual cosa non solo
Serapbino il modo li tolse, più limatioue aggiungen-
doli; ma a comporre strammoti con tanto ardore et
assiduità se dede, che de conseguire gran fama in quello
stile hebbe somma felicitade ». I primi « strammotti »
li compose in Milano stesso: « a compiacentia » « d' u-
na molto soave cantatrice et aggratiata », « donna di
mediocre lionestà, chiamata Laura, f emina » di Pietro
da Birago, « gentilhomo milanese », della quale s' era
innamorato. Tornato a Eoma col cardinale , « non solo
parve novo, ma per haver portato novo modo di can-
tare, e li strammoti in più altezza sublimati, dede di
sé ... non piccola ammiratione ». E così, « con l'barmo-
nia di soa Musica e con l' argutia di suoi strammoti
spesse volte » interrompeva « li ardui certami » de' let-
terati dell'Accademia, che si riuniva in casa di Paolo
Cortese '; i quali si misero anch'essi con «fraterna
emulatiune » a comporre strambotti; ma e questi e
Bernardo Accolti, detto V Unico Aretino, il itìii ceìehve
Caatelmo ( v. il son. CC del n. , e le nn. ). Il De Lellis ( ms. della
Naz. di Nap., x . a . 8, f. 227 v) nomina, come tìglio di Pietro Coscia,
quinto signore di Procida , un Andrea, paggio del duca di Calabria,
e poi monaco olivetano. Questo solo conosce Cosmo Enicciano nel
suo Tratt. ist. geneal. della fam. Coscia (Naz. di Nap., ms. x . a . 34,
f. 136). Non mi pare clie possa identificarsi col personaggio ricordato
dal Calmela , queir Andrea Coscia che sposò Costanza , figliuola di
Giovan Francesco, primo marchese d'Arena, e di Laura Carafa (Am-
mirato, Fam. nob. nap., II, p. 189). — Il sign. L. Fioravanti, S. Aqui-
lano: sua vita e sue poesie (Teramo, 1888;, p. 14 n. i, afferma che
un son. di A. Coscia è nelle Collettanee; ma il suo nome non com-
parisce aS'atto tra i rimatori di quella raccolta, che ho ora sott' occhio.
• Il quale veramente attribuiva tutto il merito di lui alla perizia
nella musica (De cardinalatu , II, f. lxxiv: cfr. anche Tiraboschi ,
Op. cit. , voi., VI, p. 1244). — Alcuni strambotti di Paolo Cortese
nel Compendio de cose nobile et delectevole de Vincenzo Cahneta
et de altri Auctori (Venezia, 1514), fi". 3615, 37r-u; ed altrove.
INTRODUZIONE CCLI
dei poeti volgari allora in lioma, erano sempre supe-
rati da Serafino: anzi «se strammoto novo si sentiva,
anchora die d'altro auttore fusse stato composto, a
Seraphino se attribuiva ». Cresciuta in tal modo la sua
fama, recatosi nel 1491 in Aquila, per «rivedere la pa-
tria e li parenti soi » , fu chiamato da Ferrante, principe
di Capua, — che « governava in quelli tempi lo Abruz-
zo ». e che si dilettava anche lui di scriver strambotti e
di dare loro il suono, — nella sua corte. Ivi ebbe certa-
mente l'occasione di conoscere e di essere apprezzato da'
poeti napoletani e specialmente dal Sannazaro, da Giov.
Francesco Caracciolo e dal Chariteo, i quali, fin' allora,
avea dovuto conoscere solamente nelle loro opere. « Li
quali, — continua il Calmeta, esagerando un poco codesta
ammirazione — vedendo che Seraphino non sol le orec-
chie del vulgo ma anchora quelle de li dotti con suoi
poemi demulciva; poi, da l'altro canto, parendoli forse
che questi poemi così bene in iscritto non restassero
alla censura, con diverse determinationi di soe composi-
tioni facevano ragionamento; tutta via però con be-
nigno giudicio più presto laudando il beneficio de la
Natura che la industria di lo accidente ». Se Serafino
avesse potuto trattenersi più lungo tempo a Napoli,
probabilmente da improvvisatore si sarebbe trasforma-
to in poeta d'arte; ma la spedizione di Carlo Vili lo
spinse nuovamente nelle corti, dove, per sua sfortuna,
non ebbe ad incontrarsi più in un Saunazzaro, in un
Chariteo, che, apprendendogli, col proprio esempio, a
disprezzare il facile favor popolare, l'avessero indiriz-
zato ad una gloria più duratura.
« Fu necessario a Ferdinando, per opponerse allo e-
xercito di Carlo Re di Francia, che alla impresa dil Re-
gno di Napoli era desceso, venire in Romagna con flo-
rida militia, e seco menato Seraphino, in Urbino per
molti mesi, ad instantia di Elisabeth da Gonzaga dil
Duca di Urbino consorte, li permisse fare residentia ».
CCLII INTRODUZIONE
Ma nelLa corte della illustre duchessa e della bella e
saggia Emilia Pia erano assai in pregio « li amorosi so-
netti » del Tebaldeo : il maggior poeta della corte man-
tovana d'Isabella d'Este ^; con la quale, e perche-co-
gnata e per affinità di gusti e di tendenze, era strettissi-
mamente legata Elisabetta d'Urbino. La smania degli
strambotti, durata in Serafino quattro anni (1490-94),
si cambiò allora in ismania pe' « sonetti amorosi » , ed
egli si détte, durante gli altri sei anni che visse, « tutto
ad emulare al Thebaldeo, ingenioso poeta ... ; fusse
che meglio quello stile per la facilità li paresse da po-
tere conseguire ; vero parendoli che ad incendere li
teneri petti de leggiadre giovenette più fusse accommo-
dato. Nel quale fece tale profitto che, non meno che in
li strammoti, hebbe nome e celebratione ».
Ma, anche senza la testimonianza del Calmeta , l'in-
fluenza che ebbero le rime del nostro su quelle dell'A-
quilano, si manifesta da sé a chiunque percorra, an-
che frettolosamente, i centosessantanove sonetti ed i cin-
quecentocinquantuno strambotti , che si trovano in una
delle ristampe venete delle Opere dell'Aquilano ^.
E prima d'ogni altro, il son. xcviii:
Hor son queste centrate quiete e sole,
stampato ivi come cosa di Serafino, non è, né piìi né me-
no, mutatovi solamente in ciascun Vognmi del secondo e
terzo verso, che uno dei più belli sonetti del Chariteo! ^
' a Ei'a quella corte [di Mantova] - dice il Calmeta, nella cit. Vita
di S. Aqidl.-às\ Thebaldeo (che '1 supprerao calme tenneva), Tlii-
motheo , Gualtiero , Calleoto dal Caretto , e molti altri nobili spiriti
frequentata ».
^ Non ho potuto vedere l'edizione delie Rime fatta dal Colocci (v.
la n. 4 p. xxxvin). Cito, invece, da quest'altra: Opere ìiuovamente
ricorrette t& con diligentia impresse ecc. ( Venezia , per Nicolo de
Bascarini, 1548). La bibl. de'Gerol. di Nap. ne ha una di Manfredo di
Monferrà (1502).
3 È il son. XL, a p. 48 della nostra ediz.
INTRODUZIONE CCLIII
E , senza nessuna variante , è ristampato , poi , come
CCCXXX^ strambotto di Serafino, il sesto del nostro; il
cui nono strambotto è poco men che trascritto tutto nel
cxxiii° del secondo:
Tu dormi, io veglio, e vo perdendo i passi;
ed imitato nel precedente a questo \ Il son. XXXIX,
riferito da noi piìi avauti ", com'uno dei piìi belli del
nostro:
Ecco la notte: il ciel scintilla e splende,
ha dato origine a due strambotti di Serafino: al cxix° :
Ecco la notte, il sol soi raggi asconde,
lassando agli animai quiete e pace;
ed al seguente:
Ecco la notte, il ciel tutto se adorna
di vaghe stelle 3.
Finalmente, quando morì Ferrante II , Serafino scrisse
per il suo antico signore un sonetto che comincia :
' Str. cxxii:
Ahimé, tu dormi, & io con alta voce.
' A p, cxiv-cxv.
3 Anche il Sannazaro, nelPegl. ii deWAt^cadia (ediz. cit., p. 31)
Ecco la notte , e '1 ciel tutto s' imbruna
Ma sol questo verso ha di comune con gii stramb. di Serafino e col
son. De Jennaro, cit. a p. xcix, n. 1 ; il resto, cosi nel primo che nel
secondo, deriva, con tutta probabilità, dal son. del n.
CCLIV INTEODUZIONE
Ahi morte ingorda e pronta ai nostri danni I
Ferrando hai spento pur nel più bel fiore:
Novo Canaillo al gallico furore-
Ora , anche quest'ultimo verso è un ricordo di due al-
tri del Chariteo, pure alludenti a Ferrandino:
Che dal cielo è disceso altro Camillo,
che domarà dei Galli il re superbo,..
Egli è pur dio, che con giustissim'ira
ha posto a terra il barbaro furore i.'
L'ultimo verso, poi, del son, xcv di Serafino:
Eterno danno per eterna gloria,
è rubato doppiamente al nostro, perché esso si trova,
anche com'ultimo verso, in due souetti deìVEndimione'l
Alla fortuna ch'ebbe il son. CV del Chariteo:
Voi, donna, ed io per segni manifesti,
in cui vien predetta la gioia che godrà, pur nell'infer-
no, il poeta innamorato, potendo eternameute contem-
plare il volto della sua donna ^; accennò in gran parte il
D'Ancona, mostrando quella stessa immaginazione in un
sonetto del Di Costanzo, « evidentemente ispirato» a
quello del nostro; in uno di Giovan Battista Marino,
che, pur rinforzando le antitesi, s'era pur ricordato dei
« concettuzzi » del Grareth ; in un terzo di Francesco de
1 Sonn. CXLVIII, lo-ii, CLIII, 7-8.
'^ Sonn. CXL , CXLI. — Negli strambotti dell'Aquilano si notano
specialmente reminiscenze delle rime del n. Cfr. , per esempio, i nn.
XXXV, XLui, Lxxxii, xc-xci, CLXxix con il son. CCII, 1-2, con la canz.
XIX, 1-2, con la ball. V, 8-10, con lo str. V e la canz. giov. II, 35-
41 del n.; ecc. ecc.
3 Questo son. è riferito per intero a p. evi.
INTRODUZIONE CCLV
Lemene, che, « con crescente leziosaggine », aveva imi-
tato anche quel sonetto; in un quarto di Eustachio
Manfredi, « pur sullo stesso andamento » '. Se non che,
prima del D'Ancona, la storia di questo sonetto, ormai
famoso, era già stata fatta da qualcuno dei nostri vec-
chi eruditi. Infatti il Crescimbeai, parlando in generale
della poesia del nostro aveva notato: « Egli nelle inven-
zioni grandemente può servire por quelli, che oggi com-
pongono Sonetti sul gusto delle Odi del greco Auacreoa-
te; e noi giudichiamo, che servisse altresì ad Angelo
di Costanzo, e prima a Galeazzo di Tarsia, per com-
porre sulla maniera, che essi con tanta lor lode usa-
rono; imperciocché, quanto al Costanzo, tra le altre
cose, egli dal Sonetto del Cariteo, che diamo per sag-
gio, prese senza dubbio il motivo di quel suo, che in-
comincia: Foi che Voi, S Io varcate avremo l'onde » '.
Da queste parole appunto prese le mosse il padre Ireneo
Affò, quando, nel suo Dizionario precettivo, critico ed
istorico della poesia volgare, all'articolo: Imitazione di
PENSIERO e di STILE ^ voUe fare alcune osservazioni sul-
r imitazione che del sonetto del nostro avean fatto,
oltre il Brocardo, non ricordato dal D'Ancona ^, il Di
Costanzo, il De Lemene, il Manfredi. « Il Crescimbeni
— dice l'Affò — riporta un sonetto del Cariteo, autor
del secolo XV": lo stesso io lo {sic) trovo nella Raccolta
del Giolito^ in molti luoghi variato, e come ben par-
mi , corretto , ma sotto il nome di Antonio Brocardo ;
onde io non dubito punto, che questo sonetto fosse pia-
1 Seceut., pp. 186-188, ed ivi, in n. , alcuni vv. dei Fiiicaja, con I' i-
stesso pensiero.
2 Istoria d. volg. poesia, IH, p. 301.
3 Cito dall' ediz. originale di Parma, Carmignani, 1777, pp. 211-214.
* Invece dal Gian, Un decennio della vita di M. P. Bembo, To-
rino, 1885, pp. 178-179.
•"• « Lib. 2. pag. 587, ediz del 1563 » (Affò). — Ma era stato tolto
dalla stampa, che ora citeremo, delle rime del Brocardo (1538).
CCLVI INTRODUZIONE
ciuto al Brocardo; che però lo correggesse, e che trovato
di sua mano scritto , fosse dal Giolito per cosa di lui
pubblicato. Sia come esser si voglia, io lo riferirò siccome
leggesi presso il Giolito, lasciando che altri ne vegga
la varietà presso del Crescimbeni. Indi vedremo come
fosse imitato dal Lemene :
Voi, donna, et io, per segni manifesti
Andremo {il veggo) a V infei'nal tormento;
voi per orgoglio, io per troppo ardimento ,
che di mirar osai cose celesti.
Ma perché gli occhi miei vi son molesti ,
voi più martir havrete , io più contento ,
ch'altra che veder voi gioia non sento;
et lieto sol sarò fra tanti mesti.
ch'essendo voi presente a gli occhi miei,
vedrò iìi mezzo a T inferno il paradiso,
che non gloria maggiore altrove havrei:
et se dal vostro sol non son diviso,
» non mi potran far forza i stigli Dei,
se non ini tolgaìx la virtù del viso '.
Il Lemene adunque volendo imitare non solo, ma ritrarre
al vivo questo pensiero, dovette primieramente conside-
rare che tutto ciò, che si suppone dall'amante dover av-
venir neir Inferno, è contrario all' universal persuasione,
che ci assicura non potervi essere gaudio alcuno; laonde
pensò, che tali stravaganze sarebbero state meglio so-
gnate, che ideate per possibili, giaccbè il sogno può con-
giuugere, come sovente accade, idee si disparate. Secon-
do rifletter dovette, che l'ultimo terzetto non viene a dir
nulla di nuovo, e che par fatto più per compir il numero
de' quattordici versi, che per altro : indi mirò, che pote-
vasi dare al pensiero disposizione migliore, ed aria an-
cor più maravigliosa: però scrisse il seguente:
' Piuttosto che secondo la lezione della raccolta del Giolito , 1' ho
dato secondo l'ediz. delle rime del Brocardo, cit. nella n. 2 a p. ccLvm,
stampando in corsivo solo le poche modificazioni che il rimatore ve-
neto fece al son. del n.
INTRODUZIONE CCLVII
Stravaganza d'un sogno! A me parea
la mia donna a lo 'nferno , e seco anch' io ,
ove Giustizia ambo condotti avea
per castigare il suo peccato e '1 mio.
Temerario io peccai: che ad una Dea
d'alzarsi, amando, il mio pensiero ardio;
ella cruda peccò, che non dovea
chiuder in sen si bello un cor si rio.
Ma ne l'inferno a pena esser m'avviso,
che mi parve ciingiarsi in un momento,
o Donna, il nostro Inferno in Paradiso.
Tu lieta mi parevi, ed io contento:
io perchè rimirava il tuo bel viso,
tu perchè rimiravi il mio tormento '.
Non parmi però che questo sonetto sia esente dai suoi
difetti, peccando in qualche modo di paralogismo nella
chiusa; ma il fatto è, che piace più dell'altro. Corrispon-
de in parte al detto pensiero un bel sonetto d'Angiolo di
Costanzo, da cui certo prese anco idea il Lemene nel
comporre il sovraccennato ; ma tende a diverso fine ,
ed è molto più nobile. Eccolo:
Poi che voi ed io varcate avremo V onde
de l'atra Stige, e sarem fuor di spene
dannati ad abitar l'ardenti arene
de le valli d'Inferno ime e profonde;
io spererei ch'assai dolci e gioconde
mi farebbe i tormenti e l'aspre pene
il veder vostre luci alme e serene,
che superbia e disdegno or mi nasconde;
e voi mirando il mio mal senza pare,
temprereste il dolor de' martir vostri
con l'intenso piacer del mio penare.
Ma temo, ohimè, ch'essendo i falli nostri,
per poco il vostro , il mio per troppo amare ,
le pene uguali fian , diversi i chiostri 2.
* Dio: sonetti ed inni, con l'aggiunta d'altre poesie, Bologna,
Longhi , s. a., p. 427.
' Secondo l'ediz. di A. Gallo: Poesie ital. e lat. e prose di A. Dt
Costanzo, Palermo, 1843; in cui questo son. ha il n. lxxxii.
XXXUI
CCLVllI INTRODUZIONE
L' ultimo verso intender si deve in questo senso , che
essendo la donna rea di poco amore, e il poeta di
troppo, non avranno nell'inferno la medesima stanza,
e saranno imprigionati in diverse bolge , onde non veg-
gendosi, non potranno godere di questa ideata mutua
consolazione. Pure Eustachio Manfredi ... ». Ma il sonetto
di costui non ha nulla che fare con quello del nostro ,
e deriva evidentemente da quello del Di Costanzo \
Riman, dunque, assodato che il sonetto del Chari-
teo piacque al noto ribeile alla dittatura bembiana,
ad Antonio Brocardo, che, mutatovi solo due versi e
qualche parola qua e là, lo trascrisse fra le sue rime,
con le quali fu pubblicato nel 153S, dopo l' infelice sua
morte, da un Antonio Pellegrini ^; piacque ad Angiolo
di Costanzo , il compagno giovinetto , durante la peste
del 1527, nel villaggio di Somma, di due vecchi ed
intimi amici del nostro: Jacobo Sannazaro e Francesco
Puderico; piacque a Giovan Battista Marino che nel
seguente sonetto, sfuggito all'Affò, non al D'Ancona,
pare che, più che all'imitazione del Di Costanzo, s'ispi-
rasse al sonetto del nostro:
Donna, siara rei di morte. Errasti, errai:
di perdon non son degni i nostri errori,
tu ch'aventasti in me sì fieri ardori ,
io, che le fiamme a si bel sol furai.
Io , eh' una fera rigida adorai ,
tu, che fosti sord'aspe a' miei dolori,
tu ne r ire ostinata , io ne gli amori ,
tu pur troppo sdegnasti , io troppo amai.
* Benché il Manfredi , come principal raccoglitore della Scelta di
sonetti e canz. cosi detta del Gobbi, dovesse certamente conoscere il
son. del n., ivi contenuto (v. a p. cclxvii e n. i).
5 Sul Brocardo v., fra gli altri, il Mazzuchelli, Scrittori, II, iv ,
2117-20; Virgili, F. Berni, Firenze, 1881, pp. 229-238; Gian, De-
cennio, I. cit. — Le Rime di AI. Antonio Brocardo, insieme a quelle
di N. Delfino e del Molza, furono, a cura del suddetto A. Pellegrini ,
stampate in Venetia, l' anno m . d . xxxviii, il mese di dccenibre.
INTRODUZIONE CCLIX
Hor la pena l:iggiù nel cieco Averno
pari al fallo n'aspetta. Arderà poi
ciii visse in foco, in vivo foco eterno.
Quivi (s'Amor fia giusto) ambeduo noi
a l'incendio dannali , havrem l'Inferno:
tu nel mio core , et io negli occhi tuoi. *
E, quanto al sonetto del De Lemene, benché egli,
per nascondere certo la origine sua , lo battezzi per
« Parafrasi di una Canzone siciliana »; si può esser piìi
in dubbio che non derivi da quello del Chariteo, quando
vediain nelle due quartine del primo parafrasata la pri-
ma del nostro , e , nelle terzine , ripetuto , oltre che il
concetto degli altri dieci versi, due delle desinenze ri-
manti {-ento, -iso), e quattro intere parole-rime (pa-
radiso, contento, viso, tormento) dell'originale?
Né la storia di questo sonetto finisce qui. Esso ol-
trepassò anche le Alpi. Filippo Desportes , l'abate pro-
fumato e cortigiano , il rubacchiatore dei sonetti del
Petrarca, del Sannazaro , del Di Costanzo , del Molza
e d' altri minori petrarchisti del nastro cinquecento , si
compiacque anch' egli di questo sonetto delGareth,lo
tradusse quasi con ristesse parole, e l'inserì sotto il
n." LXi, nel primo libro d'uno de' suoi canzonieri inti-
tolato Diane ^
* Nella Parte terza delle Rime (Venezia, 1674), p. 3.
' Oeuvres de Philippe Desportes avec iene introdiiction et des no-
tes par Alfkeì) MicHiELS, Parigi, 1838. — É nota la risposta del Des-
portes air anonimo autore delle Recontres des Muses de France et
d'Italie (Lione, 1604), in cui eran pubblicati quarantatre de' suoi so-
netti con a fianco i modelli italiani: « qu' il avoit pris aux Italiens
plus qu'on ne disoit, et que, si l'auteur l'avoit consulte, il lui auroit
fourni de bons mémoires ». Di fatti , fra le altre imitazioni sfuggite
all'autore delle Rencontres, ad Enrico Stefano {Précellence du lang .
frangois, pp. 90 sgg.), al Pasquier {Des recherches de la France, Pa-
rigi, 1623, pp. 632-633), al Michiels, e che noterò altrove, si trova
anche il son. del n. Cfr. pure il Rathery, In/luence de Vltalie sur les
lettres frang., Parigi, 1853, pp. 11 2-1 13.
CCLX mTRODUZIONK
Madame, apres la mort, qui les beautez efface ,
je tien que nous irons à l'infernal tourment:
vous, pour votre rigueur; moy, pour trop follement
avoir creu moa desir et suivi son audace.
Mais, pourveu que Minos nous loge en mesme place,
vostre mal pres de moy sera plus vehement,
cu j'auray, vous voyant, tant de contentement,
que je ne sentiray douleur, flame ny giace.
Car mon ame, ravie ea l'objet de vos yeux,
au milieu des enfers establira les cieux,
de la gioire eterneile abondamment pourveuè ;
et quand tous les damnez se voudront émouvoir
pour empescher ma gioire, ils n'auront le pouvoir,
pourveu qu'estant là bas je ne perde la veuè *.
E quell'immaginazione dovette piacere non poco al poe-
ta ed ai suoi lettori , perché la troviamo di bel nuovo
nel secondo libro dell' istessa Diane, nel sonetto che ha
il n.° XLViii; se non che in esso si traduce letteralmente,
non il componimento del Chariteo, ma l'imitazione fat-
tane dal Di Costanze»: si rileva fin dal primo verso:
Quand nous aurous passe l'infernal riviere,
vous et moy . . • . ^
1 II Desportes ebbe dinanzi, non il testo originale del Ch. , ma la
trascrizione del Brocardo ; pur tuttavia, dopo un confronto dei sonn.
XLvi del I libro della Diane e del xxxvi del II con i sonn. XCV ,
LXXVIII del n., si potrebbe asserire che il Desportes conoscesse le rime
del Chariteo.
">■ 11 Mazzuchelli, nella cit. biografia del n. f. 566 r, dice che: « al-
cuni sonetti del Cariteo al Sannazzaro, e di questo al Cariteo trovansi
tradotti in Francese da Caterina di Tradonnet [corr. Radonnet; e v.
Noiw. biogr. génér., Parigi, Didot , 1857, voi. Ili, coli. 904-905J di
Poitiers Dama Des Roches , e stampati con altre sue opere in prosa
e in verso: A Paris chez Abel VAngelier 1579, in 4 ». Se non che,
nell'esemplare di queir ediz., che si conserva nella bibl. naz. di Pa-
rigi , come m' avverte gentilmente il sign. Camillo Couderc , si trova
solo un Dialogue de Sincero et de Charite (p. 92). Maddalena e Ca-
terina des Roches, madre e figlia, dotte e gentili poetesse, vissute a
Poitiers nella seconda metà del cinquecento, avevan letto certamente,
INTliODUZIONE CCLXI
Gian Vincenzo Meola, in que' suoi appunti sulle ri-
me del nostro, a proposito della canzone II, scrisse ^:
« Pare che l'Epicuro pigliasse dal Cariteo e proprio
dalla prima {l. seconda) di lui canzone: «Errando sol
per antri horrendi e foschi », togliesse (sic) il pensiero
di assimigliare alle favolose pene d' inferno quelle che
soffrono gli amanti. Ma quanto va innanzi di leggiadria
e modestia il Cariteo! »
Se non che il Meola non s'era accorto che quell'im-
maginazione si trovava anche nella canz. xv del San-
nazaro , e che questa, come abbiam mostrato piìi avan-
ti ', era stata imitata dal nostro nella sua seconda can-
zone. Ora chi de' due tenue presente Marc' Antonio Epi-
curo, quando, nella Cecaria, fa che « il vecchio narri
la beltà della sua donna, assomigliando le sue pene alle
pene dell'inferno»? Tutt'e due, pare a me; sebbene
assai più il Sannazaro ^ Che se dalla seconda, terza
come tutti i loro contemporanei, i poeti italiani, e, fra essi, il San-
nazaro ed il Chariteo. Ai due interlocutori del loro dialogo, scritto,
come r Arcadia , in prosa ed in verso , alludono anche nelle terzine
di codesto son. {Les poètes frangais, recueil des chefs-d'oeuvres, Pa-
rigi, 1861, II, p. 201):
Hostesse des rochers, belle et gentille Echo,
qui avez rechanté Charite et Sincero,
dedans ce beau jardin, si quelqu'un vous incite,
o nymphe, pour vous faire et chanter et parler;
resonnez, s'il vous plaist, ces doux noms dedans Fair:
Charite et Sincero, Sincero et Charite.
« Op. cit., p. 114.
2 A pp. e e sgg.
3 Oltre l'Epicuro, che ripetette ristesse motivo nel son.: Ha dime
fatto un nuovo inferno atnore (Drammi pastorali, ediz. Palmarini,
Bologna, 1887, I, pp. 184-183); imitò largamente la canz. del Sanna-
zaro, il Britonio nella canz.: Si vago io son {Opera volg. cit. nella
n. 2 a p. ccLXiu, ff. 161 r sgg.). Se ne ricordarono , pare , Galeazzo
DI Tarsia, nella canz, 11, strofa quinta (Canzon., ediz. cit., p. 19);
BERN.A.RDO Tasso, nel son.: Tantalo son (presso il Torraca, Manna-
CCLXII INTRODUZIONE
e settima stanza della canzone di quest'ultimo l'Epi-
curo derivò, fra l'altre, evidentemeute , la nona, la do-
dicesima e la seguente; in questi altri versi, invece:
Nel bel giardin del petto '1 rivo e' pomi
tanto mirar mi piacque , . .
poi s' io stendea la bocca o pur la mano
per saziar la fame o sete ardente ,
ratto fuggiano l'onde e i frutti insieme.
mia fallace speme !
E pur r alma dolente,
per più duol sempre in vano. . . .
Quando poi giunsi a la serena fronte,
da l' aria sua pareami a ciascun passo
già già cadérmi sulla testa un sasso.
E mai d'una tal selce '1 fier spavento
o lungi presso stia
dame non si divide ;
né cade né m'ancide,
acciò che col timor cresca '1 tormento.
Or qual rifa è la mia!
"Vedermi minacciare (ahi cruda sorte!)
sempre riceva al capo, al cor la morte? •
non si può non sentir l'eco in codesti del nostro:
Ne l'acque fresche , liete , dolci e chiare
ardo digiuno, infermo e sitibondo,
e bagnar non mi posso i labri ardenti.
Ognor mi vien, per più mi tormentare,
un pomo suavissimo e giocondo
iuanzi a gli occhi cupidi et intenti ;
le, II, p. 223); Gaspara Stampa, nel madr. ix: Le pene dell'infer-
no {Rime, Firenze, 1877, p. 345); G. B. Marino, nel son. Che l'izio
là nel tormentoso inferno {Rime, ediz. cit., P. IH, p. 18); il Despor-
TES nel son. lvui del lib. II della sua Diane (v. la n. 2 a p. cclix) ;
ecc. ecc.
' Secondo la lezione del cod. xiii . d . 43 della Naz. di Napoli , piìl
completo e più corretto dell' ediz. datane dal Palmarini (Op. cif. .vol-
li, pp. 56 sgg.). — Ho dato in corsivo quelle parole che si riscontrano
anche nei vv. del Chariteo.
1
INTRODUZIONE CCLXIII
ma quando i famolenti
sensi distendon la furente mano
con dubbia speme e con certo desio ,
misero 1, allor ved' io
ìa speranza e 'i desire andare in vano. . .
Ovunque io mi rivolga, ad ciascun passo
mi trovo pien di paventoso orrore,
di gelato sospetto e van desire.
Ne l'aere pende per mia morte un sasso,
che minaccia ruina a tutte l'ore ,
ond' io tremo morendo in tal martire.
E quando di morire
cresce la speme a V alma sbigottita,
quel sasso, che nel capo ognor mi viene,
ne l'aere si retiene,
né cade, né si ferma. dura vita! '
Del resto il Dialogo dei due Ciocia fa scritto dall'E-
picuro verso il 1520; quando, non essendo ancor com-
parse pubblicate le rime del Sannazaro, del Di Co-
stanzo , dell' Epicuro istesso , del Tansillo , del Rota ,
quelle del nostro andavano ancora per le mani di tutti;
quando Girolamo Britonio, che nella sua Opera volgare
e negli altri suoi versi si ricordò spesso delle Opere vol-
gari del Chariteo, rimpiangendo i lieti tempi della corte
aragonese e i canti che vi risonavano, scriveva:
Ben far le stelle al ver contrarie e false
sotto le quai cantò mia pura Euterpe,
che '1 mal sormonta e 'I ben per terra hor serpe ,
oh' a mortai sol di quello un tempo calse.
Allhor tua sacra lira Apollo valse
mentre rifulse l'Aragonea sterpe,
la cui fama non fia che 'n tutto esterpe
que' che 'n sua clade in pregio, e non pria, salse.
felice Fontano, Azzio et Albino,
Altilio e Chariteo con l'altre schiere,
che vissero cantando in si bel tempo!
Ahi, spietata natura, empio destino !
* A pp. 28-30 della nostra ediz.
CCLXIV INTRODUZIONE
Perché spiacque alle Parche, ingiuste e fiere,
eh' io mai qui non nascesse , o più per tempo ? i
Poi , dal principio del cinquecento sino alla seconda
metà del secolo XVII , salvo qualche solitario ricor-
do ^, si può affermare che ij Chariteo , probabilmente
perché straniero, rimanesse quasi dimenticato, igno-
rate affatto le sue rime: se, nel 1 617, il padre Agnello
Kuggiero, in un suo discorso, letto nello Studio napo-
letano, e intitolato pomposamente Neapolitanae litera-
turae Tlieatrum, pur ricordando il quattrocentista Gio-
van Francesco Caracciolo , confondeva il Chariteo con
' Opera volgare di Girolamo Britonio di Sicignano , intitolata
Gelosia del sole (Napoli, Mayr, 1519), f. z iiii r-v. — Quanto alle imi-
tazioni dal n. , si confrontino gli ultimi vv. del son. che precede quello
qui sopra riferito, con gli ultimi del son. V del Chariteo; ed il Triom-
pho deh Britonio nel gitale Parthenope Sirena narra et canta
gli gloriosi gesti del gran marchese di Pescara (Napoli, 1525) con i
primi canti della Methamorphosi del n.
' Benedetto di Falco, nella Descrittione dei luoghi antichi di Na-
poli e del suo amenissimo distretto (Napoli, 1 549, f. h iiii), ricordava:
« E come antichamente la dotta Napoli con animo gratissimo riceveva,
anzi facea gli huomini dotti come Virgilio, il qual vivo e morto pie-
tosamente accolse; cosi nella nostra dotta etade, fé' poeti il dottissi-
mo Fontano, il virgiliano Sincero Sannazaro, il Gravina, il Summon-
te, Geronimo Carbone, Geronimo Borgia, il Duca d'Atri, e'I Cariteo
& altri degni d'intrare in mille Athene e mille Rome ». E, con le i-
stesse parole del Di Falco, don Pietro Ricord.\ti nella Historia Mo-
nastica, Roma, 1575, p- 227. — Un po' più tardi, il Chariteo è nomi-
nato, come poeta napoletano, da Giulio Cesare Cortkse nel suo
Viaggio de Parnaso (I, xx, 1-3):
... lo Tasso,
lo Cariteo, lo Rota e lo Tansillo,
e Sanazaro ...
Questo poema, con altre opere sue, fu stampato a Napoli nel 1621,
come rilevo dal Croce (Introd. al Cunto de li Cunti del Basile, Na-
poli, 1891, voi. I, p. Lxxvi, n. i); al quale debbo anche la comu-
nicazione di questo accenno del Cortese.
INTRODUZIONE CCLXV
un Jacobo Seripaudo, e delle sue rime asseriva: « pau-
ca supersunt manuscripta sed praeclarissima»! ' ; se, nel
1661 , Leone Allacci, pubblicando nella prefazione ai
Poeti antichi, il sonetto del Chariteo al Colocci , che è
pur nella stampa summontiana, — allora, com'era, affatto
rara, — lo credeva inedito e sconosciuto ^ Ma, già nel
1683, mostrava di conoscere e di aver studiate le rime
del nostro, Lionardo Nicodemo, nelle sue Addizione co-
inose al Toppi, — cui era rimasto men che ignoto il
Chariteo ^ — : che il Nicodemo è il primo a descrivere
minutamente la prima edizione (1506), a riferire dei
versi di lui, e a ricordare quasi tutti i brani del Fon-
tano e del Sannazaro, riferentisi al Chariteo \ Il qua-
le, tra la fine di quel secolo ed il principio del seguen-
te, e certo prima del 1710, entrava per la prima volta
nel dominio della storia letteraria italiana col Crescim-
beni; che, accennato anche lui, nel primo dei Comen-
tarj, alla stampa napoletana or citata, e, nel secondo,
arrecando per modello del poetare di lui il sou. Voi ,
donna , ed io , dava , con qualche notizia biografica ,
sulle rime del Chariteo questo lusinghiero giudizio '•".
«Ebbe egli ingegno, oltre ogni credere, svegliato, a-
cuto, bizzarro e fantastico: a segno che, se non fu e-
• V. la n. 1 a p. xv.
' A p. 62 dei Poeti antichi raccolti da codici mss. della Bibl. Va-
Ileana e Barberina (Napoli, 1661), parlando del Colocci, dice: «Molti
scrissero vari encomij del Colocci, io mi contenterò di registrare qua
un Sonetto solo del Charitei, il quale credo che non sia stampato ».
E qui il sonetto, tolto, secondo il Lancellotti, Op. cit., p. 139, che
corresse l'errore dell'Allacci, dal cod. vat. 2931, f. 299. V. nella no-
stra ediz. la n. al son.
3 V. la M. 1 a p. XV.
* V. la n. 2 a p. xm.
5 Op. cit. , ediz. cit., voli. I, p. 412, III, p. 301. — Ne riassume il
giudizio e ripete quasi tutte le notizie bibliografiche date dal Crescini-
beni e da' suoi annotatori, fratelli Zeno e Seghezzi, il Quadrio, Op.
cit., II, 213.
XXXIV
CCLXYI INTRODUZIONE
gli il primo , che ritrovasse la nuova maniera di poe-
tar volgarmente, al certo non fu il terzo: impercioc-
ché si legge nella Vita di Serafino de.lV Aquila , im-
pressa colle Collettanee in sua morte, che esso Serafi-
no , il quale contende del primato col Tibaldeo , dal
sentir cantare gli strambotti del Cariteo, anch' egli si
diede a comporne su quello stile con tanto ardore, che
ne divenne famoso. Sono giunte sotto i nostri occhi due
edizioni del Canzoniere di questo poeta, il quale quan-
tunque malissimo parlato e con lingua barbara, e ri-
colmo di voci prette latine , e d' ogni rozza ortografia,
l'abbiamo letto con molto nostro piacere; perciocché la
tessitura de' componimenti, o , come si dice, condotta,
e i sentimenti sono per lo piìi migliori assai, e men
falsi, e pili vivaci, e più spiritosi di quelli di quanti
altri Poeti questa maniera professarono. E spezialmente
bellissimi sono alcuni Capitoli in terza Rima sopra la
Pasqua di Kesurrezione; e degno d'avvertenza ve n' è
anche un altro, fatto contra i suoi malivoli, ove fa
menzione de' suoi protettori ed amici ; e mostra molta
efficacia nello stile satirico ». Ed intanto, verso l'istesso
tempo, e prima certamente del 171 5 ', Anton Maria
Salvini studiava amorosamente le rime del nostro, sot-
tolineando i bei versi, notando a' margini qualche imi-
tazione da' greci , e quelle più numerose dai latini e
dal Petrarca, e alcune osservazioncelle storiche e lin-
guistiche, in un esemplare dell' ediz. summontiana che
ancora si conserva nella Kiccardiana di Eireuze ■.
1 la queir anno furono pubblicate le sue Annotazioni alla Bella
Mano di G. de' Conti, in una delle quali è ricordata una voce notata
dn lui nelle rime del Chariteo (v. la n. i a p. clxxxix).
2 Nel catal. dei libri rari di questa biblioteca: « Cariteo Neapoli-
tano. Rime diverse con postille mss. di A. M. Salvini. Napoli per
Sig. Mayr, 1309 , in 4.- N. 549 ». Ha parecchi fogli mancanti, e
comincia da quello segnato: ci. Sul frontespizio vi è questa nota ili ma-
no del Salvini: « Questo poeta sarà detto da alcuni nulllus nominis,
INTRODUZIONE CCLXVII
Non hitte le rime del Cliaiiteo, ma solamente dieci
sonetti (XXIII, XXXVII, XLVI, XLVIII, LVI, LVII,
LIX, LXX, XCIV, CV), quattro canzoni (I, V, XVII,
XIV) ed il cantico Bella natività della (jloriosa Ma-
dre di N. S. Gesù Cristo , furono inseriti da Eustachio
Manfredi, nel primo volume della Scelta di Sonetti e
Cam^oni de' più eccellenti rimatori d' ogni secolo \ che
va sotto il nome di Agostino Gobbi , di su 1' edizione
del Summonte, che ivi si cita insieme a quella del Ru-
sconi senz'anno^. E questi componimenti soltanto mostra
di conoscere Giovanni Maria Mazzuchelli nella bio-
grafia che egli metteva insieme del nostro, prima del
1765: anno della sua morte; e che doveva far parte del
settimo volume de Gli scrittori d'Italia: biografia dili-
gentissima per il tempo e per il luogo in cai fu scritta,
nella quale son raccolte per la prima volta quasi tutte le
testimonianze de' contemporanei, ricordate le stampe e
le ristampe delle rime; e che ora si può leggere nei ff. 563
r-c,66y del cod. vaticano 9265^. Intanto, mentre nel 1784
Andrea Kubbi ripubblicava, anche dalla stampa sum-
montiana,otto sonetti delChariteo (CV, IX, XXVI, LXVI,
LXVII, CXXXVII,CXLIII, CLXXV, covili) nel Par-
naso italiano ovvero Raccolta de' poeti classici italiani * ;
un erudito napoletano , instancabile raccoglitore delle
memorie e delle opere dei pontaniani, Gian Vincenzo
Meoia, studiava le rime nell' ediz, del 1509, notando,
verso il 1788,16 sue osservazioni, veramente di ben poco
ma è della (?) conversazione del Pontano e del Sannazaro ». Tutte
le postille son riferite nelle nn. alle rime.
' Le rime del n. solamente nella terza e quarta edizione (Venezia,
Baseggio, 1727 e 1739), voi. I, pp. 137-153. V. Gamba, Serie dei testi di
lingua, Venezia, 1839, p. 709.
2 Al foglio c2 dell' ediz. quarta, cit. nella n. preced.
^ V. la n. 1 a p. xii.
* A pp. 268-275 clsl tomo VI, intitolato Lirici antichi serj e gio-
cosi fino al secolo XVI (Venezia, Zutla, 1784).
CCLXVIII INTRODUZIONE
conto e per lo più sbagliate, e i versi più importanti e più
belli su alcuni foglietti volanti, che, riuniti ad altri
suoi spogli, formano ora il manoscritto xiii . d . 27 della
Nazionale di Napoli : una specie di antologia di rimatori
napoletani del quattro e cinquecento, in parte falsifica-
zioni sue, in parte ricavate da stampe più men rare ';
elle doveva adornare la sua opera sull'accademia ponta-
niana, lungamente promessa e mai venuta in luce, e di
cui solamente alcuni capitoli si conservano in un altro
manoscritto della stessa biblioteca ^ Alla stessa ope-
ra , nell'istesso tempo, atteudeva in Roma, il gesuita
spagnuolo Kaimondo Diosdado Caballero,ma egli, venuto
a sapere dell' intenzione del Meola , smise ^ acconten-
tandosi di dare alle stampe, nel 1797, le sue Bicerche
critiche appartenenti all'accademia del Fontano, dedi-
cate quasi tutte al nostro; nelle quali, rispondendo al
Tiraboschi ^ che, senza aver lette le rime del Chariteo,
* Gli appunti del Meola furono pubblicati dal Ciavarelli: v. la n.
I a p. XIII.
2 Nel cod. xm . b . 68 , che dovrebbe contenere anche una lezione
sul Chariteo, come si avverte in fine della terza di esse: le quali ora
sono in tutto quattro e di ben poca importanza.
3 Lo dice a p. 38 delle Ricerche : « Debbo confessare che il pen-
siere che ebbi una volta di dedicarmi a scrivere copiosamente la Sto-
ria di essa [accademia pontauiana] , l'abbandonai affatto dopo di che
fui consapevole di essersi accinto a simile opra il Ch. Signor Avvo-
cato D. Vincenzo Meolo (sic) ». « Meola - postilla qui il Gervasio nel
suo esemplare del Caballero (v. la m. 2 a p. xn) - larghissimo pro-
mettitore , il quale compi la sua impresa col vendersi tutte le carte
da lui raccolte suU' assunto al Cav. Arditi, che le tiene serrate sub
sera et davi per lasciarle a' topi ed a' vendipepe ».
* Stor. della lett- ital., t. VI, ediz. cit. , pp. 1261-62. Il Tiraboschi ri-
pete le notizie del Crescimbeni e del Quadrio, aggiungendo di suo qual-
che inesattezza e qualche notiziola; ed in riguardo al n. è , fuor
dell'ordinario, negligentissimo, e appena paragonabile al Napoli Si-
GNORELLi, Vicende della coltura, ediz. cit. ,111, pp. 461-62, che ripete
le sue stesse parole. Quando scrive: «Più scarse notizie abbiamo del
Cariteo e più scarso ancora è il numero delle opere eh' ei ci ha la-
sciate », mostra di non avere neppure guardato un esemplare delle rime
INTRODUZIONE CCLXIK
ne aveva detto poco e male , presentava i risultati del
suo studio amoroso sul canzoniere del suo concittadino
e riassumeva tutte le notizie date su di lui da' contem-
poranei, con molto buon senso e con una non iscarsa eru-
dizione, sebbene in un pessimo italiano.
Studiate da Michele Tafuri \ da Michele Arditi '\
da Guglielmo Roscoe ^ da Agostino Gervasio *, nel
di lui. Glie non avesse poi mai neppure aperto il suo canzoniere, ap-
pare da quello che asserisce pochi righi dopo: di non essersi cioè
« potuto accertare» della patria di lui, mentre questa è chiaramente
rivelata dal n. nel quarto de' suoi sonetti.
^ Oltre qualche nuova notizia e un nuovo documento (v. la n. 2 a
p. xui ecc.), riferiva vari brani delle poesie del n. a pp. xiv , xviii ,
xxvii-viii, Lxvii, e l'epistola diretta a lui dall'Altilio, pp. 64-66, nella
ediz. più volte cit. dell'Epital. dì quest'ultimo.
2 Nella memoria intitolata Esatne ecc. cit. a p. xin, n. 2, riferisce
o accenna spesso a versi del Chariteo (pp. 7, 13-14 n., 16, 175).
^ Dedicò al « Cariteo » tutto il § vi del cap. II, della sua Vita e pon-
tif. di Leone X (trad. ital. , voi. I, pp. 103-105); riferi molti passi
delle sue poesie nelle nn. al § cit. e seg. , e nel § x del cap. VI
(voli. I, 1. cit., e pp. 109, 113, 115, 120; II, pp. 128-130); ripubblicò
per intero, dall' ediz. Summonte , il son. CI, ch'egli crede scritto
contro i Francesi, e la canz. VI, « che presenta alcuni passi di gran-
dissima bellezza», la XVI, e la XVII, «una canzone energica, nella quale
invitava gli stati d'Italia a sbandire ogni diffidenza tra loro ed a riu-
nirsi contro il comune nemico» (voli. I, p. 209 n. ; II, pp. 288-296,
311-313; III, pp. 258-262). — A p. 104, nella n. (a), del traduttore e
postillatore italiano del Roscoe, il conte L. Bossi, s'indica una nuova
opera del Chariteo , che nessun catalogo visto da me , nessun biblio-
grafo ha mai menzionato: « Tra le molte edizioni del secolo XV, che
mi sono passate per le mani, un volumetto ho veduto di assai piccola
mole, senza data, ma che il carattere mostrava non essere stato stam-
pato oltre quel secolo, e questo conteneva una poesia intitolata Dia-
logo del Cariteo. Diverse produzioni di questo Poeta debbono essere
state pubblicate prima dell'anno 1500 ». Ma forse il Bossi dovette ve-
dere qualcuna delle ristampe venete , mancante della prima carta e
leggere Dialogo di Chariteo in luogo di Prologo di Chariteo , co-
me si trova scritto nel sommo della seconda carta di queste ristampe
(v. a p. ccLxv).
* Il quale mostra di aver molto ben conosciute le rime del n., ol-
tre che nelle sue postille al Caballero, ed alla vita al Sarno {Fontani
CCLXX INTRODUZIONE
principio del nostro secolo ' ; le rime del Chariteo, ram-
moderaate nella lingua, con qualche correzione e con
qualche postilla arbitraria, venivan ripubblicate , quasi
tutte, sempre di su l'edizione summontiana, nel 1846,
a Venezia , da Francesco Zanotto nel Parnaso clas-
sico italiano dell'Antouelii l E questa unica ristampa
Vita , cit. nella n. i a p. xxvi) , nei suoi mss. che si conservano nella
bibl. dei Gerolamini di Napoli, e specialmente in quello intitolato Ri-
cerche sugli Accademici pontaniani, le quali cominciò a mettere insie-
me nel 1806. A p. 27 sgg. delle quali si trova un « Estratto delle
Poesie del Cariteo dal volume di esse, impresso in Napoli nel 1309,
presso Simone {sic) Mayr Alemanno »; che è una copia degli appunti
del Meola, con molte giunte e miglioramenti. Altri suoi appunti sono
in un altro ms. della stessa bibl. (v. la n. i a p. ccxlv).
1 Verso quest'istessi anni, scriveva del Chariteo, molto diversamen-
te da quello che aveva fatto nella sua Histoire liner, de ritalie (v.
la n. 3 a p. xiv), il Gingubné nella Biographie universelle (Parigi,
Michaud, 1811 e sgg.): mostrando di averne lette le rime nella ediz.
del 1309. E, fra l'altro, notava che, nelle poesie politiche per la spe-
dizione di Carlo Vili, il n. non risparmiasse « né il sarcasmo, né le
ingiurie ai Francesi ed al loro re. I rapidi progressi — continua — di
quell'esercito non gii fecero cangiar stile; esortò in una grand' ode i
principi italiani a porre in obblio le loro divisioni ed a marciare con-
tro il comune nemico » (dalla trad. ital. Biografia universale , Ve-
nezia, 1823, t. IX, p. 423). Gli altri dizionari biografici, francesi ed
italiani, non fanno che ricopiare il Tiraboschi.
2 Voi. XII, intitolato: Lirici dal i501 al 1835, e pubblicato nel
1851; ma, oltre questa ediz. in 4° che non ho potuto vedere, ve n'è
una in 16° piccolo, pubblicata nel 1846, col titolo di: Lirici del se-
colo quarto cioè dal Ì501 al 1600: tomo XF (Venezia, G. Antonelli
edit., 1846) , e che ho presso di me per cortesia dell' amico prof Vitt.
Rossi; nella quale, dalla p. 22 alla 311, dopo un piccol cenno biogra-
fico, ricavato dal Crescimbeni, è ripubblicata gran parte della stam-
pa summontiana; e non già tutta « tranne alcuni pochi componimenti »,
come afferma lo Zanotto: che vi sono esclusi il madrig. I, i sonn.
XXI-XXIII, CXXI-CXXII, CLXXXI-CXXXII, CLXXXIV, CCX-CCXIII,
la canz. XIX, la Methamórphosi, la Resposta, la Pascha. Nella canz.
IV, delle religiose, il vs. 40, mancante nella ediz. originale, fu sosti-
tuito da uno di fattura dell' edit. I sonn. CLXX e CLXXXVI, diretti
a Paolo Cafatino ed a Marco Cavallo, si vedono ivi intestati (pp. 14G
e 156) a Paolo Gaggio ed a Pier Valeriane ?!
INTKODUZIONB CCLXXI
quasi completa dell' edizione Summonte rimaneva ignota
a Bartolommeo Capasso, che, quasi dieci anni dopo, leg-
geva ai moderni accademici pontaniani , nella tornata
dell' 8 marzo 1857, la sua erudita memoria Sul vero co-
gnome del Cariteo antico pontaniauo ' ; nella quale il
dottissimo uomo, nelT aprir la via che doveva menare
alla conoscenza del vero cognome del poeta, alle già rac-
colte dal Caballero e dal Tafuri aggiungeva sulla vita
del Gareth nuove e preziose notizie; sfruttate, poi , in
gran parte dal Minieri Riccio nel cenno biografico che
del nostro inserì nelle sue Biografìe degli accademici
alfonslnl detti poi pontaniani dal 1442 al 1543 *. Fi-
nalmente Alessandro d' Ancona , ricercando le origini
dello esagerazioni e delle gonfiezze che macchiarono
moltissime delle rime scritte negli ultimi decenni del
quattrocento e ne' primi del cinquecento, e trovandole
nei canzonieri del nostro, del Tebaldeo e dell'Aquila-
no , ebbe occasione dì parlare per la prima volta un
po' largamente delle poesie del Chariteo , nell' ormai
popolarissimo suo studio sul Secentismo nella poesia
cortigiana del secolo XV ^ comparso, nel 1876, nella
Nuova Antologia^. ì'iSigYdi , leggiera, disordinata com-
* V. la n. I a p. xiii. Ne fu fatto anche un estr. ; ma io ho citato
sempre dal voi. V del Rendiconto dell' accad. pontaniana. — Ignorò la
memoria del Capasso, e conobbe, forse, solo quello che del n. aveva scrit-
to il Torres Amat (nelle Memorias cit. a p. xii n. 2), Amador de los
Rios, che dedicò una lunga nota della sua Historia crìt. d. Ut. esp.
(voi. VII, p. 4) al suo concittadino « Carideu »; il quale è « con sus
obras, inequivoco testimonio de que el ingenio espanol se haliaba ya
dotado de fuerzas , no sólo para enriquecer el patrio parnaso , sino
tambien el de la naclon, que no sin justos titulos pasaba por maestra
de todas las occitlentales en la obra y e! arte del Reuacimiento ».
Conosce T ediz. del 1506: e fra le sue canzoni -egli dice - « merece
especial alabanza, por el espiritu que revela, la que lleva por titulo:
Aragonia [Canz. VI] ». Ma poco bene informato, poi, afferma che il
Chariteo accompagnò Ferrante I, come segretario, a Roma!
2 V. la n. I a p. xiii.
3 V. la n. 2 a p. xiii.
CCLXXII INTRODUZIONE
pilazione, dopo la memoria del Capasse e lo studio
del D'Ancona, apparisce la studio sul Cariteo e le sue
Opere ?;o?(5fan, pubblicato nel volume XX del Propu-
gnatore dal dott. Enrico Ciavarelli ; il quale , nella par-
te biografica, senza presentar nuove ricerche o qual-
che nuova deduzione sulle già fatte , non fa che sac-
cheggiar malamente, come mostrammo altrove \ i lavori
del Tafuri e del Capasse; e, venendo a parlar delle
rime , in luogo di studiarne e gli elementi che concor-
sero alla loro composizione e il lato storico , solamente
di quelle contenute nella stampa del Summonte , ei ri-
copia, per molte pagine, lunghi brani, senza frutto al-
cuno, senza un'osservazione di qualche rilievo, aggiun-
gendo qua e là qualche sproposito ricopiato dal Meola,
e mostrando una totale ignoranza della storia e della
letteratura napoletana del tempo.
Nato negli studiosi, e specialmente per lo studio del
D'Ancona, il desiderio di un'edizione critica delle ri-
me e di un saggio biografico e letterario sul poeta; ven-
ne a me la voglia di far l'una e l'altro. Ed ecco in que-
sto primo volume della Biblioteca napoletana di storia
e letteratura, — il quale, in grazia del grande amore che
il suo giovane direttore porta a questi studi, vien fuori
ora in veste così nitida ed elegante, ristampate e per
la prima volta riunite tutt' insieme ed illustrate lette-
rariamente e storicamente, le rime del Chariteo. E in una
prima parto, propriamente, quelle accettate e accolte
dal poeta nell'edizione summontiana, — alla quale, salvo
pochissimi casi, che ho sempre avvertiti, mi son tanto
fedelmente attenuto da mutarne solo la punteggiatura ,
consistente allora , com' è noto , unicamente nei due
punti e nel punto fermo; — ed in una seconda, tutte
le rime rifiutate e non accolte nell'edizione predetta ,
* V. la n, I a p. xm; ma ho citato sempre (lall'estr. (Bologna, 1S87).
INTRODUZIONE CCLXXIU
ma pubblicate, tre anui prima, nella stampa n;ipoletana
del iso6; che, anche per esse, ho seguito fedelmente,
se non proprio nell'irreperibile edizione originale, nella
rarissima ristauipa veneta di Maufrin Bun: uno de' piìi
benemeriti divulgatori della letteratura poetica del
quattrocento.
A preparar poi lo studioso alla lettura di queste non
sempre facili rime, IhiUi vita e delle rime di Bene-
detto Garelli detto il Chariteo ho discorso io, nella pre-
sente introduzione. E, quanto alla parte biografica,
giovandomi dei risultati dei miei predecessori e di non
pochi documenti riguardanti il poeta, che m'hanno
offerto i registri aragonesi, ho potuto seguire, quasi
anno per anno, il buono e biondo barcellouese , dalla
sua venuta a Nai)oli alla sua morte: accompagnandolo
nella regia cancelleria, nella segreteria di stato, nelle
sale di Castelcapuano e di Castelnuovo, cortigiano e
famigliare di Alfonso II, compagno, amico fraterno di
Ferrandino, rimunerato e rispettato da don Federigo
e da Consalvo di Cordova; nella vita privata: in casa
sua, sita nel « vico delli dattoli » , oggi della Pietrasan-
ta, ove passò gli ultimi anni suoi, tra gli amici, i
libri della sua biblioteca, e la correzione e la pubbli-
cazione delle sue rime; nell'accademia: ove la stima
e la fraterna amicizia di un Fontano e di un Sannazaro
gli furon largo conforto alle pubbliche sventure , alle
domestiche ristrettezze. Dallo studio e da un' analisi
forse minuta delle rime mi è stato poi possibile di scor-
gere in questo pronto e vivace spaguuolo — così male
apprezzato o trascurato perché studiato poco e male —
un poeta alle volte ardito e bizzarro sì, ma pieno di
gentilezza e di affetto, di sentimento e d'immaginazio-
ne; figlio più volte dell'arte italiana: della classica
romana, della fiorentina del mille e trecento, della na-
poletana contemporanea.
Lirico, dunque, nella maggior parte dei suoi sonetti
CCLXXIV INTRODUZIONE
e canzoni p' r la bionda Luna e pe' suoi buoni Arago-
nesi , forse il migliore tra i quattrocentisti; adoratore
entusiasta e conoscitore non comune delle lingue e
delle letterature classicbe; primo, per ordin di tem-
po, a segnare, corno provenzalista, — precedette, anzi
aiutò il Colocci , — il risorgere degli studi romanzi in
Italia; sarà, — mi sia permesso di sperarlo, — collo-
cato non più, come pur si è fatto tinora, tra il branco
dei mediocri , o , peggio , tra gì' imitatori di quel Se-
rafino Aquilano, cui invece, come vedemmo, l'arte sua
diede non poca gloria; ma sì bene accanto al Polizia-
no ed al Sannazaro , al Boiardo ed a Luigi Pulci : fra
coloro, cioè, che, dopo un mezzo secolo e più d'ab-
bandono, ritornarono in onore il volgare, strappandolo
dalle inesperte mani dei rozzi cantori popolari, o dalle
pesanti degli umanisti latineggianti, e dando al tosca-
no tanta grazia, tanta leggiadria, tanta soavità, quanta
non n' aveva più avuta dai tempi di Dante e del Pe-
trarca.
Erasmo Pèrcopo.
DOCUMENTI
I.
PER IL NOME E COGNOME DEI. CHARITEO.
1.
(24 settembre 1487)
«. . . apodixara excellentis comitis Alifii actam in Castellonovo Nea-
polis, 24 septembris 1457, per quam fatetur habuisse die predicto nu-
meraudo ab egregio rh-o Benedicto Garect nominato Cariteo de
regia cancelleria .... {Sigili, della Somra., voi. 35, f. 111 v) ».
(19 novembre 1487)
«... apodixara excelleniis comitis Alifii datam in Castellonovo Nea-
polis, 19 novembris 1487, per quam fatetur habuisse ab egregio viro
Benedicto Cariteo de Regia Cancellarla et perceptore jurium si-
gilli magni {Ibid., f. cit.) ».
(1488)
«. . . apodixam Caritey Garktj site proprie ìnantis scriptum {Ibid.,
in fine) ».
I. V. a p. XVII, e n. 1 àeWInlrod. — I un. i-ni, v, vii, x-xni sono inediti, i nn.
IV, VI ed VII! furori pubblicati dal march. L. Geremia nella Lega del bene ,
IH, n. 43, p. 5 (v. Vlntrod., 1. e ), gli altri fan parte de' docum. pubblicati
più appresso.
CCLXXVI DOCUMENTI
(4 marzo 14S9)
« Die quinto mensis marcij anno 1489. Ego Chariteus Garetus,
perceptor generalis magìii pendentis et parvoriini Regiorum Sigll-
lorìim, tenore presentis apodixe , confiteor me recepisse et manuali-
ter liabuisse a Notario Benvenuto de Andria, perceptore parvi Regij
Sigilij , penes viceregem provincie Principatus Citra: ducatos quatuor
de carlenis, quos dixit in manus suas pervenisse ex introytibus dicti
sigilli; et ideo ad ipsius Benvenuti cautelam hanc apodixam scripsi
manu propria et meo nomine siibscrÌ2ìsi die et anno quibus supra. —
Chariteus manu propria^ {Ibid., voi. 37, foglio a parte) ».
V.
(3 novembre 1489)
« Da Benedecto Garret dito Cariteo , perceptore de li denari se
exigeno del Sigillo grande della Cancelleria {Ced. di tes., voi. 134.,
f. 100 v: nella n. 3 a p. xxiii deWIntrod.) ».
(15 aprile 1490)
(( Paschasius Diaz Garlon, Comes Alifij, Sue Regie Maiestatis per-
ceptor generalis, per tenor dela presente confesso iiavere havuto, et
questo presente et infrascritto di, de contanti in caxa receputo de
Benedicto Garret dieta Cariteo de la Regia Cancellaria et per-
ceptore del divieto del Regio grande sigillo : ducati correnti Cento, in
decedocto ducati d'oro, a undeci carlini et cincho grana l'uno; et
lo resto in moneta d' argento : li quali dixe in mano sua erano per-
venuti del diricto del dicto sigillo. Et però a sua cautela ho facto
fare la presente apodixa, de mia propria mano et del mio solito si-
gillo subsignata et sigillata. Datum in Castellouovo civitatis Neapolis
die XV mensis Aprilis anno a nativitate domini m.o cccc.° nonagesimo.
Pasqual Diaz Garlon {Sigili, della Somra., voi. 37, foglio a parte) »2.
1 Anche sotto tre altre ricevute allo stesso « Notaro Benvenuto de .\ngri »,
— non « Andria », come, nel docum. — del 19 ott. '89, 7 apr. e 26 ott. '90, si
trova la firma autografa del Chariteo, nell'istessa formola: Chariteus matiu
propria (Sigili, della Somin , voi. 37, fogli staccati). Vedine la riproduzione
innanzi aìVIntrod.
8 In fine di questo docum.: « Hegistrata in apodi.\arum vni, fol. 2'21. — Ca-
nOClTMKNTI (!Cr,XXVlI
VII.
(31 decembre 1493)
u. . . apodixam excellontis comitis Alifii confUentis sub die 31 men-
sis decembris 1493 recepisse a Beneuicto Garetho dieta Caritheo
•perceptor dicti sigilli magni {Ibid., voi. 40, f. 70 r) ».
vili.
(1493)
« Bilancium computi magnifici Charitey Gareth Regii perceptorìs
sigilli magni pendentis a.i\m 1493 {Ibid., foglio a parte)' ».
IX.
(20 settembre 1494) i
«. . . Nohilis et egt^egius vir Chariteus Garectus Scriba et Fami-
liaris noster dilectus (v. il Docum. II) ».
(7 marzo 1495)
«... omnia et quecumque bona Caritei Garreth catalani . . . (v. 1
il Docum. IV) ».
(22 decembre 1495)
«.. . Domino Cariteo Garet secì-etario . . . (Curiae della Somm. ,
voi. 25, f. 35 v: cfr. la n. i a p. xxxin ».
(29 decembre 149G)
«. . . Domino Cariteo Garrkt {Ibid., f. 571-) ».
riteo». — X Sotto vi è un suggello tondo del diametro di due centimetri su
carta sopra cera rossa, con uno scudo senza corona né ornati, portante tre
fasce, ed intorno: f Pasquasius Dias Garlon » (L. Geremia, 1. e).
1 « Segue il conteggio in soli numeri arabi » (L. Geremia, 1. e).
CCLXXVIII DOCUMENTI
(31 agosto 1498)
« Domino Charitheo: ultimo augusti 1498. — Ad messer Charitheo
Garrett . . . . (Ibid., voi. 45, f. 157 v: nella n. 3 a p. xxxv) ».
(20 aprile 1512)
«... magnìfico Chariteo Garrecta de Neapoli (v. il Docum. IX,
n, li) ».
II.
pagamento delle provvigioni del pontano,
di giovanni de cunto e del chariteo.
(15 Ottobre 1191)
« Rex Siciliae etc. — 111. et Magnifici viri Goilateralis et Consiliarii
nostiù fideles dilecti. Noi volimo , et così expresse ve comandamo per
la presente, che facciate bone ad Chariteo, et admictate in soi com-
puti cinquanta onze , che ha pagate , et paga al Pontano per la sua
provisione ; quaranta onze ad Joannello de Cuncto , che siniiiiter ha
pagati, et paga per la sua provisione, et dudice onze, che ipso Cha-
riteo se ha retemite per V offitio de la Preceptorìa del nostro grande
regio Sigillo , che ipso esercita, licet non mostreno de diete pro-
visione privilegio, et lettere sopto scritte con lo nostro mucto , se-
condo è l'ordine da noi statuito , che in le provisione pecuniarie ce
debbia essere lo mucto nostro. Datum in Casali Principis, xv. Octo-
bris MCCcCLXxxxi. Rex Ferdinandus: Jo. Pontanus ».
II. Pubblicato da M. Tafuri , Op. cit. , p. xvn , m. 8 , con queste parole :
« In un volume di diplomi del 1470. insino al 1490. di Ferdinando I. e de' suoi
figliuoli, che conservasi nell'Archivio della Camera, al tbl. 54 leggesi il se-
guente ». Ed in fine: «Questo diploma é tutto di proprio carattere del Pon-
tano ». Non mi è stato possibile di ritrovare questo volume nell'-A-rch. di
stato di Napoli.
DOCUMENTI CCLXXIX
IH.
ALFONSO li
RICONFERMA AL CHARITKO l' UFFICIO DI PERCETTORE DEL SIGILLO.
(20 settembre 1 49 1)
Char:tei Garecti.
« Alfonsvis secundus etc. Universis etc. Confirmamus libenti animo
siibditis nostris eaque per eosdem legitime possidentur: tura et gra-
titudinem nostrani ostendainus, tura et ipsos benemeritos ad perseve-.
randum, et bene de nobis promerendum invitemus. Sane nuper Nobi-
lis et egregius vir Cariteus Garectus, Scriba et familiaris noster
dilecCus, Maiestati nostre reverenler exposuit, quod cum ipse habuerit,
tenuerit et possiderit, ac exercuerit, et in presenti teneat, habeat, pos-
sideat ac exerceat , ex concessione et gratia Serenissimi Don Ferdi-
nandi de Aragonia, Regis, Genitoris' et domini nostri Colendissimi,
felicis memorie, ad ehis vite decursum officium perceptorie iurtian
et hitroytuìn Magni nostri pendentis Sigilli ac etiam. parvi, cum
annua provisione unciaruni duodecim consequendarum . et reti-
nendaiiiìn per eum ex pecuniis et iuribus dicti magni sigilli, ac
cum lucris, emolumentis et obventionibus solitis et consuetis ad di-
ctuni perceptorie offitium. spectantibus et pertinentibus, de quo qui-
dem officio et eius exercitio hactenus in possessione fuit , et in pre-
sentiarum esse asseruit. Supplicavi! propterea nobis ut sibi offitium
predictum sua vita durante cum omnibus supradictis confirmare de
speciali gratia benignius dignareraur. Nos autem, habentes respectum
ad grata plurimum fructuosa , accepta , et fidelia servitia per ipsum
Ghariteum predicto Serenissimo Regi Genitori nostro, et domino Co-
lendissimo memorie recolende, nobisque prestila et impensa, queve
prestat ad presens, et prestiturum de cetero speramus de bono semper
in melius continuatione laudabili, proptereaque in iis et longe maio-
ribus a nobis exauditionis gratiam rationabiliter promeretur , bis et
III. Trovato da A. Gervasio che lo comunicò al Capasso; il quale ne détte
solo la parte pii'i importante {Op. cit., pp. 49-50); ma interameute , poi, per
la prima volta e non senza errori, il Mlniebi Riccio, Op. cit. , pp. 323-327
in n. Io !'ho riveduto sull'originale (Collaterale Privilegior., voi. vi, a. 1194,
ff. 2I9r-220r: nell' Arch. di stato di Nap. : e quando non s'avverte nulla,
vuol dire che il docum. si trova sempre in questo Archivio).
1 II ms.: Generis.
CCLXXX DOCUMENTI
aliis considerationibus, atque causis mentem nostrani digne moven-
tibus, eidem Chariteo ad eius vite deciirsum offitiuìn predictnm cum
omnibus iuribiis, emolumentis ac lucris solitis ad illud quomodolibet
spectantibus et pertinentibus, ac cum predicta annua provisione un-
tiaruìn duodecini conseqiiendarutn et retinendarìim per eion ex pe-
cuniis et iuribus diati magni Sigilli, iuxta concessionem sibi factam
per dictum serenissimum Regem genitorem nostrum ipsamque con-
cessionem cum omnibus que in se continet, tenore presentium nostra
ex certa scientia, consulto et deliberate ex gratia speciali Confirma-
W2J/5, approbamus , acceptamus , emologamus atque laudamus , no-
streque Confirmationis, approbationis, ratificationis, acceptationis, e-
mologationis , raunimine roboramus et valiJamus , quatenus tantum
in possessione dicti officii et eius exercilio hactenus fuit el in pre-
sentiarum exislit. Volentes et declarantes expresse quod presens no-
stra Confirmatio ubique inviolabile robur obtineat, nullumque dimi-
nutionis incoramodum aut inipugnationis , vel dubietatis obiectum in
iudiciis vel extra quomodolibet perlimescat, sed in suo semper robo-
re et firmitate persistat. Illustrissimo propterea et Carissimo Ferdi-
nando de Aragonia Duci Calabrie priuiou^enito et Vicario nostro ge-
nerali intentum nostrum declarantes ; Mandamus earundem tenore
presentium Magno Camerario eiusque locumtenenti , presidentibus et
rationalibus Camere nostre Summarie ceterisque universis et singulis
officialibus et subditis nostris maioribus et minoribus, quovis offitio, au-
ctoritate et dignitate fungentibus nomineque nuncupatis ad quos seu
quem presentes perveuerint et spectabit et fuerint quomodolibet pre-
sentate eorumque locateuentibus et substitulis, presentibus et futuris,
quatenus forma presentium per eos et unumquenque eorum diligenter
actenta et in omnibus inviolabiliter observata prelato Chariteo presens
nostrum privilegium cum omnibus et singulis in eo conteniis teneant fir-
miter et observent, quoque in eius reddendis computis ipso ponente in
exitu penes se retinuisse singulis annis untias duodecim ex iuribus et
pecuniis ipsius Magni Sigilli. Illas in eius recipiant computis, audiant et
admictant onini dubio quiescente nullis aliis cautelis requisitis: Et con-
trarium non faciant prò quanto dictus lllustrissimus Dux nobis morem
gerere cupit; celeri vero ofticiales et subditi nostri predici! graliam
nostram caram habent iramque et indiguationem uostras ac penam
ducatorum mille cupiunt non subire: In quorum fidem presentes fieri
fecimus Magno Maiestatis nostre pendenti sigillo munitas. Datura in
Castello Novo Neapolis per magnificum virum u. i. doctorem Anto-
nium de Alexandre locumtenentem III. Don Goffredi Borges de Arago-
nia principis Squillacii etc. die xx" Mensis Septembris m.^cccclxxxxhu.",
Regnorum nostrorum Anno [)rimo: Rex Alfonsus. Dominus Rex man-
davit mihi Io. Fontano. P. Garlon. lulius de Scortiatis locumtenen-
tem Magni Camerarii ".
DOCUMENTI CCLXXXI
IV.
CARLO Vili CONFISCA I RENI AL CHARITEO.
(7 marzo 1495)
« Carolus dei gratia Francorum, Hierusalem et Sicilie rex, Nobilibus
viris Goffredo de la Haia, scutifero, et Joanni de May, Secretarlo no-
stro, fìdelibus nostris dllectis, gratiam et bonara voluntatem. Merita
et servicia * vestra nos inducunt ut erga vos reddamur ad gratiam 11-
berales: hec itaque cura devoluta essent et aperta nobis et nostre cu-
rie omnia et qiiecumqìie bona Caritei Garreth catalani ob noto-
riam ^ rebellionem x>er ips-itm contra nos et statimi nostrum com-
missam et patratam seqiiendo partes Ferdinandide Aragonia, ostis
nostri, olim, ubicnnique per Cariteum ipstim possessa et tenta, volen-
tes de bonis ipsis aliquibus de nobis beneraeritis providere, habentes
respectum ad merita sincera devocionis & fidei vestrura prefatorum
Goffredi et Joannis, ac considerantes servicia per vos Maiestati no-
stre prestila et impensa queve prestatis ad presens et vos de bono
semper in melius continuacione laudabili prestituros speramus , pro-
pter que a nobis digne prosequendi premiis et gratiis proraeremini ;
his et aliis consideracionibus et causis digne moti, vobis tenore pre-
sentium , de certa nostra sciencia , motu proprio et speciali gratia ,
bona predicta queciimqiie mobilia, stabilia, jocalia , aurum, argen-
timi . nomina debitorum. et debita ipsa et quecumque alia jw^a et
bona ad Cariteum ipsum quomodocumque spectancia et pertinencia
et que spedare poterunt, tatn in regno, quam in qiiacumque civitate,
castro, loco et terra olim per ipsum Cariteum possessa et tenta , tam-
quam res propias nostras , et ad nos legitime et pieno jure devolutas,
ob ipsius notoriam rebellionem; heredibusque et successoribus vestris,
utriusque sexus natis 3 iam et in antea nascituris in perpetuum cum il-
lorum et illarum fructibus, inlroitibns , juribus et actionibus, quibus-
cumque ubicumque sistencia et permanencia, damus, donamus, conce-
dimus et elargimur ad habendum, tenendum et possidendum, vendendum,
alienandum, permutandum, obligandum, disponendum et alium quem-
cumque contractum faciendum de dictis bonis et qualibet parte illo-
IV. Inedito e sconosciuto; e si trova n^W Esecutoriali della Sommaria
voi. IX, ff. llr-12v.
1 II ms.: sincera.
5 II ms.: noticiam.
3 II ms.: nolis.
XXXVI
CCLXXXIl DOCUMENTI
rum tanquam de rebus vestris propiis. Itaque bona ipsa a nobis et
nostra curia heredibus et successoribus nostris in dicto regno inme-
diate et in capite teneant et possideant. Investientes propterea de bo-
nis supradictis vos et unumquenque vestrura per expedicionem presen-
tium, ut moris est, quam investituram vim robur et efficaciam vere
realis et corporalis possessionis et assecucionis dictorum honorum vo-
lumus et decernimus optinere voientes et decernentes espresse quod
presens nostra concessio et donatio ira perpetuum semper et omni fu-
turo tempore vobis eidem Goffredo et Joanni et vestris heredibus et
successoribus in perpetuum sint firme et stabiles nullumque detriraen-
tum et obstaculum in iudiciis et extra quomodolibet pertimescant, sed
in suo semper robore et efficacia persistant, juribus tamen nostris et
alienis semper salvis ; mandantes propterea Magno huius regni Ca-
merario, eiusque Locumtenenti , presidentibus & rationalibus Camere
nostre Sumarie et aliis officialibus et subtitis nostris maioribus et mi-
noribus , ad quos spectabit presentibus et futuris , quatenus per eos
forma presentium inspecta , illam vobis vestrisque heredibus et suc-
cessoribus in perpetuum observent et observari faciant , et mandent ,
et contrarium non faciant , prò quanto gratiam nostram caram ha-
bent iramque et indignaciones nostras ac penam mille ducatorum cu-
piunt non subire , clausulis , condicionibus , retencionibus et reserva-
cionibus omnibus et singuiis qui et que in similibus concessionibus pri-
vilegiis apponi in presente privilegio , habitis prò expressis ac si in
eo essent apposite et particulariter annotate. Data in Castello Capuane
civitatis nostre Neapolis, die vii mensis Marcii, m.°cccclxxxxv.° Per
regem Robertet visa».
V.
SPEDIZIONE de' conti DEL CHARITEO.
(13 decembre 149S)
Charitei.
« Rex Sicilie etc. Illustrissimi et Magnifici viri , Consiliarii , fideles
nostri dilecti. — Noi volimo, e cossi per la presente ve comandamo che
senza alcuna dilatione debiate fare expedire li cunti dati per Chari-
V. Lo pubblicò, per il primo, il Vecchioni nella Dissertazione che prece-
de i Giornali di G. Passare , p. 106, ma con la data errata del 1488; cor-
retta poi da M. Tafubi , Op. cit., xvm , n. 9. — L' ho riscontrato sull'origi-
nale {Comune della Cancell., voi. xiv, a. 1198-99, f. 149 r).
DOCUMENTI CCLXXXIII
teo in questa regìa Camera, continenti lo introyto, et ex ilo del no-
stro sigillo pendente , et per vui li siano liberamente admissi tutti li
dinari bavera pagati , non solamente per le cose pertinente al servi-
tio del Signor Re D. Ferrando nostro nepote de gloriosa memoria
ma etiam tucti quilli , cbe sono stati pagati de poi la nostra felice
successione , tanto per despese , et provisione ordinarie , quanto per
provisione pertinente al ditto Chariteo, corno ad secretarlo dela pre-
detta Maestà , al modo consueto , et corno perceptore olini de dicto
sigillo , non facendoseli per voi dubio alcuno circa questo , quando
con verità coste de ditti exiti; et non fate altramente, perchè questa
è nostra firma voluntate. Datura in Castello Capuane Neapoli xiu de-
cembris M°ccccLxxxxvni°. — Rex Federicus: Vitus Pisanellus. — Ca-
tnere Summarie ».
VI.
PAGAMENTO DELLA PROVVIOIONE DEL CHARITEO, COME GOVERNATORE
DEL CONTADO DI NOLA.
(27 marzo 1504)
«Rex et Regina Hispaiiie ac utrinsque Sicilie etc. — Magnifico messer
Spucchio *; perché lo magnifico messer Caritheo ne ha facto inten-
dere che deve conseguire recto provisione del tempo vacò al governo
del Contato de Nola : per tanto volemo che vui ce la debiate pagare
per lo tempo che vacò in dicto governo, così comò se soleva pagare
ali altri governatori, soi precessori; per che tucto quello li pagarite,
ve promectimo farevelo excomputare et fare bono sopra la exactione
havite facta de le intrate del dicto contato , per lo tempo li ha vite
tenute: et questo exequerite liberamente et sencza difficultà alcuna,
tenendo la presente per vostra cautela. Date in Castello novo Nea-
polis xxvij Marcij 1504: Consalvus Ferrandes dux Terrenove.
P.te Signate: pagherite al supradicto messer Caritheo quello che per
la R.* et R.Ie Camera de la Sumniaria ve sera declarato. Michael de
Aflicto, locumtenens M Camerarii: Jo. Bap.ta Spinellus, Conservator
generalis ».
VI. Inedito e sconosciuto; nei Privileg. della Sommaria, voi. xiv, f. 68.
< Nel ma. par che dica così.
CCLXXXIV DOCUMENTI
VII.
ÌL CHARITEO HA DA CONSALVO TRECENTO DUCATI ANNUI.
(5 luglio 1504)
« Dux Terrenove, vicerex Capitaneus et locumtenens generalis. — Ma-
gnifico mastro portolano; Noi simo restati contenti ^corao per tenore
de la presente ne contentarao fare consegnatione al magnifico et no-
stro carissimo Chariteo de trecento ducati lo anno ad beneplacito,
sopra le intrate che perveneno in vostre mane comò mastro portolano
de Puglia et Terra de Bare, in excambio de li quactrocento ducati,
che havea de prorisione dal Serenissimo Re Federico ad vita soa.
sopra lo dericto del segillo granne\ et de septanta diij altri dxicati,
corno conservatore de dicto sigillo- Et essendo nostra voluntà che
quelli li siano pagati, ve decimo et ordenamo et comandamo, che, da
equa avante, deli denari, che perveneranno in vostre mani, per ra-
gione de la administratione de vostro officio predicto; debeate pagare
ad ipso Chariteo, o ad altro per soa parte, terza per terza, li dicti
trecento ducati per anno, durante dicto beneplacito, perchè cossi pro-
cede de mente et ordene nostro, et non fari io contrario, perchè tale
è nostra voluntà , restando la presente al presentante. Data in regiis
et reginalibus felicibus castris, centra Cayetam, v.julij, 1504. Con-
salvus Ferrandes dux Terrenove. — Jo. Bap.ta Spinellus , Conservator
generalis. — Mazzellus Gazelia prò M. Camerario. — Bernardinus Ber-
naudus ».
Vili.
PER IL PAGAMENTO AL CHARITEO DELLA PROVVIGIONE DI 3OO DUCATI.
(10 ottobre e 23 decerabre 1504)
Magnifici Carithej.
« Magnifici viri etc. Per parte del magnifico Caritheo so' state pre-
sentate in questa camera littere de lo Illustrissimo Signor Gran Ca-
pitano, vice re et locotenente generale de le catholice Maestate, clause
VII. Inedito e sconosciuto; nell'istesso voi. ove si trova il docum. preced.,
f. 73. —In fine di questo, nel ms. si legge: « V. partiuin 11, 8. Expedite per
Excellentera domiuuin locumtenentein, xxviii Marcii 1501».
Vili. Inedito e sconosciuto; nel voi. lxi Partium della Sommaria, f. 33 r-v.
DOCUMENTI CCLXXXV
et sigillate omni qua decet sue curie solempnitate vallate, del tenore
sequente. A tergo vero: ' lilustrissimis et magnificis viris, magno huius
regni camerario eiusque locumtenenti, presidentibus et racionalibus
Camere Summarie catliolicorum regum, collaterali consiliariis fideli-
bus nobis carissimis '. Intus vero: ' Res et Regina Hispanie ac utriu-
sque Sicilie etc. Illustres, magnifici , nobilesque viri Catholicarum
Maiestatum, collaterali consiliarii fideles, nobis carissimi. Per littere
nostre ficimo consignatione al magni fico Chariteo de trecento ducati
lo anno, siipra le intrate del mastro portulano de Puglia et de Ter-
ra de Bari; in excambio de quaqtroc.ento septantadui ducati, che
havea sopra le intrate del sigillo; et non havendone pussuta * con-
sequire cosa alcuna, ordinairao che supra le traete de Calabria et de
Puglia li fossero pagati tricento ducati, li quali meno ha pussuti ba-
vere, secundo de tucto lo predicto ne consta. Per lo che, havendone
supplicato li volessemo comtnectere dieta consignacione supra le in-
trate de la dohana de lo sale, de quessa dohana predicta de Napo-
li, del sale, per un anno tantum, consequa dicti ducati tricento. Et
cossi ve dicimo et ordinamo, che, supra le intrate de quessa predi-
cta dohana, debeate ordinare a li arrendatore che delo ex taglio èi
devuto, o quello, che deveranno per causa de loro arrendamento,
debeano pagare et satisfare, al dicto magnifico Caritheo, dicti du-
cati trecento , per uno anno tantum; non tando, in questo, dubio né
difBcultà alcuna, perchè tale è nostra voluntà, recuperando per loro
apocha de soluto, quale cum la copia de la presente volimo li sia suf-
ficiente cautela a lo rendere in lo cuncto de pagamento de dicto ex-
taglio, restando la presente al presentante. Date in Castello Novo, Nea-
poli, die xvi° octobris 1504. Consalvo Ferrando, duque de Terrano-
va. — Michael de Aflicto locuratenens Magni Camerarii. — Joannes de
Tufo. — Berardinus Bernaudus. — Espedite per m.le A. Curtus parciura
xvto '. Le quale infrascripte littere del predicto Ill.mo S.or Gran Capita-
no, in dieta Camera presentate et cum ea qua decuit reverenda recepute,
volendomo exequire quanto per dicto Ill.mo S.or Gran Capitano ne se or-
dina et comanda, ve facimo per ciò la presente, per la quale ve di-
cimo et, officii regia auctoritate qua fungimur, commectimo et coman-
damo, che, receputa la presente, inspeeto per vui lo tenore et forma
de diete presenti, infrascripte littere, debiate quelle ad unguem exe-
quire et observare al predicto C.\ritheo, juxta loro forma, conlinen-
cia et tenore; non fando de ciò lo contrario, per quanto amate la
gratia de le Ser.me et Catholice Maestate, et pena de ducati mille non
volite incorrere. La presente, reteuendone appresso de vui copia au-
tentica, la' restituente per cautela al presentante. — Date Neapoli etc,
• Nel ms.: passata.
2 Nel ms.; le.
CCLXXXVI DOCUMENTI
die xxin° decembris 1504. — Michael de Aflicto, locumtenens. — Ge-
rardus Gam.ta — F. Coronatus prò magistro actorum. — Arrendato-
ribus fiindici salis civitatis Neapolis ».
IX.
LA. CASA DKL CHARITEO.
(1491 e 1499)
« Annui ducati novera super quibusdam domibus sitis iuxta predictam
ecclesiam S. Marie Maioris de Neapoli; qui, ad praesens , solvuntur
per magnificum Annibalem Cesarium. De quibus apparet sententia
lata per coramissarios apostolicos, die 25 mensis decembris 1499,
manu notarli Marcii Antonii de Tocche , de Neapoli , subscripta pro-
prie manus eorundem dominorum commissariorum, et eorum penden-
tibus sigiilis munita, cum inserto tenore literarura apostolicarum ex-
peditarum Rome, apud S. Petrum sub anulo piscatoris die 2 decem-
bris 1491. In effectum continentium quod societas delia secretia San-
cte Marie, Neapolis, prò utilitate ipsius ecclesie, concessit Caritheo, re-
gio scribe 7ieapoUtano, in emphiteosin quamdam domum, sitam prope
dictam ecclesiam iuxla suos fines sub annuo censu ducatorum septem,
prout in quodam publico instrumento desuper confecto plenius dici-
tur contineri , ex eo quia dieta Ecclesia minatur ruinam, et ipse Cari-
THEUS promisit iliam instaurare, concessa sibi prius dieta domus ut su-
per ea edificare possit, cum potestate etiara affrancandi dictura censura,
in simili vel meliori.Quam concessionera petiit predictus Caritheus con-
firmari, et per dictas licteras commictitur dictis coraraissariis quate-
nus de premissis diligenter se informent, et, si per dictam informa-
tionera ita esse , et cedere in evidentera diete ecclesie utilitatem , ei-
dem Caritheo, postquam ecclesiam predictam instauraverit, licentiam
concedant super ea edificandi et edificia per eura desuper facienda prò
se suisque heredibus et successoribus appropriandi , ac postquam ei-
IX. Tutt' e due i docum. furono indicati per la prima volta dal Gap asso ,
Op. cit., pp. 58, 49: il primo come esistente negli Ada visìt. Capjtell. di
raons. Annibale de Capua, a. 1580, voi. Ili, f. 238, che si conserva tuttora
neir arch. arcivescovile di Napoli; 1' altro nel protocollo di notar Teseo
Grasso, a. 1511-12, f. 376, nell' arch. notarile di Napoli. Debbo agli amici
G. Caci e A. Miola se ho potuto qui pubblicare per la prima volta intera-
mente tutt'e due questi documenti; di cui io, scrivendo Vlntrod. (v. pp. XLi,
li), conoscevo solo i pochi righi riferiti dal Capasse.
DOCUMENTI CCLXXXVll
dem ecclesiae alia bona immobilia, ex quibus similis aut maior cen-
sus. ut prefertur, percipi possit, consignaverit, dictara domum ab hu-
iusmodi censu perpetuo liberent. Vigore quarum licterarum predicti
DD. Commissarii, apostolica auctoritate, ut saprà, concessa, p/ ac-
cesserunt et continuatim se coiituleruat ad predictam dotnum sitam
et positam retro et iuxta dictam ecclesiarn a duabus partibus in vico
qui dicitur « delli dattoli », iuxta bona Dominici de Giptiis et iuxta
platea^n publicaìn , consistentem in certis membris et cum quadam
curticella discoperta. Ipsaque per eos oculatira visa et revisa, et habita
diligenti informatione de omnibus supradictis, declaraverunt exposita
sedi apostolice et contenta in dicto instrumento concessionis essa ve-
ra, dictamque concessionem, ut supra lactam, cessisse et cedere in e-
videntem ipsius ecclesie utilitatera, et proinde concessionem [)redictam
ut supra factam cum dieta potestate affrancandi, et omnia et singula
in dictis instrumento et concessione coatentis confirmaveruat et ap-
probaverunt ».
(20 aprile 1512)
« Eodem die eiusdem * ibidem ^ in nostri presentia constitutis magni-
fico Cariteo Garrecta de Neapoli, agente ad infrascripta omnia pro-
se ejusque heredibus et successoribus ex una parte, et venerabili dom-
pno Anibale de Laca de Neapoli, sindico et procuratori venerabilis ex-
taurite Sancti Petri de Platea Arcus, constructe et hedificate intus
ecclesiam Sancte Marie Mayoris de Neapoli, ut dixit, agente similiter
ad infrascripta omnia nomine et prò parte diete extaurite et prò suc-
cessoribus in ea, ex parte altera. Pref^atus i^ero Cariteus sponte as-
seruit covam nobis dictam extaiiritatn egisse capere aquam a puteo
ipsius Caritei , sito in domibus dicti Caritei , sitis in platea de lo Da-
ctulo regionis sedilis Nidi civitatis Neapolis, iuxta dictam ecclesiatn
Sancte Marie Mayoris, viam publicam et alios confines\ et dictam
aquam a dicto puteo axportasse per aqueductum usque ad puteura
curtis diete extaurite : prò qua captione aque dictum procuratorem
solvisse ipsi Cariteo ducatos viginti de carlenis. Et facta assertione
predicta , prefatus Cariteus sponte coram nobis non vi , dolo etc. ,
confessus fuit, ad interogationem sibi factam per dictum procuratorem
ibidem presenteni, se ipsum Cariteum presencialiter et manualiter re-
cepisse et habuisse a dicto procuratore sibi dante dictos ducatos vi-
ginti de carlenis argenti et de predicta pecunia diete extaurite, videlicet
ducatos duodecira per manus dicti dompni Anibalis, et alios ducatos
1 Cioè: «die vicesimo mensis aprilis, xv lad. 1512».
9 Cioè: « Neapoli ».
CCLXXXVIII DOCUMENTI
octo ad conplemenlum dictorum ducatorum viginti, per manus dom-
pni Antonii de Baldantia de Neapoli, ut dixit, prò dieta captione aque,
facta a dicto puteo seu formali dicti Caritei, prò ipsa asportando ad
dictum puteura diete extaurite ut supra. Quam aquam, ut supra datam
diete extaurite, dictus Cariteus promisi t facere bonam diete extaurite
omni futuro tempore ipsamque aquam, ut supra eaptam, diete extau-
rite et suceessoribus in ea , in iuditio et extra defendere et antestare,
ac de evietione teneri ab omnibus hominibus omnemque iitem etc.
Et prò predictis actendendis prefatus Cariteus sponte obligavit se
eiusque heredes , sueeessores , et bona sua omnia dicto dompno Ani-
bali presenti, sub pena et ad penam dupli medietatis ete., et cum po-
testate capiendi etc., constitutione precarii etc, et renuntiavit et ju-
ravit etc. Presentibus iudiee Joanne Mayorana de Neapoli ad contra-
etus, diacono Loysio de Ciaria, de Neapoli, et diacono Joanne Loysio
Gaytano de Neapoli ».
X.
I.
COMPATRIS GENERALIS.
In nuptiis Charitei.
' Chi credere potrebbe a Caritheo,
Filosofo, Poeta et Oratore
Et dotto in Greco, Italico, ed Ebreo,
Essergli poi venuto quel furore
Ch'appena in donna compatir si puote,
D'essere sposo, senz'alcun timore?
Lodare gli occhi, il ciglio, et belle gote
D'una donzella nobile, et gentile:
Et quel, eh'è meglio, con bastante dote?
Quell'uom severo, che prendev'a vile
Gli amori di Lisandro, e di Sincero,
Quantunque easti, gli movevan bile!
X. Tutti e quattro questi docum. son certamente falsificazioni del Meda. Ba-
sterà leggerli, per convincersene. I primi due, nel ras. xui . d . 27 della Naz.
di Nap. (v. a p. un, n. 1), e quindi nel voi. ms. del Gervasio intitolato Ri-
cerche ecc. (v. a p. ccLix, n. 4); gli altri, in un altro ms. di quest'ultimo, dal
titolo: Varie notizie di star. leti. nap. (bibl. de' Gerolaraini di Napoli). Per il
Compare generale (Pietro Golino) e per Manilio Rallo v. la n. 1 a p ccxxxi
(ieWIntrod.
DOCUMENTI rCLXXXlX
quanto debbo dir, eh' è sempre vero,
Ch'ogni mortai in altri biasma, e vieta,
Ciò, dov'ei si butta per intero?
Intanto esser' io voglio Profeta,
Per dirti, che se tu non hai giudizio,
Innanzi avrai presto il nero Theta.
Senza dell' uman gener pregiudizio
Andrai a trovar Proserpina, e Plutone,
Et gli occhi già ne danno certo indizio.
Et Sincero poi diratti, con ragione,
Ch'è meelio divertirsi a Mergellina,
A far versi, o qualche composizione;
Che perdere la notte, e la mattina
In mezzo alle querele, ed i lamenti,
Ch'a far la donna, per natura, inclina.
Del reslo acciocché tu non credi spenti
I semi del tuo amor dolce, et soave
Io vo'che tanto poi non ti spaventi:
Né, che '1 mio dir ti sia cotanto grave:
lo t'auguro, se pur sarà possibile,
II nodo maritai meno insoave.
Et, sebben lo credo io, quas' impossibile,
Lo renda il Cielo a te ognora tale,
Per esser poi cosi un po'sotTribile.
Vi é quaich' esempio, in ver, ma poco vale.
Avendone cotanti poi in contrario :
Ma tal discorso a te poco ti cale.
Hai avuto bella donna, et il tuo erario.
Con la dote, accrescesti, et di noi ridi,
Ch'abbiamo in tal facenda • un pensar vario
Di tuo valor sicuro tutto fidi
Nella virtude, ch'orna la tua sposa.
Nota pur troppo in questi, e in altri lidi.
'Voglio avvertir però sol una cosa,
Che in donna virtù spesso non dura,
Et passa, come secca, fresca rosa.
Abbine dunque, se lo puoi gran cura - ».
1 Cosi il ras.
• Nel ms.: « Ex authographo :
CCXC DOCUMENTI
C. MANILU RHALLI
In nvptiis Charitei.
« Vorrei essere Pindaro, et Orfeo,
Per cantar, come debbo, degnamente.
Come cantò gli Iddij il vate Ascreo.
Le nozze sospirate lungamente
Del buon vate, che vince en cortesia
Il prisco Mecenate, ch'avia intente
Tutte le cure sue contro la ria
Invidia, la nimica de' Poeti,
Qualunque il merto lor si mostri, et sis.
Lungi sian or da te quegl' indiscreti ,
Che biasman d'Imeneo li casti laczi ,
Quei spirti impuri, torbidi, inquieti.
Giove costor dal Ciel ognor discaczi ,
E'I Tartaro crudel tutti assorbisca
Insiem con sporchi et brutti lor impaczi.
Il nome lor l'oblio qua giù annerisca.
Vadano i fatti lor di mal in peggio ,
Andando appresso a Licida , et Licisca.
Tu godrai in eterno il casto preggio
Di sposo fedele, et avventurato
Là su nel glorioso Empireo seggio.
Sarai dalla tua sposa sempre amato.
Avrai di figli un bel drappello intorno,
Sarai da' tuoi nipoti attorniato;
Sarai sempre a color d'invidia, et scorno,
Ch'esser credon Filosofi, et Sapienti,
Et fatti di Sofia al grave torno.
I pregi tuoi giammai saranno spenti
Ne' figli tuoi, et tardi tuoi nipoti
L'occhi d' ognun vedranno sempre intenti.
Veruno vi sarà, ch'in loro noti
Quei vizj, di cui abbonda il secol nostro;
Ammirerà ognun le ioro doti.
Costoro più, che d'oro, gemme, ed ostro
Fastosi andranno sempre, e con ragione
De l'egregio, e famoso nome vostro.
DOCUMENTI CCXCI
Di te, cioè, et dell'ottima unióne.
Ch'hai fatta con colei, che vince tutte
Le donne in ogni menom' azione.
In casa tua vedransi ognor distrutte
Le vane usanze, che pur troppo oscurano
Il nobil sesso, et son si ree, et brutte:
E '1 cuore al mal oprar- soltanto indurano;
Et sol virtù vedrassi in essa reggere,
E piena sol di gente, che la curano:
Potralla in essa ognun più chiara leggere * ».
LETTERE DI PIETRO COLINO AL CHARITEO,
E DEL CHARITEO AL SANNAZARO.
Compate.r Chariteo.
« Synceri nostri litem crucem mihi fixit; aliud enira est Driadas ac
Napeas canere, et inter Syrenas in Mergellina sua rersari, quam fo-
rum et forensia jurgia aequo animo sustinere. Faciiius enim Epigram-
mata, et eiegias scriptitare est, quam leges et tabularum ineptias in-
terpretare. Sed Diis faventibus omnia transigere, facile spero. Vale ».
Chariteits Syncero.
« Princeps Federicus mihi beri commisit, ut tibi remitterem vetu-
stum Virgili! Codicem, a Tomacello nostro dono acceptum; in mem-
branis ab optimo quidem callygrapho diligentissime excriptura. In li-
bri Eneadis primi initio desunt quatuor priores Poematis versus, in-
cipit enim a versu Arma virvinque cano Trojae, quod coniecturam
Joviani nostri inire probat , versus illos a quodam Grammatico ope-
ribus Maronis intrusos esse. Sed Princeps tuum judiciura exoptat; et
una cum Codice cras in Turri octava cupidissime expectat. Vale ».
1 Nel rtis : « Ex autographo Rhalli lituris mendisque scatente >.
CCXCII DOCDMENTI
XI.
LETTERA DELL'ALTILIO AL CHARITEO.
Gabriel Altilms Epis''o'^ii(s policastrensis ac Illustrissimi principis
Campani ab epistolis Chariteo amico chartss imo s. d.
(14 luglio 1485?)
«Legisti, ut, ego arbitror, tóv /Spóyov toijtwv /.ay.oìóyu-j. En dum la-
cessere non desinunt, concitarunt laenitatem illam Sinceri nostri, man-
suetissimumque animum, scilicet malefacta ut noscerent sua. Et sane
quis non lampos istos ismenios, ac novos Lucilios ahominetur , ode-
rit , stomachetur? qui tamqtiam appuli aranei e cavis venenatos por-
rigunt aculeos, summissisque barhatulis quibusdam , ipsi quidem la-
tent ac dissimùlant , et tamen ita dissimulant, ut nosciiari cupiant ;
laudemque ex tam petulanti et inepto maledicendi genere improbius
aucupentur ac inendicent. Sed sic est, mi Charitee: natura7n ex-
pellas fìirca, tameri usqiie recìtrrìt: pessima ingenia sese undequaque
suo indicio, quiisi mures , (ut ille dixit), produnt. Sed caplent quam
possunt hiudem; modo ne ullam capiant ; ac potius ridiculi sint. At-
qui dixeris : tantum ne Academiae nostrae vacat, ut de his sermo sit?
et, ut oiim Plato ad Dionisiura : an non satis erat. suo ipsos veneno
confici et alienis bonis invidentes intabescere Timones istos? Recte id
quidem ; sed nosti vulgi mores : saepe taciturnitatem in conscientiam
vertunt. Nunc ad Accium redeo. Mieto ad te , cura tantopere efflagi-
gites, quae ille in hos ciclo|)as (sic enim ilios appeiiat) ridens nuper
responderit. Carmen mehercule exactum , simplex, candidum, quod-
que non minus priscam illam venustatem elegantiamque , quam opti-
mos et integerrimos auctoris mores, nitidissimamque animi sincerita-
tem prae se ferat. Dii boni, quam recte philosophorum facile prin-
ceps Aristoteles , qui sordidos poetas ab ingenuis hoc differre putat :
quod illi maledicant semper , hi vero et deorum et heroum laudes
XI. È, per la prima volta, in upa ristampa delle opere latine del Sanna-
zaro {Veneiiis, apud Bern. Stephonium, 1531, in 24), come asserisce l'Ula-
mingio che la ripubblicò nella sua edizione dei poemi sannazariani (Amster-
dam, 1728, p. 595). — Come inedita, non ostante sei ristampe precedenti, la
ridette, a bastanza corretta, E. d' Afflitto nelle Memorie degli scritt. del
Regno di Nap., Napoli, 1782, voi. I, pp. 253-54, secondo una copia ottenuta da
mons. Foggini, custode allora della Vaticana, di su il cod. vat. 2847, If. 8 v-9 v
(cfr. Tafoki, Op. cit., pp. Lvii sgg); dal quale è ricavata la mia trascrizione:
ma una buona metà di essa la debbo alla cortesia del sign. Italo Palmarini.
DOCUMENTI CCXCIII
canant. Atque , ut Accium nostrum inler posteriores ponas , vide ob-
secro , dura contumelias retorquet , quam verecunde agit , jam eru-
bescere ipsum Carmen dixeris, et invito domino parere; al cum lau-
dat, quam plenns , quam laetus , quam teres, atque, ut Horatii verbis
utar, rotioiditsì Nam , per deos , quid similius, quid accomodalius
dici potiiit, quam illud de Corvino nostro ? dura noveilae arboris sur-
genti ramulo comparai?; quid cum livori insultai? nonne et illum de-
primit, et a sua ipse modestia non discedit? Si quidem non Viausisse,
sed novisse tantum se Castalias undasaffirmat; at vero cum perorare
vult , quam novae ; quam laenes , et iucundae acclamationes , quam
etiam apposilae et opportunae , modo deos patrios appellando , modo
l'arthenopen suam contaminari qnerendo; quae si apte , et suo tem-
pore fiant , scis quantum lucis orationi , et in primis carmini afferre
soleant. Postremo cum se apud Musas expurgat, veniamque ut dent
(si quid offenderit) , petit, quis adversariorum improbitatem , impu-
dentiamque non esplodat? quis vero ingenuitatem, verecundiamque
non amet , et summis in caelum laudibus ferat? Sed quid ego haec?
Tu melius ista deprehendes : nihil non absolntum , et quod non ex
omnibus snis partibus constet, invenies ; nisi unum illud fonasse non
probabis. in quo illum facile, et iure coargui patiar; tantum enim
Aitilio tribnit, quantum sibi ille nec agnoscit , nec postulai. Sed de
hijs hactenus. Tu interim lyram intende, ut cum plusculum ocij fue-
rit, te canente illa audiamus: nam si accentus tuus accesserit , ne
musis quidem ipsis (pace quidem illarum dixerim ) invidebis. Venis-
sem ad te. sed scis in Apuliam cnm principe meo festinanti , mihi
qnam ista , ut ita dicam . tumultuaria expeditio gravis sit, togato pre-
sertim . et prima tirocinij rudimenta rapessenti. Vale, et me claris-
simo collegarum tuorum coetui comenda. Vale iterum, ac tertio: Nea-
poli, pridie Idus Qnintilis ' ».
XII.
LETTERA DI PIETRO SDMMONTE AD ANGELO COLOCCr.
(20 luglio 1515)
« Magnifico Signor Colotio. Se la natura mia fosse ben nota ad V.
S. ad me non bisognaria scriverli Apologia in alcun modo, che già
' Cioè : il 14 luglio.
XII. Pubblicata la prima volta, con qualche errore di lettura, dal Lancel-
LOTTi neir ediz. cit. delle Poesie ital, e lai. del Colocci , pp. 91-95 di su il
CCtCIV DOCUMENTI
mi haveria per excusato si in lo tanto tardare di mandarli le Tradu-
ctioni de le cose Limosine , come in qualsivoglia altra mia forzata
tardità. Già vi porla mostrare più di .xx. Epigrammati di amici, per
li quali si ridono con me dele soverchie passioni et morti, ch'io so-
glio volenteri pigliare per li amici. Et quantunque fin adesso nihil
iam officiositate hiijiismodi domesticae ì-ei consuluerim, de\ che non
pauci suìit , qui me derideant; nienti di meno né posso, né voglio
di tal natura transformarmi. Sed ad rem venia. Tucto questo tardare
é causato , perchè la cosa non è stata in me , ma in poter di altro.
Né trovo chi habia quella brascia nel pecto, in compiacere, la quale
hanno li boni et officiosi amici. La S. V. tanto tempo é, che mi scri-
pse desiderare di havere la Traductione in lingua nostra volgare, fa-
cta per lo bon messer Chariteo di felice memoria, la qual essa scri-
vea havere vista in Roma , mostratali per ipso messer Chariteo : la
Traductione dico de le rime di Folchetto di Marsiglia, la quale era
in un poco di quaderno in quarto di foglio. Al che io risposi alhora
haveria trovata, poi di alcuni di, dentro Io Plinio o vero Seneca suo.
Dipoi andando io ala donna sua ad pregarla, mi volesse prestare que-
sta cosetta per quattro di , & questo ad tempo eh' io li havea facti
alcune commodità , ad tal non me lo negasse, si comò havea facto
avante, Lei, non possendo con houestà negarlo, mi fé' intrare in la bi-
bliotheca del povero marito, et si contentò, ch'io pigliasse la cosa. La
qual portata ad casa, volendo io legerla, mi trovavo tucto confuso ,
perchè non ci era che M testo Limosino di Folchetto ; traductione in
volgare italiano non ci trovavo. Per lo che tornavo di novo ad cer-
care in dieta Camera, charta per charta , con quella diligentia che
soglio io , in causa di Amici , & questo perché V. S. mi scrivea ,
haver già vista la cosa traducta. Dove io volsi havere più credito ad
quella, che ad me medesmo, lo quale per essere vixuto * vinti uno anni
si coniunctamente con quel gentile et raro spirto di messer Chariteo,
talché né scripse ipso, né pensò mai da doe parole in su, che io non
ne fossi stato participe, per modo che non havea cosa ad me occol-
ta, come io meno ad lui; per questo era io certissimo, lui non havere
facta mai ad tempo mio tal traductione, né auchora ipso già tenerla
facta dali anni passati. Salvo, si la avesse facta ad tempo che ipso fò
in Roma. Tuct'i libri sol, fin ad una minima chartuccia foro per me
servati in casa mia 2, & prima notati, quando lo bon gentilhomo seguio
cod. vat., reg. 2023, f. 352. Una copia diplomatica di essa debbo alla corte-
sia dell'amico conte Lodovico de la Ville; un'accuratissima revisione della
mia trascrizione e la nota finale al prof. G. Zannoni.
I 11 ms.: vixito.
1 La casa del Summonte era «dappresso il Monistero di S. Marcellino)..
V. Origlia, Istor. dello Studio di Nap., Napoli, 1753, voi. I, p. 267.
DOCUMENTI CCXCV
la fuga del suo Re Ferrando 3 secundo in la prima invasione di Francesi,
sub Carolo Rege. Si che, se la Signoria Vostra vedde veramente tal tra-
ductione,è necessario (come ho dicto) che colui la havesse facta alhora in
Roma; ma se io intendeste solamente ad bocca da lui, non lo habiate per
articulo di fede. Perochè multe volte lo amico si dilectava parlare poe-
ticamente, o vero da Cortesano, in le quali doe facultà ipso era (comò
ciascun sa) cosi eminente, à singulare. Dunque volendo provedere io, che
la Siernoria Vostra havesse lo suo complimento, andavo ad trovare lo
nepote del Caritheo, lo quale sapea bene io, che queste cose Limosine
le legeva, et intendeva cosi bene, come il Zio, & non voglio dire migliore:
la qual comparatione si era vista più volte, quando & l'uno &. l'altro
qualche volta ragionavano del migliore et del peggiore di questi tali
poeti Limosini; & questo con lo libro in mano, quale adesso è in vo-
stro potere. Lo qual jovene per essere di natura Catalano, versato in
Franza et exercitato pur assai si in legere, comò in scrivere cose Tho-
scane, tene non poca destrezza in interpretare lo Idioma & la Poesia
Limosina. Et cosi con molta instantia Io ho inducto ad farmi questa
gratia di tradure lo Folchetto, & ancho lo Arnaldo Daniello, quali duo
Poeti erano scripti in lo dicto Quaderno in lingua loro. Et perchè questo
jovene tene di molte & molte occupationi , non è stato possibile che
lo assiduo solicitare mio lo habbia possuto più incitare. Superest che
la Signoria Vostra mi perdone, & non mi legna per pigro, che certo
non so stato si non summamente solicito, ma cosi adiviene in le cose
che dipendono da altro. La Signoria Vostra ancor mi perdone, si in
re parva (siqita modo res tua mihi parva sii), io so stato troppo
prolixo. Lo ho facto, non temere, per darvi particular notitia del tu-
cto: ne me forte, in rebus tuis , negligentem putes. La Traductio-
ne , idest , la forma del tradure la ho facta fare ad mio modo , et
come io voria alcune cose Greche , secundo Vostra Signoria vederà ,
qual vi mando con la presente , che son tre quaderni in quarto di
foglio, & sono in tucto charte .xxx. et insemi vi mando letera del
medesmo Traductore , persona certo oltra lo ingegno, modestissima,
& digno nepote di tal Zio. Prego dignatevi in ogni modo rescriverli,
ad tal ipso mi ritrove veridico in quel , che li ho predicato dele parti,
che so in Vostra Signoria, con che lo ho inducto ad pigliar questa
fatiga ad tenipo, che si è trovato assai oppresso in negocii. Illud etiam
non omiseritìì, che tanta è la sete, che adesso è cresciuta di quesso ^
Libro di Poeti Limosini, che da ogni banda mi biasmano, comò quello
che ho facto uscire da questa città una cosa si rara : hanno dicto ala
donna, che ipsi darìano molto maggior prezzo etc. Et indubitatamente
quando lo libro fosse qua, ipsi con la mano stricta lor solita , offeri-
3 II ms.: Ferrardo.
< Cosi il ms.
CCXCVI DOCUMENTI
riano quattro quatrini per ipso. Lo Signore Marchese di Montesar-
chio 5 dixe l'altro di, che vole mandare un Scriptore ad posta in Roma
& con bon mezzi optinere da Vostra Signoria che li ne faccia cavar
copia. Lo nepote di messer Chariteo, del quale ho parlato, si dole
summamente , non haverne [)igliata copia ordiata ad tempo che Io
tenne tanti mesi in poter suo. La Marchesana di Mantua , essendo
qua, solicitata non so per qual via, fé' instantia per tal libro. Piacerai
in gran manera, che tucti resteno delusi: la patrona medesma non
sta niente pentita, perchè è certa, che, havendo adesso lo libro, seria
in li medesimi termini, dove era da prima. Quel altro amico, che
Vostra Signoria pensava, ne tenesse copia, secondo messer Chariteo
per qualche fine vi havea dicto, si è doluto ancora di ciò. & lamen-
tatosi di me ad altri amici, ch'io Io dovea avisare etc. , & che almeno
ne haveria voluto pigliar copia, & poi lo havesse havuto chi si voglia.
Sed de his hactemts. Iterumqìie oro: ignosce prolixitati. Resta so-
lamente rispondere ad Vostra Signoria in quel testo di Catullo, che
è più tempo, mi domandò, & cosi non rimane altra cosa, ad che io
per vostre precedenti letere sia obligato. Dico dunque non possere
risolvere la Signoria Vostra per causa che non ho la opera del Fon-
tano in poter mio. Et in surama, Signor Colotio mio, mai più vera
verità uscio da quessa ^ aurea et veridica bocca vostra, che quando
animosamente, atqve ntinatn non tam vere, mi signitìcastevo lo er-
rore di tucti noi altri di qua, che piane iam nnhis pe'r.niad''mvs, que-
sto regno nostro solo essere Italia, ce praeter ilìud, nihil esse l'I-
terius. Perchè io lo dica, non lo vogliate sapere. In stimma uno anno
combatto per bavere tale opera, & mi è cosi discorteseraente contesa.
senza haversi rispecto ad chi li ha tucti questi scripti del Fontano,
idest li archetypi da manifesta perditione liberati. Daho tamen operarn,
ti t rem oinnino haheani tìbique ea omnino in parte satisfaciam ; del
che non mi dismenticarò finché haveió satisfacto a l'officio debito '. De
la copia del privilegiò de la laurea Pontanica, si Vostra Signoria me
ne farà gratia, secundo mi promese, tanto tempo è, me ne farà sum-
mo piacere. Recomandomi ad quella. Neapoli 28. Julii 151 5».
SUMMONTIUS TUUS.
5 V. Vlntrod., p. cxlii e n. 3.
6 Così il ms.
7 «Per errore del legatore, nella lettera del Summonte, sono state in-
serite due lettore latine dello stesso ad Aldo Manuzio ( e. 353-351 ) ; sicché
queste ultime parole (da De. la copia a Roma) si leggono a e. 355 r; ed a
e. 355 ■!) si legge l'indirizzo: Al Mag .'^° 8.°'' Angelo \ Colotio, Secret P Apo-
stolS° \ etc. I In Roma ».
SOMMARIO.
I. — Preliminari. — Superiorità del Chariteo su i poeti delia corte ara-
gonese. — Poco conosciuto e male apprezzato. — Necessità di uno
studio sulla vita e sulle rime xi-xv
II. — Vita pubblica. — Nome e cognome. — Nasce in Barcellona (1450?) ;
viene a Napoli (■67?-'68?); primi anni della sua dimora ('82). —
Nominato percettore dei dritti del regio sigillo ('86). — Segre-
tario di stato di Ferrante II ('95); segue questo re nell'esilio. —
Carlo Vili gli confisca i beni (7 marzo '95). — Rientra in Napoli
con Ferrandino (7 luglio '93): e rimane in questa carica sino alla
morte di quei re (7 ottobre '96). — Don Federigo gli accresce la
provvigione. — Altri uffici. — Va a Roma (1501?). — Ritorna a
Napoli (1503?): Consalvo di Cordova lo nomina governatore di Nola
(1503). — Gli assegna 300 ducati annui (1504). — É ricordato l'ul-
tima volta in atti pubblici (20 apr. '12). —Sua morte (prima del
dee. 1514?) sv-XLii
III. — Nella corte e nella vita privata. — Sue relazioni con Alfon-
so, duca di Calabria, e con Ferrandino. — Il cortigiano: suoi motti
ed arguzie; sua conoscenza del canto. — La sua casa al « vico deli
dactoli «; gusto ed eleganza delle sue suppellettili; mediocrità delle
sue sostanze; la moglie e le figliuole; i parenti. . . xlh-lvii
IV. — Le rime amorose dell' « Endimione ». — La prima ediz. (15 genn.
1506). — La seconda ediz. curata dal Summonte (nov. 1509). —
Rime giovanili rifiutate: le sei camoniìn endecasillabi con rima
al mezzo e lor contenuto classico-petrarchesco; e i xxxii Stram-
motti e loro relazione con i Rispetti del Poliziano e gli Stram-
botti di Luigi Pulci. — L" Endimione rifatto e accresciuto: le
rime amorose: storia dell'amore per la Luna. — Che la Luna
non sia Giovanna d'Aragona, moglie di Ferrante I; e chi po-
trebb' essere. — Elemento petrarchesco. — Elemento classico. — E-
lemento contemporaneo. — Elemento popolare. — La «maniera »
del Ch. — Pregi e bellezze delle rime amorose. '. , lvii-cxviu
V. — Lb rime storiche e politiche dell' « Endimione ». — Canzoni e
sonetti scritti per gli Aragonesi. — I sonetti encomiastici per uo-
mini di stato, guerrieri, giureconsulti, prelati o gentildonne con-
XXXVMl
CCXCVIII SOMMARIO
temporanee ; loro scopo ; abuso di giuoco di parole su i nomi e
cognomi cxvHi-cLiv
VI. — Le canzoni religiose e morali , i cantici, i poemettl — Le poe-
sie religiose e loro intonazione classica. — La canzone « in laude
de l'humiltà » ed il cantico « de dispregio del mondo ». — La Me-
thamorphosi: soggetto, imitazioni da Ovidio, da Omero, da Vir-
gilio, dal Sannazaro; e sue bellezze. — Il cantico « per la morte di
don Innico de Avelos ». — La Resposta cantra li malivoli. —
La Pascila: soggetto ; scopo; elementi classici; difetti e bel-
lezze CLIV-CLXXXIl
VII. — La lingua e la metrica. — Influenza degl'imitatori spngnuoli
di Dante, del Petrarca, del Boccaccio, del principio del XV, sul-
l'educazione letteraria del Ch. — Correzioni linguistiche e stilisti-
che all'edizione del 1506: latinismi, spagnolismi, napoletanismi. —
La metrica : petrarchesca e dantesca : la terza rima adoperata
per la prima volta come metro satirico; l'endecasillabo incate-
nato; l'ottava siciliana e la toscana clxxxiii-cxciv
Vili. — L'accademia e gli amici letterati. — La sua erudizione clas-
sica attestataci dalle rime e dai contemporanei. — Il Ch. nell'acca-
demia pontaniana: il nome accademico ; come accademico, ricor-
dato Fontano e dal Sannazaro, dal Galateo, da Giano Anisio; vi
rappresenta, col Sannazaro e G. F.Caracciolo, la letteratura vol-
gare. — Gli amici letterati, ricordati nelle rime e loro testimonianze
in favore del Ch.: il Fontano, il Sannazaro, il Summonte. — G. Al-
tilio , G. Pardo , il Galateo : F. Puderico ; G. Carbone, P. J. de
Jennaro, C. Colonna, G. B. Musefilo, G. Maio. — Angelo Colocci
e il « libro di poeti limosini »; sua storia: suo contenuto; ora cod.
12474 della Nazionale di Parigi. Il Ch. provenzalista e la tradu-
zione « de le rime di Folchetto di Marsiglia ». — Altri amici lette-
rati non ricordati nelle rime: G. A. de Petruciis, Egidio da Vi-
terbo, Giano e Cosimo Anisio. — Mecenati : la famiglia d'Avalos :
Alfonso, marchese di Pescara, Costanza , duchessa di Francavilla ;
e loro coltura: il «cavaliere misser Cola d'Alagno» ed il cardi-
nale Lodovico d'Aragona cxciv-ccxxxviii
IX. — La fortuna delle rime nei seoc. XV e XVI e studi sul Ch.
FINO AI NOSTRI GIORNI. — Nella corte di Lodovico Sforza (1490);
giudizio del Pistoia; nella corte di Mantova: sonetto ad Isabella
d'Este; il Ch. ricordato da G. dal Carretto, da Andrea Stagi di
Ancona (1303), da Enea Irpino di Parma, da G. F. Achillino di
Bologna (1513). — Ristampe venete dell'edizione napoletana del
1506: una di Manfrin Bon; una di Alessandro Bindoni ; due di
Giorgio de' Rusconi ecc. (1307, 1519); e delle poesie religiose e
morali nel Libro secondo delle rime spirituali {\^^o). — Imita-
tori: Serafino Aquilano: conosce gli strambotti del Ch a Milano
SOMMARIO CCXCIX
(1490); entra nella corte di Ferrandino e in relazione col Ch. e
gli accademici napoletani: suoi plagi e sue imitazioni delle rime del
Ch. — La fortuna del son. CV del Ch. : pubblicato fra le rime
di A. Brocardo; imitato da A. di Costanzo , da G. B. Marino, dal
De Lemene, da Filippo Desportes.— La can7. II del Ch. ed un brano
della Cecaria di M. A. Epicuro. — Rimpianto da G. Britonio (1319).
Quasi ignorato dalla metà del sec.XVI alla fine del XVII: conosciuto
da L. Nicodemo (1683) ; giudicato da G. M. Crescimbeni (1710?) ;
postillato da A. M. Salvini (1713?); alcune rime nella Scelta di
sonetti e canzoni (Vi A. Gobbi (1739); sua biografia scritta da G. M-
Mazzuchelli (prima del 1765); sonetti nel Parnaso italiano di A.
Rubbi (1784); gli Appunti di G. V. Meola (1788?); le Ricerche
critiche di R. D. Caballero (1797): studiato da M. Tafuri (1803),
da M. Arditi (1803), da G. Roscoe (1803), da A. Gervasio (1806);
l'ediz. summontiana ristampata in gran parte da F. Zanotto nel
Parnaso classico italiano dell'Antonelli (1846 e 1851); la memoria
di B. Capasso Sul vero cognome del Cariteo (1857); la biografia
di C. Minieri Riccio (1881); lo studio di A. d'Ancona Sul secenti-
smo nella poesia cortigiana del sec. XF'(i876); il Cariteo e le
sue opere volgari di E. Ciavarelli (1887). — Della presente edizio-
ne delle rime e della nostra introduzione . . ccxxxix-cclxxiv
LNDICE de' documenti.
I. — Per il nome e cognome del Ch. [i-xiv] (1487 1312) . . cclxxv
II. — Pagamento delle provvigioni del Pontano, di G. de Cuncto e
del Ch. (1491) ccLxxviii
III. — Alfonso II riconferma al Ch 1' ufficio di percettore del sigillo
(1494) ccr.xxix
IV. — Carlo VIII confisca i beni del Ch. (1493) cclxxxi
V. — Spedizione de' conti del Ch. (1498) cci.xxxit
VL — Pagamento della provvigione del Ch. come governatore del con-
tado di Nola (1504) ccLxxxiii
VII. — Il Ch. ha da Consalvo 300 ducati annui (1304) . . cclxxxiv
VIIL — Per il pagamento della provvigione di 300 due. (1304) cclxxxiv
IX. — La casa del Ch. [i-n] (1499 e 1312) cclxxxvi
X. — Capitoli di Pietro Colino e di Manilio Rallo: 7n nuptiis Cha-
ritei; e due lettere del Compatre al Ch. e di costui al Sannaza-
ro [l-iv] CCLXXIVIII
XI. — L" Epistola di Gabriele Altilio al Ch. (1483) .... ccxcii
XII. — Lettera di P. Summonte a mons. A. Colocci , sul Ch. (28 lu-
glio 1313) ceselli
CORREZIONI E GIUNTE-
A pagina xiv n. , linea io, in luogo di «Solo il Meda», va letto;
<c Solo il Salvini ed il Meola »; ed a p. xv n. , 1. 5, invece: « del card.
Jacobo Seripando », leggi: « di un Jacobo Seripando » : che il cardi-
nale si chiamava Gerolamo; e suo fratello, Antonio. — A p, xxvii«. ,
1. quartult. , deve dire « XII » non «XI dei Docum.)); ed a p. xxxvni
«. , 1. penult. , non: «Fu pubblicata», ma: « Furon pubblicate». — A
p. XLix, 1. 4, non : Leoniceum , ma: « Leoìiicenum », e nell'istessa pag.
alla M. 4, aggiungo qui per intero l'interessante brano del De cardi-
nalatu di P. Cortese (Naz. di Nap. : v. la m. 4 a p. ccxxvui), che ho
potuto vedere solo quando già s'era stampata quella pagina: « Canendi
autem ratio tripertila descriptione secernitur, ex qua una phrygia, al-
tera lydia, tertia dorica nominatur. Phrygia enim est, qua animi au-
dientium acriori vocum conlentione abalienari solent. Ex quo genere
illa nuraeratur, qua gallici musici in palatino sacello natalitiis exsusci-
talitiisque feriis , rituali lege utuntur. Lydia autem duplex iudicari po-
test, una quae coagmentata, altera quae simplex nominatur: coagmen-
tata enim est, qua inflexo ad dolorem modo, animi ad fletum miseri-
cordiamque deducuntur: quaiis ea videri potest, qua novendilia pon-
tificia, aut senatoria parentalia celebrari solent: quo quidem lugubri
canendi genere semper est natio hispanorum usa. Simplex autem est
ea, quae languidius modificata cadit: ut eos P. Maronis versus infle-
xos fuisse vidimus, qui Ferdinando secundo auctore soliti sunt a Ca-
ritheo poeta cani. At vero dorica ratio multo est aequali mediocritate
temperatior, quale illud genus videri volunt, quod est a Divo Grego-
rio in aberruncatorio sacro stataria canendi mensione institutum » (f.
Ixxx v\ ma Ixxiii v). — A p. li n. , 1. 3 : alla citaz. degli Acta visit. Cap
peli., agg. , «pubblicato per intero nel Docum. IX, 1 ». — A p. lvih
n., 1. 12, dopo la citaz. del Graksse, Trésor, li, p. 122, agg.: « Cata-
logo della libreria Capponi, Pioma, 1747, p. 116; Haym, Bibl. ita!.,
voi. II, p. 82; Panzer , Annales typogr. , t. Vili, p. 425 ». — A p.
Lxi , 1. 20: Paschara per Peschara. — A p. lxv, 1. ult., dopo «scon-
fitti » , un punto e virgola. — A p. clix, 1. penult. « sentalo » per « sten-
tato ». — A p. ceni, 1. 9: dopo « canere » due punti. — A p. ccvui
n. , 1. penult.: « ff. cci v » per: « ff. iii v ». — A pag. ccxiii, n. i, agg.:
« Il Lancellotti , Op. cit., p. 19. asserisce che « Pietro Summonzio ad in-
stigazione del Colocci uni insieme le Poesie del Cariteo »; ma di dove
traesse questa notizia non dice afflitto ». — A p. cclxxi, n. 2, agg. :
« La biografia del Ch. dovette uscire nell' Italia Reale , nel n." del 14
agosto 1881 (manca nella raccolta della Bibl. Univ. di Nap.)». — A p.
ccLXXii, 1. 24, dopo « elegante » si ponga una lineetta.
e e e I
GIUNTA ALLE CORl^EZIONl E GIUNTE.
Nella nota 4 aggiunta a pag. xlix , dovevo anche ricordare che i-
Chariteo, oltre a conoscer bene l'arte del canto, era anche composi
tore di musica , come Serafino Aquilano ed altri rimatori della fine
del quattrocento. L' unica testimonianza a me nota è del contempo-
raneo Ottaviano de' Petrucci da Fossombrone ( 1466-1539), che nel
libro nono delle Frottole, stampato a Venezia nel 1508, nota a p.
56, come autore della musica dell'ultimo componimento, il « Cariteo ».
Il Vernarecci ( Ottaviano de' Petrucci da Fossombrone inventore
dei tipi mobili metallici fusi della musica nel sec. XV^, Bologna,
Romagnoli, 1882, p. 102), dal quale tolgo questa notizia, osserva:
»( Al novero dei maestri italiani, già ricordati, altri (?) aggiunge senza
esitanza il Cariteo autore della musica per la frottola: Amando e
desiando io vivo (lib. 9 , pag. 56), e forse egli è quello spagnuolo di
lai nome , che di quel tempo poetò in lingua italica alla corte degli
Aragonesi in Napoli , e fu il primo o de' primi che tentassero di ri-
irarre fra noi le semplici forme della poesia popolare ». E certamente.
Il Chariteo fu autore della musica e de' versi : clié la poesia ivi ripor-
tata è il xxvni" dei suoi Sti-ammotti ( v. a p. 453 della nostra edi-
zione) :
Amando cS: desiando, io vivo <!i. sento
la doglia che si sente nel morire!
Ancora: in un libro di poesie musicate da maestri italiani e stampiate
da Antico da Montona a Venezia, nel 1520, pare che ci sia, al n. io,
anche il son. XXXIX del Chariteo: Edio la notte e 'l del: almeno
tutte queste parole, che sono nella tabula, presso lo A. Zf.natti {A. A.
da Moìitoìia, in Ardi. stor. per Trieste, l'Istr. e il Trent., I, p. 193),
corrispondono esattamente ad una parte del primo vs. di quel son.
-Ma potrebbe anch'essere lo stramb. cxs di Serafino Aquilano, che
comincia con quelle stesse parole (v. Y Introd. , p. ccLin).
BIBLIOTECA NAPOLETANA
DI
STORIA E LETTERATURA
EDITA DA Benedetto Croce
I.
LE RIME DEL CHARITEO
PARTE SECONDA.
resto.
Tipogr, dell'Accad. delle Scienze. Napoli
LE RIME
Iti
BENEDETTO GARETH
DETTO IL CHARITEO
SECONDO LE DUE STAMPE ORIGINALI
CON INTRODUZIONE E NOTE
ERASMO PÈRCOPO
PARTE SECONDA.
Testo.
NAPOLI
MDCCCXCH
I
It I M E
5
RIME
SECONDO l'edizione DEL MDIX
TUTTR LE OPERR
VOLGARI
DI CHARITEO
|I.] Primo Libro di Sonetti & Canzoni intitulato Endimione.
[II.| Sei Canzoni ne la natività de la gloriosa madre di Christo.
[IIL] Una Canzone ne la natività di Christo.
(IV.] Una Canzone in laude de la humilitate.
(V.) Uno Cantico in terza rima: De dispregio del mondo.
(VI.J Quattro Cantici, in terza rima, intituiati Methaìnorphosi.
[VII.] Uno Cantico, in terza rima, ne la morte del Marchese del
Vasto.
[VIII.j Risposta contra li nialivoli.
IIX.I Sei Cantici del liliro intitulato Paxrha.
ABBREVIATURE
(EN) — l'iiuiLi eiliz. delle rime elfi
Ch. (Napoli, Gio. Antonio de Ca-
nelo, 1506), cit. seecondo la ri-
stampa veneta di Manfrin Bon.
V. Introd.
(ST) — Ediz. principe delle rime
del Ch. ( Napoli , Sigismondo
Mayr, 1309). V. Introd.
ER. — Gli Errori de la stampa
a ce. Vviiv-Vviiiv di (ST>.
(Salv) — Postille di Ant. Maria
Salvini ad un esemplare di (ST).
V. Introd.
(M) o (M-C) — Note mss. di G.
V. Meola alle rime del Ch., nel-
la Nazionale di Napoli (v. In-
trod.); anche in Ciavarelli {Car.
e le s. op. V. . pp. 105-117); e
qualche nota di quest'ultimo (C).
(TI) — Note del Tal larigo-Imbriani
ad alcune rime del (Jh. {N. Cre-
stomazia^ voi. 11, pp. "343-335).
Omero — Secondo l'ediz. della Bi-
bliotheca Scriptorum Graeco-
rnm del Firmin-Didot: cosi p:li
gli altri classici greci, ed il Ve-
tus e Novìiììi Testameyitum.
Virgilio — Secondo V ediz. della
Bibliotheca Scriptorutn... lìo-
manorum del Teubner; e cosi
gli altri autori latini , eccetto
Claudiano ( Carmina , ediz. di
L. Jeep, Lipsia, mdccclxxvi, 2
voli.) e Lucano (Pharsalia, Pa-
rigi, Iberna ire, mdcccxxx-i, voli. 3).
Hi/mni lai. — Ilym.ni latini me-
dii aevi . . . ediz. di F. .1. Mone
(Friburgo Br. , Herder, 1834,
voi. II).
Petrarca — Con I e li s' indicano
la i)riina e la seconda pnrte, e
con 2'v. I, li,... VI, i sei Trion-
fi, secondo la ristampa Leopar-
di-Camerini (Milano, Sonzogiio,
1888): ma con III, le Rime so-
i>ru argoiuentl morali e diver-
si, ediz. Carducci (Livorno, Vi-
go, 1876I I sonetti si citano col
solo numero; le canzoni, le bal-
late, le sestine, i madrigali col
numero e con la loro lettera
iniziale (I, i,...; II, e. v,...v= parte
prima, son. primo...; parte se-
conda, canz. quinta).
Sannazaro — \j Arcadia nelTediz.
Scherillo (Torino, 1888), riscon-
trata con l'ediz. principe ( Na-
poli, Mayr, 1304); e, per le Ri-
ine, la cominiana (Padova, 1723 ),
ricorretta su la napoletana del
Suitzbach (1530). Il De partii
Virginis, secondo Tediz. di Am-
sterdam, 1728.
Fontano , De bel. neap. — Histo-
riae neapol. seu rerum suo
tempore gestarum libri sex (Na-
poli, Gravier, 1769): o la sum-
montiana (Napoli, Mayr, 1304).
Albino — De gestis regimi nea-
polit. qui eoctant libri quatuor
(Napoli, G. Cacchio, 1389).
Borrelli — Apparatus historicns
ad antiquos cronologos illu-
strandos etc; voli. 4, mss. del-
la Nazionale di Napoli.
De Lellis — Con Fam. nob. nap.
si citano gli otto voli. mss. sulle
famiglie napoletane, nella Na-
zionale di Napoli; e con Discor-
si, rislcssa sua opera a stampa
(Nel poli. Longo, voli. 6).
Istì-us. di Ferdi». I — Regis Fer-
dinandi Primi Instructionnm
liber (Na|)oli, Androsio, 1861).
Cain[)anile — Dell'armi ox->ero in-
segne dei ìiobili (Napoli, 1680).
Coniger — Recoglimento de' più
srartafi; nel voi. v della Rac-
colta di varie cì-oiiarhe ( Na-
poli. Perger, lyS'j).
ì
I.
LllJKO DI SONETTI ET C,\NZONI DI CHAKITEO
INTITULATO
KNDIMIONE
SONKTTO I.
Oe '1 loco del mio casto, alto dcàio
Non liavesse as^^'^''*^'^ '^ vero honoie.
Sarebbe stato insano & follo evrore,
Havere aperto al mondo il voler mio.
Poi che vertù Io mosse, ardir pres' io
Di far chiaro ad ciascun, senza timore.
Il tanto honesto & sì pudico ardore ,
Che centra il Ke del ciel mai non tallio.
Per la mia diva io vidi exempio in terra
Degli angeli, & in opre & in figura,
Che conti'a il vii pensier fé' sempre gueri'a.
Jo l'adorai come sustantia pura,
Da presso & da lontan: che l'huom non erra.
Il fattor adorando in .sua factura.
•4
SoN. I. — I. desio. Comunissimo
nel Petrarca, per ' amore ' (cfr. I,
b. I, 3; x.\i, i; XL, 3; e. vi, 18 ;
Lxxvii, 8 ecc.) — 8. il Re dei ciel
Petrarca, li, lxxxv, 6: u Re del
cielo, iuvisibile, immortale ». — g.
diva. Anche cosi il Petrarca (I ,
evi, 7: 2V. Ili, 11, 19 ecc.). Laura.—
n. Cfr. Petrarca, II, lxxxvi, 8:
« Ch' ogni basso pensier del cor
m avulse ». — 13. La sua donna
dimorò i)riraa in Napoli, poi in I-
spagna. Cl'r. son. seg. 7 ; cxvi e
sgg. — 14.. Dante , Purg. , xvn ,
102: « Centra 2/ fattore adovra
sua fattu)-a « ; e ctV. Farad. ,
xxxiii, 5-6. — fattor. Anche il Pe-
trarca, per ' Dio ' (I, III, 2 ; II, Lv,
II, LXXXVII, 9).
UIME
SONETTO 11.
Son geiuini gli Amori: un, casto & pio;
L'altro furente in desiderio insano:
(Questo si mostra in terra in volto liumano,
Quel vola per li cieli a lato idio,
Qual di duo raccendesse il petto mio ,
Lo sa colei, che '1 cor mi tiene in mano;
Arsi da presso, & arsi di lontano,
Con la speranza eguale al gran desio.
Con violenta voglia & imjiortuna,
Anhelando al sidereo, almo paese,
.Servii senza cercar mercede alcuna.
Celeste fu la fiamma che m'accese:
Che di quelle, che in ciel movon la luna,
Una angelica foi'ina il cor mi prese.
H
SONETTO 111.
Principe, sol di Alcide in terra un pegno,
Che i feri, horrendi mostri atterra & preme;
Di populi indigenti unica speme ,
Et sol di monarchia, più ch'altri, degno;
Son. II. — 1-4. Accenna alla Ve-
nere celeste ed alla terrestre degli
antichi, e più specialmente alle pa-
role di Socrate nel Conviv. di Pia-
tone (cap. vni, traduz. del Ficino):
(( quoniara vero duae sunt Vene-
res , geniinxts quoque Amor sit
necesse est ». Ci'r. anche il Coìiìi.
di Senofonte , cap. vni (trad. del
Foscolo, Sag. sul Petr., in Opere,
I, 7). — 6. Petrarca, li, xx, 3-4:
<(.,. colei c/l'avendo i'i maìio Mio
cor ». — 7. Cfr. Petrarca , JV-., I,
III, 168: « Arder da hinge ed ag-
ghiacciar da presso »; ed il son.
preced., 13 e n.— S. al gran desio.
Petrarca, l, e vi, 18: «Ma con-
trastar non posso al gran desio ».
— II. {ST) Servi.
SoN III. — A Ferrandino, prin-
cipe di Capua , come risulta dal
confronto con la canz. VII, in lode
di lui. — 1-2, Intendo: ' Unico figlio
del duca di Calabria (Alcide) , che
domò i baroni ribelli (mostri) al
dominio aragonese '. E dello stes-
so Alfonso, anche il Bojardo, EgL,
I, p. 78: « In terra non saran più
ìnoslri o belve, Tutte le vedo op-
presse andare al fondo Che'l nuovo
Alcide le strugge e divelle ». — 1.
pegno (lat. pignora cara): figlio;
ciV. son. XIV, 5 n. — 2. Cfr. canz.
XIX, 39 60. — 4 Nella canz. VII,
RIME 9
Il tuo valor, coraggio & alto ingegno
Dan tal dilecto & meraviglia inseme,
di', avendo te, nullo adversario teme
Questo d' Italia bella il più bel regno, s
In arme liuom lioggi incontro ad te non vale ,
Che con tal gratia & forza il braccio estendi,
Che i movimenti son sovra huom mortale. 1 1
Ardisco dirlo, &: tu da te '1 comprendi:
Tu non ritroverai nel mondo eguale ,
Se gicà tu stesso teco non contendi. 14
SONETTO IV.
Ad quanto un cor gentile ama & desia
Le mie speranze & voglie hor son si pronte ,
Ch' io spero anchor di lauro ornar la fronte
Nel dolce luogo dove io nacqui pria.
Pi-imo sarò, che'n l'alta patria mia
Condurò d'Aganippe il vivo fonte ,
Venerando di Giove il sacro monte,
Se morte dal pensier non mi disvia.
E 'n su la riva del purpureo fiume
Io vo' constituire un aureo tempio ,
In memoria del mio celeste lume.
dice nessuno più di Ferrandino co-
si degno de l' onore & nome re-
gio. — 8. Dante, I)if. xx, 61 : « Su-
so in Italia bella » ; Sannazaro , s.
XXIV, 5 : « Sperava Italia bella ». —
10-12. Anche nella canz. VII, loda
le virtù guerresche di lui.
Son. IV. — Scritto quando Fer-
rante I era ancor vivo (-{-25 genn.
1494) : cfr. vs. 12. — 3. (ST) Law-o.
Sannazaro, c.xvii, 36: «Per po-
termi di lauro ornar le chio-
me ».— 4. Barcellona : cfr. son. seg.,
14. — 5-13- Imita Virgilio, Georg.
ni, 10-16: (( Primi'.s ego in patriam
raecum, modo vita supersit, Aonio
rediens deducam vertice musas;
Primus Idumaeas referam tibi ,
Mantua, palmas, Et viridi in cam-
po templwn de marmore ponam
Propter aquam, tardis ingens ubi
tlexibus errat Mincius et tenera
jiraetesit harundiue ripas. In me-
dio mihi Caesar erit templumque
tenebit. » Cfr. il son. xi di V. Gàm-
bara a Carlo V. — 6. d'Aganippe
il v. fonte. Sacro alle Muse, sul-
l'Eiicona. —7. di Giove il s. mon-
te. Il Monjuich, presso Barcello-
na , dal lat. Mons Jovis. E cosi , il
purpureo fiume del vs. 9 è il Llo-
bregat, dal ìat. Rì'bricatus. — 8.
Petrarca, I, cxvn, i : « Pien d' un
vago pensier che mi desvia. — 1 1.
Della sua donna, ch'ei chiamò sem-
10
RIME
Et tu, Aragonio sol , eli' or io contemplo ,
Sarai del primo altare il primo nume,
Che de divinità sei primo exemplo.
H
SONETTO V,
Benché la turba errante hor non estime
Il molle ingegno mio, non me n'adiro;
Né dal mio canto in dietro io mi retiro,
Le pene rimembrando ultime & prime.
Ove '1 pensier mi leva alto & sublime
Inaino al primo ciel volando io giro ;
Da là si muove il suon del mio sospiro
Con queste dolci & amorose rime.
Et son secur, che quanto io canto e scrivo
Di quel mio chiaro & lucido pianeta
Vivrà , quand' io sarò di vita privo.
So che poi del mio fin sarà quieta
L' invidia , che si pasce hor in me vivo ;
Et havrà Barcellona il suo poeta.
'4
SONETTO VI.
Eendete gratie , o Muse , al bel paese
Napol , dove il mio core ardendo visse ,
De le fatiche, benché indarno amisse,
Per bellezze & vertù dal ciel discese.
pre Luna. — 12. Ferrante I.
Son. V.— 2. molle ingegno mio.
Anche Properzio , II, i, 2 : a meits...
mollis..X\hev'>y, le sue elegie amo-
rose.— 4. Petrarca, I, e. XII, 4:((Quai
fien ultime, lasso , e qua' fien pri-
me ».— 6. Accenna al nome della
sua donna. — 9-11. Ovidio, Amor.
I, XV, 41-42: « Ergo etiam cum me
supremus adederit ignis, Vivam,
parsque mei multa superstes e-
rit».— 12-13. Ovidio, Amor. 1, xv,
39-40: V. Pascitur in vivis Livor:
post fata qiiiescit » ; Properzio, IV,
I, 21-22: « At mihi quod vivo de-
traxerit invida turba, Post obitum
duplici fenore reddet Honos ». —
14. Petrarca, III, xxv, 3-4: a Fio-
renza avvia fors'oggi il suo poe-
ta. Non pur Verona e Mantoa ed
Arunca )> : cfr. Ovidio, Amot\ III,
XV, 7-8 — (ST) Poeta.
Son. VI. — 2. Napol. Anche cosi
il Sannazaro, e. xvu e s. xxxii.—
RIME
II
Talché colei, che'l gran Tarquinio accese,
Et l'altra, ch'aspettò tant'anni Ulisse,
A questa, ch'entro a l'alma Amor mi scrisse,
Non furo eguali in lor più sante imprese.
Et non sol le presenti & le passate.
Per honesta beltà chiara ciascuna,
Ma quante nasceranno in ogni etate;
Lor vertù numerando d' una in una,
Non tanto degne fian d' esser lodate ,
Quanto un capillo sol de la mia Luna!
«4
SONETTO VII.
Amor, se'l sospirar , se'l van desio,
Se l'importuno, amaro, aspro lamento,
Le voci triste in doloroso accento,
T' han fatto la pietà porre in oblio ;
A te stesso perdona il fallir mio,
A te, prima cagion del mal ch'io sento;
Però che se cantando io mi lamento.
Tu sei quel che si lagna , & non son io.
Et benché al mio cantar nessun risponde ,
Canto per disfogar il duol ch'io premo
Ne la più occolta parte del mio core.
Io son pur come '1 cygno in mezzo a 1' onde ,
Che quando il fato il chiama al giorno extremo ,
Alzando gli occhi al ciel cantando more.
14
5 sgg. Cfr. Petrarca I, cxxxiv,
cLXXXix. — 5. Lucrezia romana. —
6. Penelope. — 14. Somiglia l' ora-
ziano {Od. II, XII, 21-24.): « Num
tu quae teniiit dives Achaeineiies
Aut pinguis Phrygiae MygJonias
opes Permutare velis crine Licym-
niae Plenas aut Arabum iIomos«.
Son. vii.— e il 1° son. in (EN)
con le var. : i el cantar mio; 2 Et
l'i.; 3 voce; 4 hor più sfrenato
hor più restio ;^ e al van desio ;
6 Come ; 7 Perho se... me ; 1 1 Puy
e. per sfogare. — 12-14. Ovidio,
Epist. VII, I : « Sic, ubi fata vocant,
udis abiectus in herliis Ad vada
Maeandri concinit albus olor »;
Met. XIV, 430: « Carmina iam mo-
riens canit esequialia cygnus »;
Sannazaro, e. ix. it-13: «Quasi
un languido cigno su [)er l'erbe;
Ch'allor che morte il preme , Gitta
le voci estreme ».
12
EIME
SONETTO Vili.
Ben veggio, Amor, gli effetti asjjri, mortali
De la tua man, che'l cor mi afflige & preme ,
Et come in vau si spera e'n van si teme,
E '1 via magior si elege di duo mali.
La forma pueril, gli adunchi strali
Provo di piombo, & quelli d'oro inseme,
Ma di cacciarti altrove nulla speme
Mi resta, eh' a l'intrar perdesti l'ali.
Dimi, rapace Amor, perché ti piace
Pascere in nudo & arido terreno,
Facendo col mio sangue assidua guerra?
Quanto saria miglior col tuo veneno
Tentar gli altri tranquilli in lieta pace ,
Ch'io non son huom, ma ombra & poca terra.
14
SONETTO IX.
Si come io soglio, & come Amor m'invita,
Alzai gli occhi ad mirare intento & fiso
Quel volto , che già vide in paradiso
Pi-ima ch'intrasse l'alma in questa vita.
Son. yiII.-(EN) n. 3. — 3. Pe-
trarca, Tr. I, 111, 1 19: «...e che si te-
me e che si spera »; I , xix , 14:
« E come spesso indarno si sospi-
ra ». — 5-14. Traduce da Proper-
zio, III, 111, 13-20: « In me tela
manent, manet etpuerilis imago :
Sed certe pennas perdidit ille
suas ; Evolai heu nostro quoniam
de pectore iiusquam Adsiduusque
meo sangìtine bella qerit. Qui libi
iocumdumst siccis habitare me-
dullis ? I puer, en, alio traice tela
tua! Intactos isto satius teìnptare
veneno: Non ego, sed tenuis va-
pulat timbra mea ». Cfr. anche 0-
vidio , Aììior. II , IX, 13-16. — 8-9.
(EN) perdisti] Di faniolento a. —
14. (EN) Chio per me son una o. cC-
poco t. — Petrarca, Tr. Ili, i, 2:
« Ch'è oggi nudo spirto e poca
terra ».
SoN. IX.— (EN) n. 5.— I. Pe-
trarca, I, Lxxvm, 5 : « Qui mi sto
solo, e come amor m'invita»;
e. XIII, j -.(.(. E coni' Amor la in-
vita ». — 2. Petrarca , I , xiu , 8 :
« Mentr'io son a mirartn intento
e fiso ».— 3. vide. Cioè l'alma del
vs. sg. Qui accenna alla dottrina
platonica della preesistenza delle
anime a' loro corpi ( v. Platone ,
Tim., 41-42 , e la canz. VI, 19 sgg.).
UIME 1-3
Simile il vidi a la beltà influita
D'augelica natura, al chiaro viso,
A la voce, al colore, al dolce riso,
Ai cape' d'oro & a 1' età fioi'ita. 8
Allhora vidi Amor, die 'n un momento
Mosse centra di me tutte quell' arme ,
Che mover suol ne le più forti imprese. n
Ond'ella per pietà del mio tormento
Lieta ver me voltossi ad salutarme ;
Et con più nova fiamma il cor m'accese. 14
SONETTO X.
Come stanco nocchier talhor si suole
In mar pien d'alte & turbide procelle
La notte affatigar priva di stelle ,
Il di carco di nubi & senza sole ;
Così, lasso!, ad tutt'hore il cor si duole ,
Trafitto da mortali aspre quadrello,
Bramando di veder le luci belle ,
Ch' Amor per suo destino honora & cole.
Et discerner non sa la dubia mente
Qual sia pena minor: pascer la vista
Ne la mia Luna, o contemplarla absente.
Pace non ha da lunge l' alma trista ;
Nel suo conspetto il foco è via più ardente :
Tal vita, Amor seguendo, alfin s'acquista!
14
— 6-8. Cfp. il petrarchesco (II, xiv,
14): « Air andar, alla voce, al
volto , ai panni »; anche noi Pe-
trarca, poi: chiaro viso (I, Lxxiii, 9;
II, Lxxvi, 1) e dolce riso (l, lxxxiv,
I ; e. xt, 58; b. VI, 2 ; li, Lxxvi, 4;
Tì\ III, II, 86). — 8. (EX) e. bion-
di. — Petrarca , II, x, i : « Neil' e-
tà sua più bella e più fiorita »;
LXii , 3 : « Qual io la vidi in su
Vetà fiorita ». — 9. (EN) io vidi.—
1 i.(EN) m.sóle in le. — 12-14. l^e-
trarca, I, b. v, 1, 3-4: « Volgendo
gli occhi... Pietà vi mosse; onde
benignamente Salutando, teneste
in vitali core». — i4.(EN) ardente.
SoN, X. — (EN) n. 6.— I. Pe-
trarca , I, e. vili, 46-47 : « Come a
forza di venti Stanco nocchier di
notte »; e, 2: «... giammai stan-
co nocchiero ».— g-i i. Da Ovidio,
Epist. XV, 233-234: « Quid faciam,
dubito: Dolor est meus illa videre,
Sed dolor a facie maior abesse
sua ». — 13. (EN) En sua presema
il f. è assai p. a. — 14. Petrarca, Tì\
I, I, 25 : « Dicendo: questo per amar
s' acquista ».
14 RIME
MADRIGALE I.
Amor per augmentar la i^ena eterna
Che centra ogni ragione ogn'liora sento,
Mi fé' veder quel sol che mi governa,
Oscuro no, ma si turbato in vista,
Che dava segno di fatai portento.
Tal che del rimembrar l'alma s'attrista.
Et vidi i raggi d'oro a mezzo giorno
Sovra '1 candido collo andare errando,
Ch' asserenavau l'aere d'ogn' intorno;
Ond' io rimasi cieco sospirando.
SONETTO XI.
Mirand'io intento il candido pianeta,
Che mi governa & regge in dubio stato,
Non so per qual destino o per qua! fato
Non era, come suol, con vista lieta.
Io con la mente timida , inquieta ,
Vedendo il volto suo così turbato ,
Eimasi pur com'huom, che spaventato
Ne l'aere vede un lucido cometa.
Premendo dentro il cor l'alto dolore,
Et col volto speranza simulando.
Celai li miei pensier dogliosi & mesti.
forse presente il s. lmi del San-
nazaro. — I. Petrarca, I, xiir, 8, in
n. al son. IX, 2; Sannazaro, /. e, i :
« Stando per meraviglia a mirar
fiso». — il candido pianeta. La
sua Luna.— 5. inquieta. (ST) ini-
qiiieta, corr. negli ER. — 8. un lu-
cido cometa. Cfr. il ^r. 6 v.ou:r,r(.z ,
il lat. diri cometae (Vir?., Georg.
I, 488): ancbe G. F. Caracciolo (f.
Son, XI. — (EN) n. 7. — Ebbe 1 Ixxx v): « Como il raggio de qui-
Madr, I. — ( EN ) n. 2 , senza
var.— 4. Petrarca, I, e. i, 81 : a Ella
parlava si turbata in vista ». —
7-8. Da Virgilio, Georg, iv, 337:
« Caesariem effnsae nitidam per
candida colla ». — 9. Petrarca, I,
Lxxii, 4: « Che fanno intorno a se
r aere sereno d ; evi, 8: « ... che '1
ciel rasserenava intorno »,
KIME
Constretto alfin da paventoso liorrore ,
Queste parole dissi sospirando:
— Tante ire son neE^li animi celesti ? —
iS
H
SONETTO XII.
Quando talhor cantando il mio dolore
Riconto a la mia Luna, che m'ascolta,
Il pianto in riso spesso ella rivolta,
Et in gelata neve il cieco ardore.
Poi dice : — Egli è poetico furore,
Che fa gli liuomini insani alcuna volta,
E 'i far cantar con voce altiera & sciolta
Finti tormenti & non -perfetto amore.
Chi more amando & premio non desia ,
Et pascesi di star sempre digiuno ,
Non voi ragion, che fé data gli sia.
Et la ragion anchor monstx'a ad ciascuno ,
Che finger di pater per gran follia,
È dishonore, & non remedio alcuno. —
14
SONETTO XIII.
Io seguo chi mi fugge & si nasconde,
Et fuggo da chi vuol farmi contento ,
Lascio il terrea per seminar nel vento ,
Dispregio il frutto, & pasco amare fronde.
sto mio cometa « — 12. (EN) For-
zato... da spaventoso. — 14. Virgi-
lio, Aen. I, 1 1. «... tantaene animis
caelestibus irae?»; Sannazaro, l.
e, 14: « Tant'ire son negli animi
celesti? ».
Son. XII. — (EN) n. 8. — 4. Pe-
trarca, I, e. XVII, 82-83: «... ho '1
cor via più freddo Della paura che
gelata nere ». — 5. (ST) Poetico. —
3-8. (EX) eh' è p.; Che ne sòl fare
insani a. v.\ Mi fa : Fiati. — 1 1 .(EN)
La ragion vuol che creduto non
sia. — iyi4.{KS)patir]DishQnorè.
Son. XIII. — (EN) n. 9. — 1 sgg.
Sul fare di que' del Petrarca, 1, e.
IX, 27-30: « Alcun è che risponde
a chi noi chiama; Altri chi') pre-
ga , si dilegua e fugge; Altri al
ghiaccio si strugge. Altri di e notte
la sua morte brama ». — i..(EN) ad
chi; (ST) ad chi, poi corretto in
ER. — 1-2. Ovidio, Amor. II, xix,
36: « Quod sequitur, fugio; quod
fugit ipse sequor ». — 2. (EN)
fitggio. — 3. Petrarca , I , clviii ,
4: « Solco onde, e 'n rena fondo,
e scrivo in vento ». — 3-4. (EN) in
i6
RIME
Misero sitibondo fuggo l'onde,
Possendo liaver piacer, cheggio tormento,
Ad ognihor son chiamato & io no"l sento,
Et chiamo chi giamai non mi risponde.
Ne le fiamme divento un pigro gelo ,
E 'n mezzo de la neve un foco ardente ,
Lascio il riposo & vo dietro al dolore.
Mia colpa no , ma crudeltà di cielo
Repugnare al voler non mi consente:
Così sempre mi segue & fugge Amore.
14
SONETTO XIV.
Candido somno , allegro, lieto & chiaro.
Che dal beato elei scendesti in terra.
Per dar conforto al dolor che m'atterra,
Et a sì lungo mal breve riparo.
Quel pegno pretioso, dolce & caro,
Che 'n un fermo voler gli animi serra,
Concesso m'hai, poi de sì lunga guerra,
Con poco mei temprando un molto amaro.
Per tua mercé dormendo contemplai
Quella beltade & quel soave, ascoso
Candor, che nel mio cor sempre reluce.
V.; sitibundo fuggìo. — 9 Petrarca,
I, XXI, 5: « Dal pigro gelo e dal
tempo aspro e rio ». — 12-13. (EN)
culpa; col V. — 14. Finisce come
tant'altri del Petrarca, I, lxxvi,
14: «Notte e di tienmi il signor
nostro, Amore » ; ecc. ecc.
SoN. XIV.- (EN) n. 1 1. — Ebbe
presente i sonn. li e lu del Sanna-
zaro. — 1-2. Sannazaro, s. li, 1-4:
« sonno, o requie, e tregua de-
gli affanni. Che acqueti, e plachi
i miseri mortali. Da qual parte del
ciel movendo l'ali. Venisti a con-
solare i nostri danni ». — ( EN )
amejio /. ecc. ; scendisti. — 5. Pe-
trarca, II, Lxviii, i: ii Dolce mio
caro e prezioso pegno »; I, e. n,
55-56: (( Quanto '1 Sol gira, A-
mor , piU caro pegno , Donna ,
di voi non ave ». Cfr. son. Ili ,
i e n. — 7. concesso m'hai. V. il
brano del Sannazaro in n. ai vv. g
sgg. — lunga guerra. Cfr. Pe-
trarca, II, Lxxv, 12; Tr. VI, 140;
III, V , 8.-8. Petrarca, II, e. vn,
24-25: « Oh poco nìel, molto aloè
con l'eie, In quanto atnaro ha la
mia vita avvezza »; TV. I, ni, 186,
190: « Ch'un poco dolce molto a-
ynaro appaga,... E qual è '1 m.el
temprato con l'assenzio ». — 9 sgg.
Sannazaro, s lui, 1-3 : «Quel che
vegghiando mai non ebbi ardire
Sol di pensare , o finger fra me
stesso, Contra mia stella il sonno
or in' ha, concesso ». — V. vs. 7 n.
10-12. (EN) suave:, traluce; no. —
'7
Vidi quel clie non spero veder m^i;
lìingratio te, che fusti più pietoso,
Clic quella mia celeste & alma luce.
SONETTO XV.
— Quest'è pur quella fronte alta & gioconda
Che turba & rasserena la mia mente;
Quest'è la bocca, che soavemente
D' amorosa dolcezza hor mi circonda.
Questi son gli occhi che'n la più profonda
Parte del cor m'han posto fiamma ardente;
Et questo è '1 petto che profusamente
D'almo candore & pudicitia abonda.
Hor ne le braccia io tengo il corpo adorno
D' ogni valore , hor son con la mia dea ,
Hor mi concede Amor lieta vittoria...—
Così parlar dormendo mi parea;
Ma poi che gli occhi apersi & vidi il giorno,
In ombra si converse ogni mia gloria.
SONETTO XVr.
Da che si leva il sol da i rosei scanni
De l'alba, insin che giunge al celo hispano ,
Piango & sospiro, & m'affatigo in vano
Per cui non vede i miei continui danni.
13. Sannazaro, s. li, S (al sonno) :
(( Ringrazio pur tuoi dolci, e cari
inganni». — più (ST)jJi>?,non corr.
in ER.
Son. XV. — (EX) n. 40, senza var.
Imita il Sannazaro, s. L, 1 sgg. :
« Son questi i bei crin d'oro, ecc.
ecc. » Cfr. Petrarca. II , e. vi, 56-58:
«Son questi i capei biondi e l'aureo
nodo, Dico io, eh' ancor mi strin-
ge, e quei begli occhi Che fur mio
Sol?)). — 5-8. Sannazaro, /. e, 3-5:
«Son questi gli occhi ond'usci'l
caro sguardo. Ch'entro '1 mio petto
ogni vii voglia estinse? E questo il
bianco avorio». — 13-14- Sannaza-
ro, l. e, 13-14: « Chi ebbe, dicev'io,
mai glorie tante? Quando apersi,
oimè, gli occhi e ridi il Sole ».
SoN. XVI. — 1-3. Petrarca, I , s.
I, 7, io: « Ed io, da che comincia la
bell'alba... Non ho mai trjpgua di
sospir ».— I. scanni , 'seggi', come
in Dante, 7>?/". 11, 112; Par. iv, 31
XVI, 27, xxxn, 29; e nel Sannazaro'
s. Lxx, 3.— 2. al e. hispano ' ad oc
i8
ItlMK
Tanto riposo, quanto i dolci inganni
Del somno Amor mi mostra in volto hnraano,
E i sol tbesauri anchor con larga mano
Mi porge, in guidardon di tanti affanni.
Del desiderio il fine imaginato ,
Dormendo i sensi , fa veghiar la mente ,
Talché ne i sogni io son lieto & beato.
Morir vorrei dormendo eternamente;
Che, se '1 somno a la morte è somigliato,
In tal morte io vivrei felicemente.
SESTINA I.
Quel ch'io no' spero mai vedere il giorno
Ne la pivi bella & più serena luce,
Veggio dormendo ne la oscura notte.
Ond'io ringratio il mio soave sonno,
Che mi mostra benegna la mia Luna,
Agli occhi miei più chiara assai che '1 sole.
Ma poi che rincomincia uscire il sole,
Et col novo splendor n'adduce il giorno,
Si presto fugge il lume de la Luna,
Ch'io resto oscuro, quando gli altri han luce;
Tanto riposo, quanto dura il sonno.
Et per me il di sereno è negra notte.
Candida, luminosa & lieta notte.
Che vincer puoi si facilmente il sole .
Tienmi sommerso in si profondo sonno ,
cidente'. — (ST) Hispann.—z,. dol-
ci inganni. V. il vs. del Sanna-
zaro in J7. ai son. XIV, 13. — 11.
Petrarca , I, clviii , i : a Beato in
sogno e di languir contento ». —
12-14. Cfr. Sannazaro, s. lui, 11-13:
;( Devea quel brieve sogno fare e-
terno. 0, se per morte tal piacer
s' acquista . farmi morendo uscir
da questo inferno ». — 13. Ovidio,
Amor. II, IX, 41 : « Stulte, quid est
somnus, gelidae nisi mortis ima-
go ? »; Virgilio, yEn. vi, 522:
« Dulcis et alta quies placidaeque
simiilima morti »: cfr'. Omero, Od.
xni, 79-80.
Sest. I. — (EN) n. 41. — 1-6.
Cfr. il son. XV. 9-14.-1. (EN) non
spera' .—j.(E}i)in la tì~anquilla. —
6. Petrarca , II , lx , 3 : «... più
chiara che 'l soley>. — 9. Petrar-
ca, II. s. VII, 37: K ... al lume della
lima ». — il. Cfr. son. XVI, 5-6. —
RIÌIE
IO
Ch'io non veggia mai più aurora o giorno,
Sol che lui mostri la perpetua luce
De la mia casta , pura & aurea Luua.
Quando comincia uscir quell' altra luna
Dal nostro mar, per dar lume a la notte,
Allhor m' addormo & veggio l'alma luce
Di quella, che mi scalda più che '1 sole;
Ma , poi che aprendo gli occhi , vedo il giorno ,
Conosco che mia gloria è ombra & sonno.
Sempre si mostra dolce in dolce sonno
Ne la vigilia amara la mia Luna;
Et benché alcuna volta io soglio il giorno
Veder sua forma vera, & non la notte.
Si despietata si dimostra al sole ,
Che vita oscura aspetto di sua luce.
Le tenebre de gli altri ad me fan luce,
Pur che da gli occhi miei non fugga il sonno,
Né m' abbandono a l' apparir del sole
Il fugitivo raggio de la Luna.
Cosi si chiudan in eterna notte
Questi miei lumi, & mai non vedan giorno.
Non vide giorno mai più bella luce,
Ch'io quella notte, che mi venne in sonno
La Luna ignuda ornata del suo sole.
t8
30
36
39
CANZONE I.
Tra questi boschi agresti ,
Selvaggi, aspri & incolti,
Ov'io son solo, & altri non mi vede,
23. (ST) ochi, non corr. in ER. —
24. Clr. son. XV, 14.— (EN) Co-
gnosco. — 34. Petrarca, I, e i, 112:
(( Ivi accusando il fuggitivo rag-
gio ^).—l^. CtV. sou. Xl\', 9-11. —
sole, ' bellezza'.
C.^Nz. I. — (EN) n. 10. — 1-8.
Properzio, I, xviii, 1-4: « Haec certe
deserta loca et laciturua querenti,
Et vacuum Zephyri possidet aura
nemus: Hic licet occultos proferre
jupuue dolores , Si modo sola
queaiit saxa tenere /idem » ; San-
nazaro, e. VII. 1-6: « Or son pur
solo, e non è chi m'ascolti Altro
eli' e' sassi, e queste querce ami-
che , Ed io ; se di me stesso oso
fidarme. secretarj di mie peae
20 - UtMK
Posso far manifesti
I miei tormeuti occolti 5
E '1 foco, che l'afflicta alma possedè.
Sol che constante fede
Si trove in questi sassi;
Et non m' accuse il vento,
— Che mux'murar lo sento io
Pei' questi luoghi foschi, oscuri & bassi, —
A quella, che m'incende;
Che del parlar d' amor tanto s' ofi'eude.
Onde cominciaranno
I ]3rofondi sospiri , 1 5
Ch' emjiiou del mio dolore il bosco ombroso.
Ad ricontar 1' all'anno ,
Le pene & li martiri,
Che sente il cor senza sperar riijoso ?
Quel volto disdegnoso, 20
Che con un dolce errore
Rivolve la mia vita,
Ad pianger più m' invita ,
Non volendo eh' io pianga il mio dolore ;
Né vuol eh' io caute scriva, 25
Et di j^arlarne meco anchor mi priva.
Che deve dunque fare
Un cor eh' è destinato
Ad amar sempre & non posar giaraai ?
Et di lagrime amare 30
Si pasce Amore ingrato ,
Et non se può satiar di pene & guai.
Folle si mostra assai.
antiche, A cui son noti i miei pen- 1 stus? Quod mihi das flendi, Cyn-
sieri occolti Potrò fra voi sicuro i thia , principiiim? » — 16. (ÉN)
or Jamentanno? ». — 9-ii.Sanna- | enipien. — 17. Sannazaro, e. vin.
7aro , e. XI, 11-12: «Né il vento i 26: « Comincio teCo a ricontar
ne riporte i niiei sospiri In parte j miei danni ». — 27. (EN) dhelbe
ove io non voglia», — 14-ig. Pro- 1 adunca. — 30. Petrarca, I, xui, i:
perzio, ^. e, 5-6: <( linde tuos pri- « Piovonmi aìnare laqriìne dal
mura ropetam , mea Cynthia, fa- ! viso ». — 33-36. (EN) Et fiamma
lllME 2 1
Chi pugna con chi insegna
Di macular le mane 35
Nel sangue <fc membra humane :
Come colei che die' la morte indegna
Al frate & a li figli ,
Seguendo amore e i mal presi consigli.
Però quest'aspre pene 40
Con rime acerbe & dure,
Conformi assai con questo liorrlbil foco ,
Disfogar mi convene
Tra queste selve oscure,
Poi che pianger non lice in altro loco. 43
Qui senza tema invoco
La cagion de mia morte,
Quella, ch'ai primi giorni
Mostrò con atti adorni
Segni de più gioconda & lieta sorte, 50
Ond'io presi baldanza,
La qual poi mi privò d' ogni speranza.
Talhor quand' io cantava
In più soavi accenti
Col cor pien d'ardentissinia dolcezza, 55
Intenta ella ascoltava
Il suon di miei lamenti ,
Odendo ragionar di sua bellezza.
Et con dolce vaghezza
Mi disse un di ridendo: 60
— N.è donna, né donzella
Fu vista mai si bella,
(& foco Gli piace: <& anco insegna 1 gliuoli Mermero e Perete. — 38-39.
Di macT.lar le{sìc)maììoNel molle (EN) Aluno e alaltro figlio... elm.
saìigiie huniano. — 34-36. Da Vir- preso consiglio. — 39. Petrarca, I,
gilio, JS'r/. vili , 47-48 « Saevos A- cxvii , 13: « Di scovrirle il mio
luor docuit naturimi sanguine ma- mal preso consiglio ». — 30. (EN)
treni Comraacn lare niaiius ». Cfr. Segni di farme haver piti lieta s.
anche Properzio, IV', xviii, 17-18.
37-39. Medea, p^r amo.' tli Giasone,
uccise il fratello Apsirto ed i fi-
— 38.(EN) Intendo {X.in tendendo)
lodar la s. b. — 61. Petrarca, I, e.
XV, 2^: « Né donna né domel-
22 lilMli
Com'hor tu canti. — Ond'io risposi ar Jendo :
— Quel che non trova pare
Il vostro sjpecchio sol vi può mostrare ! —
Cosi quel folle ardire ,
Che forse agli altri giova ,
Fu cagion d' affrenar quasi il desio.
Forzandomi il martire
A far l'ultima pruova
D'aprir tacitamente il dolor mio.
Talché quella, per ch'io
Ardo, quand'heLbe intesa
La voglia tanto audace,
Con un volto minace
Da rivocare ogni alta & forte impresa ,
Superbissima tacque :
Ond' un gelato ardore al cor mi nacque.
Canzon mia, non uscir fuor da la selva,
Pon freno a la tua voglia,
Finché mercé del cielo indi ti scioo^lia.
6s
7b
BALLATA 1.
Amor par che si sveglie & j^renda 1' arme
In mano per aitarme & farmi audace,
Ma sempre sì fallace
M' il trovo, ch'io non oso in lui fidarme.
Quei begli occhi soavi , che mi fanno
Languire in tal furore,
Monstran più lo splendore
Che prima, quando m' eran tanfo avari;
7a 1). — 63-65,. (EN) scriiri; Il vo-
stt^o specchio chiaro Vi pò ma-
sticar quel che non trota il pa-
ro.— 67. (EN) d'abassar lalto d.—
69 (EN) la f. — 76. (EN) Sitper-
ba alhor. — 78. ( EX ) [ore dil
bosco.
Ball I. — (EN) n. 12: 7. 2^iù
1(1 mi: 23
Et girano il martire in dolce afTanno,
!*ra non s'allegra il core,
Anzi cresce l'ardore,
E molto più son li tormenti amari. 12
Però che quand' io veggio i segni chiari
Del mio sperar, che nasce a poco a poco,
AUhor pili m'arde il foco,
Et dubito ch'Amor vole ingannarme. 15
SONETTO XVII.
Insidioso Amor sempre fallace,
Fraudulente speranze & vana fede,
Con perfide promesse di mercede
Mi volete forzar d'essere audace? 4
Occhi, ov' accende Amor l'ardente face,
Et rinovarla ogn' hor chiaro si vede ,
Poi' che l'afflicto cor più non vi crede.
Tentate alcuni, che viva in lieta j)ace. g
]\[a voi, biasteme inique, aspre, mortali.
Repulse dispietate e sdegni crudi.
Continuate i vostri amari accenti. 1 ,
Che i miseri dan sol fede a lor mali.
Che son d' ogni speranza tanto ignudi,
Che creder mai non ponno esser contenti. 14
MADRIGALE II.
Io vidi, Amor, li tuoi faUaci inganni.
Et so eh' un dolce sguardo porta appresso
Mille repulse, sdegni & ire amare. 3
risplendore; 12 li sospiri; 16 voi.
— 1 1. (ST) ctesce, corretto ia EU.
Son. XVIF. — (EX) n. 13: 2 spe-
ranza; 5-Ó Dolce mirar pien da-
moroso (sic) face Oro ad ognora
amor e. se v.;8 T. alcun ; 9 b. Ì7i-
inste a. mortale.— 12-1$. Petrar-
ca, I, xcix, 14: « Gli' a gran spe-
ranza iiom misero non crede ». —
(EN) dan fede solo al male ; Per-
che son- di speranza t. i.
Madr. IL— (EN) n. 14: 7 es^
24 KIME
Ma j)er fuggire alcun di tanti affanni, 4
Creder ti volsi & ingannar me slesso;
Hor questo inganno in me non può durare.
Ch'io veggio in crudel signo essersi vòlto
De la mia Luna il chiaro & lieto volto. s
SONETTO XVIII.
Poi che saper volete in quale stato ,
Madonna, Amor servendo, io mi ritrovo,
Odite il mal meraviglioso & novo,
Che sempre mi procura il duro fato. 4
Per r aere vo volando , & sou portato
Da tempestosi venti, & non mi movo;
Et caldo & freddo ogn'hora inserae provo,
E spero da speranza abbandonato. . 8
D' un monte chiaro & pien di bianca neve
Esce la fiamma ardente che mi strugge,
Et tremo ove m'accende il gran desio. n
Veggio Amor che si mostra hor grave, hor lieve,
Hor mi segue correndo, & hor mi fugge:
Quest'è '1 morire, & questo è '1. viver mio. 14
SESTINA II.
Ne la stagion che suol mancar la notte
Non tanti fior produce 1' alma terra.
Né tante fronde sparge autunno al vento.
ser rivolto. — 5. Petrarca, Ti: I, I donna : o Chiaromonte , o Mon-
ili, 166: « So mille volte il di in- | talto , o altro simile in cui entri
ganìtar me sfesso ».
SoN. XVIIl.— (EN) n. 15.— Imita
il Petrarca, I, xc. — 1-2. Petrarca,
Le, 14: din questo stato son,Don-
va, per vui ». — 4. (EN) il crudel
/!— 5-6. Petrarca, /. e. , 3: « E volo
sopra "1 cielo, e giaccio in terra ». —
7-8. Petrarca, l. e. , 2: « E temo e
spero , ed ardo , e son un ghiac-
cio )). — 9-11. d' un monte chiaro.
Si potrebbe forse nascondere in
queste parole il cognome della sua
la voce monte, mess-dv\ certamente
di proposito, e mancante, si badi ,
al brano petrarchesco qui imita-
to (I, CL, 1-2, 8): « D'iin bel, chia-
ro, polito e vivo ghiaccio Move la
fìamtna che m'incende e strtigge,..
Ed io, pien di paura . tremo e tac-
cio » (e dal suo vs. 7,' il fugge del
vs. 13).— 10- II. (EN) Nasce; <&più
m accende.
Sest. II. — (EX) n. 17. — Ebbe
presente il Petrarca , I , s. vu (di
RIME
Né tante fere sono in ciascun bosco,
Né tante stelle fugga il chiaro giorno ,
Quanti son nel mio petto acuti strali.
Amor con velenosi & aspri strali
Non mi lascia posar sol una notte ,
Anzi mi fa vegliiare insino al giorno ;
Poi, ritornando l'ombra de la terra,
Vo pur come animai di bosco in bosco,
Spargendo le mie voci in vano al vento.
Mai non bastò procella o forte vento
In affrenar d' Amor gli adunchi strali ,
Né mi valse fuggire in antro o bosco ,
Ch' a l'alba, al sole & a la negra notte
Non pensassi con gli occhi fissi in terra
A quella, che mi prese al primo giorno.
S'io potessi veder che solo un giorno
Il mio cantar non se ne andasse al vento,
Alzandosi il mio ingegno da la terra ,
Pur ch'allentasse Amor l'arco & li strali.
Mai più non temerebbe eterna notte
Quella, che Pan chiamava a l'alto bosco.
Ma vedrasi senz' ombra il negro bosco ,
La sera fia comincio del bel giorno,
cui mantiene le rime notte, boschi)
ed il Sannazaro, sest. iv (di cui
serba le rime bosco , vento, stra-
le). — I. Petrarca, I, e. iv, i : « Nella
stagion che il elei rapido inchi-
na».— 2-6. Petrarca,!, s. vii, 1-6:
« Non ha tanti animali il mar fra
2 1 : « A forza mi fa gir di bosco
in bosco ». — (EN) Vo con gli al-
tri. — 13-15. (EN) Mai per pro-
cella o tetyipestoso v. ; Noyi tenne
in dietro a. l' a. s.; in prato o
b. — 18. (EN) vinse.— 22-30. (EN)
{P. chatnore adolcisse i anni s.) ;
Tonde, Né lassù sopra '1 cerchio : tetri eria ; Quella che mi ritiene
della luna Vide mai tante stelle inchinso al boscho; ogniun ve-
aicuna' noWe. Né tanti augelli al- ' drà\ La s. in v.n momento se-
bergan per li boschi. Né ta»f'erbe \ rà g.\ Li di si mntarano in una
ebbe mai campo né piaggia, Qi<an- 1 n. ; firmo; chadolcisca amor la-
J'ha '1 mio cor pensier ciascuna 1 mari s. ; asciutta. — 23-24. La
sera »; e Sannazaro, l. e, i sgg. : Luna, amata anche da Pane. Vir-
Non fu mai cervo si veloce al | gilio, Georg. 111, 391-93: « Munere
sic niveo lanae, si credere dignum
est, Pan deus Arcadiae ca[)tam te,
Luna, fefellit In nemora alta vo-
cans». — 25-30. Cose impossibi-
4
corso Né leopardo ecc. ». — 6. San-
nazaro, ^. e, 9: «Ripensa al velenoso
acuto stilale ». — 7-8. (EN) vene-
nosi; lassa. — 11. Sannazaro, l. e,
26 KIME
Et portarà l'aurora oscura notte,
Il foco sarà freddo & 'fermo il vento,
Pria che dal cor si partan tanti strali,
fior si veda in questa arida terra. 30
sole, luna, stelle, mare, o terra.
Volete pur clie'n questo oscuro bosco.
Col cor trafitto di pungenti strali ,
Vedan quest' occhi miei l' extremo giorno ?
Né mi veggia morire altro che '1 vento ,
Senza sperare una felice notte ? 36
La Luna, honor di notte & del bel giorno,
• Gli strali addolcir può nel dolce bosco,
Et col suo vento rinfrescar la terra. 39
SONETTO XIX.
Forse che voi col parlar crudo & fiero,
Con repulse sdegnose & fervide ire ,
Col superbo tacere & volto altiero
Credeti spaventar l'alto desire? 4
Eitorne in dietro il vostro van pensiero ,
Ch'Amor non sa temer pena o martire.
Et quant'io da vertù men j)remio spero,
Più cresce 1' animoso & vivo ardire. g
Vostra beltà coi primi sguardi suoi
Nel cor mi penetrò si ratto & forte.
Che forza mai non hebbe uscirne poi. 1 1
Ragion non già, ma l'importuna sorte
Mi stringe ad desiar di veder voi ,
Ch'io so che vo cercando la mia morte. 14
li : come 7iei latini ( Virgilio ,
Egl. I, 60-64, Properzio IH, vii,
29-33, XXX, 49-51 ; IV, XVIII, 5-8;
Ovidio, Ibis, 31 sgp:. ecc.) e nei
nostri ( Petrarca I , xxxvii , 5-8 ,
s. VII, 16- 1 8 ; Sannazaro, Arc..\). yi).
scuro il bosco ». — 33. Petrarca,
Tr. I , I, 30 : « Parte feriti di pun-
genti strali «; Sannazaro, l. e., 34:
« Pungimi il cor con un più bello
strale)).— Si- (EN) reda. — 38-39.
(EN) paria adolcir& in questo b. ;
■26. comincio. Anche nel Vocah. Et col bel w
con un esempio di Fra Guittone, Son. XIX. — (EN) n. 18: S> cie-
Lett, j2. — 32. Sannazaro, sest. IV, co a.; 11 Che giamai ne pos-
31: «Signor, tu vedi quanto è 0- I sula uscir di poi; 13 ad ricer-
RIME
27
SONETTO XX.
Se'l parlar perturbato & pien di horrore ,
Diverso da l' humano & lieto volto ,
Ha possuto privare un core stolto
D' ogni speranza & d' ogni cieco errore ;
Scemar non può quell' abundante ardore
Che vive & cresce sempre dentro occolto ;
Ma temo ch'io sarò tosto sepolto:
Si m' afflige il mortale impio dolore !
Ma s' alcuna ombra in ciel negli abissi
Riman di poi l' acerba morte mia ,
Non gira mai tra l'anime quiete,
Anzi chiamando il nome in ogni via
Di lei, per cui, morendo, al mondo vissi.
Non passarti le negre onde di Lete.
14
CANZONE II.
Errando sol per antri horrendi & foschi,
Et per deserte piagge, aspre & noiose.
Sterili, ove giamai pianta non nasce;
Non, come pria solca, per lieti boschi,
Né per fioriti prati valle ombrose,
ca}\ — Similmente il Sannazaro ,
s. xml : « Se per fiirmi lasciar la
bella impresa, Mi mostrale, Ma-
donna, orgoglio ed ira ecc. ». CtV.
anche Peirarca , I, cxix , 12-14,
cxs, 9-14.
SoN. XX. — (EX) n. 19: 4 va-
no; 5-6 Non -pò ìnancar del a.
a. Chio tengo dentro a calma
sempre o. ; 8 aspro d ; 9-11 in
terra o in ab.; in ciel ritnane
dipoi la m.m. ; Non potrà gir fra
laltra me (1. alme.) q.; 13 Di
quella per cui al mondo in pena
V.; 14 N. p. giamai lacqua di l. —
5. quell' a. (ST) quel , non corr.
in ER. — 9. Petrarca, I, xcv, 9:
« Ponrai in cielo od in terra od in
abisso ».
Canz. II. — (EN) n. 20. — Imita
il Sannazaro, e. xv; il quale quel-
l'immaginazione di Lucrezio, De
rer. nat. 111, 991-1021, che i sup-
plizi immaginati dai poeti per l'ol-
tretomba non fosser altro che i do-
lori della vita [ « Atque ea, nimi-
rum, quaecumque Aclierunte pro-
fundo Prodita sunt esse, in viia sunt
omnia nobis »] ; riferi tutta ai tor-
menti di amore. E da essi anche M.
A. Epicuro nella Cecaria, p. 36 sgg.
(M). — 4. (EX) Non già come s. —
5. Manca in (ST) , T ho supplito
28
EIME
Mi mena Amor, che si nutrica & pasce
Del mio cor , clie rinasce
Et cresce ogni hora assai più che non manca ,
Devorato di quel bramoso augello ,
Sol perché fu rehello
De la ragion , la qual fugata e stanca
Fu vinta dal desio terreno & frale ,
Ch' ebbe ardir di tentar cosa immortale.
La notte e '1 di per naturai costume,
Misero!, in van supporto eterni affanni,
Servendo a tal , che del mio mal non cura.
Al lito d' un veloce & alto fiume
Un vaso perforato & pien d'inganni
Empio de l'acqua turbida & oscura,
Che dentro poco dura,
Fluendo per le rime in un momento,
Et chiaramente veggio il falso inganno.
Et pur sempre m'affanno ,
In questo amaro , eterno & van tormento ,
Ch' io suffro & per mia colpa & per mia sorte ,
Che diedi a la ragione indegna morte.
Ne l'acque fresche, liete, dolci & chiare
'5
da (EN). — 6-g. La pena di Tizio.
Virgilio, uSSn. VI, 398 e 600:
« Immollale iecur.,. iiec fibris re-
quies datur ulla reiiatis ». Sannaza-
ro, l. e, 108-110: «E per più do-
glia il cor sempre rinasce; E del
suo danno pasce Quel fier clie più
digiuno ognor l'assale». — 8-9.
(EN) Ognor crescendo; Quandol
deverà il famolento iicello. — 11-
13. Sannazaro, l. e , 103-107: a On-
d'è ragion ch'incolpe Se stessa, e'i
suo pensier vano, e fallace; Che la
fé troppo avulace In cercar per
suo male Tentar cosa itnmor-
talef). — 12. (EN) venuta (I. ven-
ta).— i^. (EN) In vano mi afa-
tigo <& senza prode. — 16. Pe-
trarca , I , m. IV , 2 : « Tuo regno
sprezza e del ìnio mal non cu-
ra »; e. V], 45: « E la colpa é di
tal che non ha cura ». — 17-21.
La pena delle Danaidi. Sannaza-
ro , l. c.^ 17-24: «Tra le infide so-
relle al mesto fiume (Ahi fatiche
diuturne) Il di mille, e mill'urne
Torna ad empir tutte di fondo
scosse. Né per riposo mai d' ore
notturne, Per caldi, né per bru-
me Cessa dal suo costume, Sic-
com'ella di lor pur una fosse ». —
18. un vaso perforato. Lucrezio,
l. e , 1007 : « pertusum . . . vas ». —
(EN) &pien di frode. — 21. ri-
me, latin. ' fessure'. — 24-28. (EN)
aspro t. ; ce non per s. ; Poi che
die; amene dolce & e. ; ieiunn. —
27-33. La pena di Tantalo. San-
nazaro, l. e, 49-64: «Al dolce
suon de' rivi freschi, e snelli Si-
RIME
Ardo digiuno, infermo & sitibondo,
Et bagnar non mi posso i labri ardenti.
Ognilior mi vien, per più mi tormentare,
Un pomo suavissimo & giocondo
Inanzi a gli occhi cui^idi & intenti;
Ma quando i famolenti
Sensi distendon la furente mano
Con dubbia speme & con certo desio ,
Misero!, allhor ved'io,
La speranza e '1 desire andare in vano :
Sol perché diedi ad una inclyta Dea
L'amata libertà, che un tempo havea.
Ovunque io mi rivolga, ad ciascun passo
Mi trovo pien di paventoso horrore ,
Di gelato sospetto & van desire.
Ne r aere pende per mia morte un sasso ,
Che minaccia mina ad tutte l'hore,
Ond'io tremo morendo in tal martire.
Et quando di morire
Cresce la speme a l'alma sbigottita,
Quel sasso, che nel capo ognihor mi viene,
29
30
33
45
tibonda poi siede; E, quando ber
si crede , l' acqua da' labbri s'al-
lontana , e fujrge. Né meno in-
torno agli occhi ancor si vede
Da' be' rami novelli Frutti pender
si belli. Che sol mirando si con-
suma, e sut'ge. K chi cosi la strug-
ge (Perchè '1 duol sia maggiore)
Le fa sentir i' odore , Inchinando
ver lei li carchi rami: Onde con-
ven che brami, E sol d'ombra si
pasca, e del suo errore; Non strin-
gendo altro mai, che vento, e
fronde , E sia Tantalo posta in
mezzo l'onde» Cfr. Virgilio, l. e,
603-607. — 27. Petrarca, I, e. xi, i :
« Chiare frasche e dolci acque». —
31. (EN) Un fructo... locando. —
33. famolenti: cfr. anche son.
Vili, 9, n.; Sannazaro, /. e, 100:
« D' un voltor fanmlentn , aspro ,
e rapace ». — 3-I-36. (EN) S. voi-
no allargar la stanca m. Con
la speranza incerta & van d. ;
La speme col desire andar lon-
tano. — 38. (EN) ad una irmnor-
tal d. — 40. (EN) Doi'ìcncha: —
43-50. Sannazaro, l. e, 73-80: « E
parie or presso , or lungo Vedersi
in su la testa Una selce funesta
Con mina cadere, e con spavento :
Né scema un sol momento La
paura , e '1 dolor che la molesta.
Misera; or non è meglio un chiu-
der d'occhi, Ch' a tult' ore aspet-
tar che '1 colpo scocchi? )>. — 43.
Lucrezio , Le, 978 : « Nec miser
inpendens magnum timet aere sa-
xicm ». — 44. Virgilio, l. e , 602-
603 : « Quo super atra silex iam
iam lapsura cadentique Iinminet
adsimilis ». — 43-46 (EN) Cosi vivo
m. ; Et se pur di m. — 4S-52.
(EN) che di sopita; Nei camini
30 RIME
Ne l'aere si retieue,
Né cade, né si ferma. dura vita! 50
L' alma pur non si pente , anzi piìi vole
La luce, che pertiene solo al sole.
Chi vuol dunque vedere il mal che preme
Queir anime infelici & tormentate
Ne li martiri del tartareo regno, 55
Venga a mirar tutte le pene inseme
Dentro '1 mio cor, ch'eternamente paté.
Anzi il morir, martirio di lui degno.
Qui si vede l' ingegno
Del cieco amor, crudel , fallace & lieve, 60
E '1 modo come tratta i suoi seguaci,
Et come gli fa audaci.
Qui può veder che 'n questa vita breve,
(S'io non m'inganno, e '1 ver veggio & discerno,)
È ciascuno a sé stesso un diro inferno. 65
Canzone, io non fui mai
Nei campi Elisi & fortunate valli ,
Ov' altro sol si vede & altra luna ,
Né mai l'aere imbruna,
Né vivo ascoso in quei secreti calli 70
Coverti d'amorosi, ciprii mirti;
Ma son più giù tra più dolenti spirti. 72
(1. vel camin); Ne mi conduce
al fin ne ini da vita; cG ancor
vole; al chiaro s. — 53-58. San-
nazaro, l. e, 1-4 :« Qual pena,
lasso , è si spietata e cruila Giù
nel gran pianto eterno , Che nel
mio petto interno Via maggior
non la senta l'alma slanca?». —
55. (EN) Nel più 2rro fondo dil t.
r. — 57-58. (EN) eternalmente ;
per merito condeqno. — 60. (EN)
Dil vano. — 64. (EN) Se non min-
ganna il vero (& ben d. — 65. S.m-
nazaro , l. e. , 5 : « La qiial dan-
nata in questo vivo inferno )). —
(EN) Ad se stesso ciascun è un
d. i. — 66-67. Sannazaro , /. e. ,
1 13-1 1 5 : <( Canzon mia , mai nel
Cielo Tra li beati spirti Non fuiy>. —
67-69. Virgilio, JEh. vi, 638-641 :
a Devenere locos laetos et amoena
virecta Fortnnatorutn nemornm
sedesqne beatas. Largior hic cam-
pos aether et lumine vestii Pur-
pureo,. 9o/emque suum, sua siilera
norunt ». — 68-71. (E^"' Ore ri-
splende un Incito terreno Et lae-
re e più sereno; Ne sto; & sacri
m. — 70-71. Virgilio, jEn. V),442-
444: «Hic quos durus amor cru-
deli tabe peredit , Secreti celaut
calles et murtea circum Silva te-
git ».
RIME 3 1
SESTINA III.
Tentato ho d'ingauuar gli occhi & la mente
Fuggendo inanzi al raggio de la Luna,
Che piìi m'accende il cor de viva fiamma,
Quando più freddo mostra il bianco lume;
Ma non fuggii giamai dal suo bel viso ,
Ch' ella non mi segiiesse in ogni parte.
Ne la più occolta & più secreta parte
De la mia tenebrosa oscura mente
Eestò scolpito il dolce & lieto viso
De la serena, pura & chiara Luna,
Il dì eh' io vidi il suo celeste lume ,
Che nel cor mi lassò perpetua fiamma.
D' una mortai, vivace & sacra fiamma
Son divorato dentro a parte a parte,
Et già si mostra fuor l'ardente lume;
Che '1 van pensier, che gira la mia mente,
Per furor de la dura, irata Luna,
Mi fa correr col foco in mezzo al viso.
Chi vide mai d'un dolce humano viso
Uscir crudele, amara & empia fiamma.
Chi crederà giamai che 'n quella Luna,
Che de gli cieli tien l'infima parte ,
Viva tanto superba & alta mente.
Che tegna sotto i piedi ogni altro lume?
Quell'almo, altero, eterno & vago lume
Che mi mostra ogni giorno un altro viso.
Sest. II. — (EN) n. 26 — 5. I V, 10.— 19-20. (EN) Chi vidde al
fuggii. (ST) /w^/^rz. — 1 1. celeste inondo duna h.; e. <& dispietata
lume. Cff. Petrarca, I, clxxv , /".— 22. (EN) Che tien del del la
1; Tr. I, 111, 137. _, 2. (EN) \ più propinqua i).-~2.^. (EN) sot-
niha lassato eterna f. — 15. ar- tal pede. — 25. vago lume. Cfr.
dento lume. Cfr. Petrarca, I, s. | Petrarca, I, e. x, 68. — 20. ogni.
32
In tal guisa rivolve la mia mente ,
Che quanto veggio mi par foco & fiamma,
Né possendo firmarmi in altra parte,
Mi trovo intorno al cierchio de la Luna.
Endimion, quell'amorosa Luna,
Chiudendo in somno il tuo beato lume ,
Ti die' del ciel la più felice parte;
Ma questa mia , che col sereno viso
Mi dimostra alternando hor gelo, hor fiamma,
E d'una dura, inexorabil mente.
Da la sua propria mente la mia Luna,
Et non di fiamma altrui, prende '1 bel lume,
E '1 viso di beltcà tien magior parte.
30
36
39
CANZONE III.
Non posso homai tener le fiamme eterne
Tanto tempo nascose
Nel petto molle & pien d'insano errore;
Che (se la cieca mente il ver discerne)
De le pene amorose,
Nulla pivi che '1 tacere afflige il core.
Esca dunque di fuore
Di secreti pensier la grave salma,
Ch'io premo dentro a l'alma;
Esca quest' aspra voce homai gridando ,
Acciò che senta ocrnlun eh' io moro amando.
(ST) ogni, con-, in ER.— 27. (EN)
Rivolve in tal inanera. — 30. cier-
chio de la Luna. Cfr. Petrarca ,
I , s. VII , 2. — 31-33- Endimion.
Dorniei:.lo egli in una grotta del
monte Latmo, ogni notte la Lima
veniva a baciarlo ed a posarsegli
accanto (cfr. Teocrito, Id. xx, 37-
39; Cicerone, Tusc. i,76;Pausa-
nia, V, 5, 3-5 ecc.). Di qui il titolo
di queste rime, perché, come lui,
anche il poeta , era amante della
Luna.—- Sannazaro, c.vn, 37-38: «E
pur sei quella Luna Ch' Endimion
sognando fé' contento». — 32. (EN)
Adortnentando col tuo bel. — 38-
39. (EN) Bexterna fiamma pren-
de il l.; de beltade ha m. p.
Canz. III. — (EN) n. 27.-6. Pe-
trarca, I, e. 1, 4: ((Perchè, can-
tando , il duci si disacerba »; Pro-
perzio, I, IX, 34: (( Dicere qua pe-
reas saepe in amore levat ». — 11-
12. (EN) Ad tal che; per suo di-
33
Ai! quante volte, Amor, per dispregiartc
Col cor duro, inhuraano,
Mi disse quella cruda mia nemica,
Che giova notte & dì tanto affannarle?
Hor non vedi che 'n vano
Il tempo perdi & l'opra & la fatica?
Deh!, non suffrir che '1 dica,
Amor, senza la tua j^ena mortale;
Fagli provar lo strale
Col qual vencisti il mar, la terra o '1 ciclo;
Riscalda l'indurato & freddo gelo.
Quante voci & lamenti, & quanti versi,
Quanti sospir gettai ,
Sol per ritrarne un amoroso sguardo !
I strani vidi spesso condolersi
Di miei tormenti & guai,
Ma quella no, per cui languisco & ardo.
Perché sì j)igro & tardo,
Ti mostri, Amor, in acquistar vittoria?
Non perder tanta gloria,
Eipara ai tuoi disnori e ai danni miei :
Fala per me languir, com' io per lei.
Eompasi homai de la paura il freno,
Et mostra le tue chiare
Palme, l'ardire, il braccio invitto & forte.
Tingi il dardo crudel d'atro veleno.
Che possa penetrare
23
35
spreggio. — 12-13. Petrarca. I, m.
IV, 1-2: « Or vedi. .\mor, che gio-
vanetta donna Tuo regno sprez-
za ». — 15-17. (EN) Misero scon-
solato io nieneaveggio ; Che per-
di il teììipo in V.; Eh vento spargi
ogni mortai f. — 18-20. Petrarca,
l. e, 7-9: «... ma se pietà ancor
serba L' arco tuo saldo , e quai-
ctana saetta. Fa di te e di me, si-
gnor , vendetta». — 19. (EN) la
pena aspra m. — 21-22. (,EN) Con
che; Rinasca. — 23-25. Petrarca, I,
s. vili, 13-15: « Gitante lagrime, las-
so, e quanti versi Ho già sparti al
mio tempo! e'n quante note Ho ri-
provato umiliar quell'alma!». —
24. (EN) suspir. — 28-29. {E'n ) per
c.hio; Ad che. — tardo. V. il brano
di Properzio in ??. ai vv. 45-47. —
32-33. (EN) al tuo disonoì- ( 1. di-
sn or) \ morir per me e. — 33. Pe-
trarca, I, XLii, 14: «Ma che sua
parte abbia costei del foco ».— 36.
5
34 ETME
Nel petto che dispregia Amore & morte,
Né teme adversa sorte.
Non ti spaventa il bel viso conforme
A le divine forme ;
Che, quanto la tua forza in alto p^'ggia ,
Be' '1 sanno il tauro, il cygno & l'aurea pioggia.
Ma ben veggio che più non ti rimembra
De l'arte & de gl'inganni,
Ch'usar solevi iu quella prima etade;
Allhora eran piìi forti le tue membra,
Ch' eran più verdi gli anni ;
Hor sei nel fine ove la vita cade ;
Né par che 'n libertade
La tua man dextra a' nostri tempi viva ,
Anzi giaccia captiva
In forza altrui debilitata & manca.
Et pur de me ferir mai non è stanca.
Ma voi che 'n l'ombre vane & fraudulcnte ,
Per arte tenebrosa,
Haveti imperio incognito & occolto.
Convertite la dura , immobil mente
Di questa alma sdegnosa,
Et fate impallidire il suo bel volto;
Che , quanto di voi ascolto
Che sapeti voltare ad una ad una
Le stelle con la luna,
Allhora il crederò, quando veda io,
Ch'Amor tenga quel cor, che tene il mio.
40
43
b"
60
(EN) altiero & f. — 39-40 (EN) cC-
vita (& m. ; humana s — 44. Euro-
pa, Leda, Danae. — 43-47. Traduce
da Properzio, I, 1, 17-18: « In me
tardiis Aìnor nou uUas cogitat ar-
tes Nec meminit notas, ut prÌKs,
ire vias)).—47.(EN)so/esff.— 56-63.
Da Properzio, Z. e , 19-24: <( At vos,
deductae qnibus est fiducia luna^.
Et labor iu magicis astra piare fo-
cis, Ea agedum dominae tnoitem
convertite nostrae Et facite i/la
meo palleat ore magis. Tunc ego
crediderim vobis et sidera et a-
mnes Posse Cytaines ducere car-
minibus ». — 56. (EN) tacite & no-
rente.— ^g. (EN) <& crudelm.—6i.
impallidire. Cosi (EN);ma{ST)
impalladire non corretto in ER. —
63-66. (EN) quando pur senta
RIME 35
Et voi che tardi siete ad consigliarmi
Cercatemi altra aita,
Che 'n van si dà consiglio al desperato.
Altro non potrà mai remedio darmi 70
Che romper questa vita,
Et satisfare al cor superbo, ingrato.
Ai ! , doloroso fato ,
Menami per ogni aspro, horribil loco,
Per acqua, ferro & foco, 75
Ch'io son forzato aprir la doglia & l'ira
Contra quella, per cui l'alma sospira.
Canzone, ad alta voce
Andrai chiamando il nome in ogni via
De la nemica mia; 80
Disfoga tra le genti il grave duolo,
Che più sente il dolor, chi piange solo. 82
. BALLATA IL
Gli occhi che furon presi di nascoso
Per ornare un perfetto & chiaro volto,
— Et da queir hora avanti
Amor rimase cieco & tenebroso , —
Vidi a mirar li miei tanto constanti ,
Ch'io fui di mente & d'alma inseme tolto.
Ma subito m'accorsi de l'errore
Ch'io presi in quel mirar sì fermo & fiso,
Però che gli occhi miei
Dinionstran fuor l'ardente & puro core,
Ch' Amor possedè il cor che ini
torìnenta. — 67-77- Da Properzio,
l. e, 25-29: « Aut ?v).s', qi'i sera
lapsiim revocatis, amici, Quaerite
non sani pectoris avcnilia. Forti-
ter et ferrìtìn saevos patieninr et
ignes, Sit modo libertas quae ve-
iit ira loqui. Ferie per extremas
gentes et ferte per ì'.ndas y).— 6y.
( EX ) che pt'.r volete e. — 77-78.
( EN ) per chi: con a. v. — 80-82.
(EN) nimica; Esfoga fra la gente;
piagne.
Ball. II. — (EN) n. 38: 3 di q.
inanti; 6 di vita & d' a. — 9-10.
Petrarca , I , cu, 6: « Non vedete
voi '1 cor negli occhi miei ? ». —
36 KIME
E 'n rnezo al cor si vede di colei ,
Che gli arde , il naturale & proprio viso.
Dove tanto gli piacque
Veder sua forma vera ,
Che si mostrò ver me lieta & altera :
Onde amoroso scorno al cor mi nacque.
SONETTO XXI.
10 vidi, Actio mio, con vero effetto
Quel che mai non si vide fra mortali ,
Ch' anchora i bruti & rigidi animali
De le cose del cielo han pur concetto.
Deviandosi un destrier per suo diletto.
Prender non si lasciò d' huomiui frali ,
Ma nanzi gli occhi chiari & immortali
Subito si fermò senza sospetto.
11 ver vi dico , & parrà finto ad voi :
Soavemente quella eterna Dea
Con la candida mano prese il freno ;
Né r animai fé' movimento poi ;
Ma quella ferità che prima havea
Lasciò, abbagliato dal volto sereno!
SONETTO XXII.
Volendo Amor mancare alcuna parte
De gì' infiniti affanni eh' io sostegno ,
Dolcemente lasciò quel grave sdegno ,
Incontro al qual non vai la forza 1' arte.
14
II. (EN) Ove chiaro si v. — 15.
( EN ) Ohio la vidi wostrar ver
me più a. — 16. Petrarca, I,
cxLix , 8 : (c Pien di vergogna e
d'amoroso scoì'nn ».
SoN. XXI. — (EN) n. 30: 1-2
signor ìnio\ crede. — i. Actio
[Sincero] , nome accademico del
Sannazaro. — 4. (EN) han intel-
lecto. — 6-9. (EN) lasso da mane
frali; iiiansi ; firmo; Il vero
in d. — 13-14. (EN) Ma superato
dal volto sereno Lasso la ferita
che primo (sic) h.
SoN. XXII. — (EN) n. 29.-3-4.
(EN) lasso ; ad cui. — 4. Petrar-
ca, II, 111, 14: « Cantra la qual
non vai forza ne 'ngegno » ; I, e.
KM E
Et perdi' io '1 descrivesse in mille charte
Con ardimento alzando il basso ingegno,
Mostrando il viso lucido & benegno ,
Mi disse: — Io voglio in sogno contentarte. —
Et aspirava un si soave odoro,
Che mi fé' discoprire il foco uccolto:
Lasso!, io languisco oguilior die mi rimembra.
Allhor apparse morte nel mio volto;
Che ciò che gli dà vita corse al core,
Lasciando smorte & fredde l'altre membra.
SONETTO XXIII.
37
Costei che mia benigna & ria fortuna,
Et la mia vita, & morte tene in mano,
Per cui tanti suspiri spargo in vano,
È con iusta cagion chiamata Luna ,
Non sol perché nel mondo è sola & una.
Et ha divino il volto più che humano ,
Ma perché basta ad agghiacciar Vulcano,
Quando tutte le fiamme inseme aduna.
Fu preso il suo candor da l'alto cielo,
Ov'è la lattea via del paradiso,
Non nota a la volgare & cieca gente.
Quanti col raggio tocca, muta in gelo,
Ma '1 scintillare & fulgurar del viso
Me, misero!, converte in fiamma ardente.
'4
IV, 67: « Onde mai nò per forza
né per arte ». — 5. Petrarca, I ,
xxviii , lo-n : « ... laudato Sarà ,
s'io vivo, in più di mille carte ». —
6. Petrarca, Tr. 11, 66: « non che
'/ mio basso ingegno », — 1 1-14.
(E\) chin moro ; parse la m.; Che
quel; Lassando. — 11. languisco.
(ST) langivsco, non corr. in ER.
SoN. XXHL — (EN) n. 30.—
1-2. Da Ovidio, Epist. xii, 73-74:
« Jus libi et arbitrium nostrae
fortuna saluiis Tradidit , znque
tua est vìtaqiie morsque manu »;
e Petrarca , I , xxxi , 1 2 : « Ov' è
colei che ìnia vita ebb^ in ma-
no»; Cxviir,6-8: «... ojrni mia for-
tuna, ogni mia sorte, Mio ben, mio
male, e mia vita e mia morte Quei
che solo il può far, l'ha posto in
'mano ». — 4 (EN) Et veramente
nominata L. — 5. Petrarca, li, e.
VII, 120 : « E da colei che fu nel
mondo sola. — ii Petrarca, JV.VI,
47: « Misera la volgare e cieca gen-
te ». — 12-13 (EN) verte; folgorar.
38
BIME
SONETTO XXIV.
Se'l ver si stima ben con sana m.mtc,
Amor fa crudelissimo inventore
Di morte & del mortale aspro dolore ,
Et d'ogni mal, che l'huom vivendo sente.
Morte si chiama Amor veracemente :
Quel che non ama vive , & colui more
Che si consuma in amoroso ardore ,
Ch'a la sua propria morte ogn'hor consente.
In quel punto eh' io fui d' Amor subietto ,
Fui senza vita, & vivo anchor discesi
Ne gl'infernali horribili tormenti.
La fredda gelosia col van sospetto ,
Le speranze e i desiri in foco accesi ,
Mi portan tra mille altre ombre nocenti.
H
SONETTO XXV.
Volete saper come & da qual parte
Mi vengon gli amorosi & dolci versi,
Dal duro ingegno mio tanto diversi,
Che notte & giorno scrivo in varie charte?
Le Muse o Phebo non m' han fatta parte
Di lor canti soavi, ornati & tersi;
Ma poi che a mirar voi le luci apersi ,
Donna, mi venne il molle ingegno & l'arte.
SoN. XXIV. — (EN) n. 31.— i.
(EN) ben con sana m. — 5. vera-
cemente: off. Petrarca, I, xcu ,
10. — (EN) Amor se chiama morte
veramente. — 8-10. (EN) Et la
propria m.\ stiggesto (1. sugge-
cto); <& pur vivo d. — 9-14- CtV.
canz. II, 53 sg^. — 14. (EN) Mi me-
nan fra millaltre.
SoN. XXV. — (EN) n. 32.— Imita
Properzio, II, 1, 1-16. — 1-4. Pro-
perzio, l. e, r-2: «Quaeritis, linde
milii totiens scrihantur amori^s ,
Unde meus veniat mollis in ora
liber». — 3. (EN) aspro. — c,-8.
Properzio, l. e , 3-4: « Non liaec
Calliope, non haec mihi cantat
Apollo, Jngenium iiobis ipsa puel-
ia facit ». — 5. (EN) Appallo. — 7.
Petrarca, I, e. 11, 22 : « Ma l'ora e
'i giorno ch'io le liici apersi-». —
8. molle ingegno. V. il brano di
Properzio in n. ai vv. 1-4 e la n.
RIME 39
La fronte, l'auree treccie & liete ciglia,
Gli occhi chiari, la bocca e'I niveo collo,
Le mane e'I giovenil marmoreo petto , 1 1
L'alma vertù, l'angelico intelletto,
Ch'empion la terra e'I ciel di meraviglia,
Son le mie nove Muse e '1 sacro Apollo! 14.
SONETTO XXVL
Se giunger ponno al ciel prieghi mortali ,
Et se pietade, Amore, in te si trova ,
Manca del duol, che sempre si rinova
Dentro '1 mio cor , o fa le fiamme eguali. 4
Forse credi acquistar lode immortali,
Per far contra di me l'ultima prova?
Poi che l'altrui martìr tanto ti giova,
Non voler eh' io sol viva in tanti mali. 8
Drizza l'insegne a più famosa impresa:
Vince costei , che par si dolce in vista,
Et contra te fu sempre amara & forte. 1 1
Che gloria no , ma biasmo al fin s'acquista,
De pugnar contra cui non fa difesa,
Et disarmato, incauto corre ad morte. 14
alson. V,2. — ii.(EN)27 5r. cÉòm/i- ! non cura, E tra duo ta' nemici è
cop.— 1 2. Petrarca . I, CLXxxi , 1 : 'i sì sicura. Tu se' armato, ed ella iu
nReai\na.tura.,a»gelicointellecr.o>ì. ' trecce e 'u gonna Si siede e scalza
SoN. XXVL— (EN) u. 33.— 1-4. ; in mezzo i tìori e Terba.'Ver me
Petrarca, I, xlu, 9-14: « Da ora ; spietata e contra te superba».—
innanzi ogni difesa è tarda Altra, | 10. (EN) Fence. — 12-14. Ovidio,
che di provar s' assai o poco Que- | Amot\ I, u, 22 : « Nec tibi laus ar-
sii preghi mortali Amore sguar- ; mis victus inermis ero « ; Petrar-
da. Non prego «ià, né puote aver ' ca. I, ni, 9, 12-13: « Trovommi A-
più loco che'misuratamenie il mio raor del tutto disarmato.... Però,
cor arda; Ma che sua parte abbia al mio parer, non gli fu onore
costei del foco ». — 1. (EN) gion- i Ferir me di saetta in quello stato ».
ger.—4. (ST) dentr il, poi corr. in ; Cfr. la canz. Ili, vv. 18-22, h.— 12.
ÌER._ 6 Petrarca, IH, xxu, 8: « In ! Ricorda il petrarchesco (l, i.y, 14):
cui lu^swr'ni fa r ultima prova )y— \ « E d'altrui colpa altrui biasmo
9-11. Petrarca, I , m. iv, 1-6: «Or 1 s'acrjfiti'sfa ».— 14. Petrarca, Tr. II,
vedi, Amor, che giovinetta donna 14: « Gioviae, incauto, disartnato
Tuo regno sprezza e del mio mal I e solo ».
40
RIMK
SONETTO XXYII.
Nel celeste balcone, ove sovente
Si stancan gli occhi e '1 cor sempre si duole ,
Vidi la Luna & con lei giunto il sole ,
Lei più bella che mai , lui più lucente.
Et vidi al fin le chiare luci spente
Di quel, ch'ogni altro lume spenger suole,
Onde colei che pudicitia cole ,
Più candida rimase & più fulgente.
Io che la vidi altera in aureo seggio,
Lieta de la vittoria , presi ardire
Di cercarli remedio a li mei mali.
Et volsi dir: — Non vedi il mio languire?. .
Lei mi rispuose inanzi: — Io non ti veggio,
Né mi degno mirar cose mortali ! —
'4
SONETTO XXVIII.
Quando ri nova il vago mio pensiero,
Del qual giamal non fu la mente stanca,
Il volto, il collo, il petto & la man bianca,
A l'impresa mi fanno il core altero.
Poi ripensando al ben ch'io mai no' spero
Veder, m'agghiaccio, e '1 mio colore imbianca,
La forza & la vertute allhor mi manca,
E'I sangue corre al cor ratto & leggiero.
SoN. XXVn. — (EN) n. 34.—
2-%. (EN) stanca gli occhii mei el
cor si dote; gionto. — 3-6. Anche
per Laura ( Petrarca, I, xvui, 6 )
" Fia la vista del Sole scolorita ". —
(EN) hice-, eiciwgrwer.— 8-ii.(EN)
splendente ; in tanto itreggio;
Captando tempo e loco p. a.; al-
cun ben fra tanti m. — 14. Pe-
trarca, I, e. V, 25-27: «Ella no7i
degna di mirar si basso. Che di
nostre parole Curi»; x\ii, 3-4:
«... ma a voi non piace nnrar
si basso con la mente altera».—
(EN) veder.
SoN. XXVIII. — (EN) n. 35.-2.
Petrarca, II, e. 11, 27: « E con la
mente stanca », — 5-6. Petrarca ,
l. e. , 28: « Cosa seguir che mai
giugner non spero » ; II, i, 6 : « Di
che morte, altro bene ornai non
spero ». — 6. l'eti'arca , I, ci , 11.
« Che 'n un punto arde , agghiac-
cia , arrossa e 'mbianca ». — (EX)
Così ne la mia fronte scolorila
L'imagin de la morte si presenta,
E i più crudeli a lagrimare invita.
Ogniun di me si duole & si spaventa;
Et io son già si stanco di tal vita,
Ch'aspetto il fin con l'anima contenta!
41
14
SONETTO XXIX.
Donna, vostr' occhi fanno al sole scorno,
Quando più mostra puro il chiaro aspetto;
Dal vostro roseo volto, almo, perfetto,
Si rasserena l'aere d' ogn' intorno.
Possete fare a mezza notte il giorno
Col tenero , suave & bianco petto ;
L'altre vertuti, ingegno & intelletto
Hau di novo splendore il mondo adorno.
Splende da terra al ciel vostra figura ,
Né d'human seme nata esser dimostra,
Ma d'immortale angelica natura.
Hor che vuol dire: è forse mia ventura,
costume d'Amore, culpa vostra,
Che'n tanto lume io viva in vita oscura?
cC- ogne menbro imbianca. — 9-10.
Cfr. Petrarca, I, b. v, 1-2: « Vol-
gendo gli occhi al mio nuovo co-
lore, Che fa di morte rimembrar
la gente ». — 1 1. Dante , Inf. vi ,
59: «Mi pesa si eh' a lagrimar
m'invita ». — 13. Petrarca, I, XLVi,
1-2: « Io son già stanco di pen-
sar si come I miei pensier in voi
stanchi non sono»; lu, 1-2: «io
son si stanco sotto il fascio an-
tico Delle mie colpe ». — 14. Pe-
trarca, Tr. Ili, 1, 162: « Se n'andò
in pace l'anima contenta ».
SoN. X.XIX.— (KS) n. 36. — 1.
Cfr. Petrarca I, lxsv, i : « Donna,
che lieta col principio nostro ». —
1-2. Anche gli occhi di Laura son
'• più chiari che '1 sole " ( Petrar-
ca, II, Lxxxvn, 2). — 3-4. E Laura
pure rasserena il cielo ( Petrarca,
1, xxvii). Cfr. la n. al madr. I, 9. —
5-6. Cfr. Petrarca, I, clx, 12-13:
« E non so che negli occhi che 'n
un punto Può far chiara la notte,
oscuro il giorno ». — 6. (EN) <& ca-
sto p. — 9. (EN) Traluce insino al
e. — 13. Petrarca, I, e. xvi, 78:
« La colpa è vostra, e mio '1 dan-
no e la pena ». — 14. (EN) vivo.
42
RIME
SONETTO XXX.
Lasso, ch'io veggio Len quanto importuno
Son io nel dimandare ognihor mercede
A tal, che'l mio martìr non sa né crede,
Né tiene del mio mal pensiero alcuno.
Ma quel mio Dio , che fu sempre digiuno
Non di beltà, ma di j^ietade & fede,
Ch'io non mi stanchi mai pur mi richiede,
Mostrandomi il bel volto hor chiaro , hor bruno.
Però , per satisfare al suo desio ,
Pregando un cor superbo, altero, ingrato,
Lo spirto lascierò molesto & rio.
Et voi goder potrete del mio fato,
Poi che sempre vi spiacque il viver mio ,
Donna, per cui di vita io son privato.
14
SONETTO XXXI.
Benché d'ogni speranza Amor mi priva
Di posser alcun tempo haver mercede.
Non si mutarà mai , mentre eh' io viva ,
La mia constante, intera & ferma fede.
Quest'una, che vivendo in terra è diva,
Contempla la mia mente, adora & crede;
Né si vedrà ch'io parli, o canti, scriva
D'altra, che sol di lei, che mi possedè.
Son. XXX. — (EN) n. 39. — i.
Lo stesso principio di molti sonetti
del Petrarca (I , cu , ecc.)- — Pe-
trarca , I, CLXxix, 4: (.i i<on im-
portuno assai più eh' io non so-
glio »; e. xv , 20-21 :« Or , ben-
di' a me ne pesi, Divento ingiu-
rioso ed importuno «. — (EN) ve-
do. — 3-4. Petrarca, Tr. V, 132:
« Benché la gente ciò non sa né
crede ». Cfr. anche la n. alla canz.
II, 16. — 4-5. (EN) sente d. ni. m.
tormento a.; che sempre fn. — S.
(EN) Usuo ceZo.~i i.(EN) lasserò.
SoN. XXXI. — (EN) n. 42. — 2.
Petrarca , I , lui , 11: « Piacciavi
ornai di questo aver mercede ». —
(EN) posser e— 3-4. Petrarca, Le,
1-2 : « Io non fu' d'amar voi lassato
unquanco, Madonna, né sarò men-
tre ch'io viva ». — 7. Petrarca, II,
XLi, 11: « ... che d'amor parli o
RIME 43
Veggio ben che'l morir m' è molto appresso,
Et lontano il soccorso, & la mia sorte,
Cangiando amor, promette lunga etade. 1 1
ila pria serò homicida di me stesso.
Et conduronii a voluntaria morte,
Cile possa mai servir minor Leltade. 14
SONETTO XXXII.
Una volta cantai soavemente ,
Et cantando ad Amore il core apersi ,
Hor son noiosi & aspri li miei versi,
Hor grido lagriraando amaramente.
Né pianger posso tanto occoltamente,
Che di tanti martiri & sì diversi
Non venga meco ogniuno a condolersi,
Si non sola costei, che m' è presente.
Costei che noi mio core io sempre veggio,
Ove sì altera & disdegnosa siede,
Come dea in terreno & humil seggio.
Ivi tocca con mano la mia fede ,
Conosce che lei amando altra non cheggio,
Et nuda di pietà morir mi vede.
14
SONETTO XXXIII.
Eterno imj)erator d'homini & dei,
Easserena la fronte & l'aureo ciglio.
Et , come affabil jDadre al caro figlio ,
Mostra il volto l^enegno ai preghi miei.
scriva ». — 9. (EN) Veddn (sic). —
12. (EN) serrò— 13. Et. (ST):<£ —
14. (EN) Chio servir possa mai
m. b.
Son. XXXII.-(EN) n. 43-— 1-4-
Cfr. Petrarca, I, clxxiv, i : « Can-
tai; or piang-o ». — 5. (EN) pia-
gner. — IO. Petrarca, I, e. ix, 9:
« Che 'n vista vada altera e disde-
gnosa )).— 1 1 (EN) in iin (sic). —
13. Petrarca, I, e. 111, 39: « Altro
giammai non cheggio ». — (EN) Co-
gnosce.
Son. XXXIII. — (EN) n. 44.. —
I. Petrarca, I, Lxxix, 2-3 (di A-
more): « ... E quel signor con lei,
Che fra gli uomini regna e fra
gli Dei ». — 3. Peti'arca, II, xvi, i :
« Né mai pietosa madre al caro
figlio-». — 4-6. (EN) benigno; Q.
44 RIME
Quella , pei" cui me misero perdei ,
E posta in imminente & gran periglio;
Dagli, signore, alcun sano consiglio,
Stringendoti pietà di me & di lei. 8
L'un & l'altro governa egual fortuna;
Di sua salute pende la mia vita;
Se lei vive , vivrò ; morrò , se more. 1 1
Non voler più d'un sole & d'una Luna;
Che, se costei si trova in ciel gradita.
Arabi duo perderanno il proprio honore. 14
SONETTO XXXIV.
Questo impetuoso mio crudel signore,
Che con forza mi tiene il cor subietto,
Hor mi fa più securo, hor più sospetto,
Et hor pieu di sollicito timore; 4
D' un gelo ardente & d' un gelato ardore ,
M'accende il pavoroso & molle petto;
Ma, il più de le fiate, a l'intelletto
Par che quanto sol penso è falso errore. 8
Che, si sotto una schietta & sottil gonna
Temo che gode ascoso un mio adversario,
Et d'ogni movimento il cor s'offende; n
Questa pudica & gloriosa donna
Non teme a sua vertute alcun contrario.
Et men l'altrui, che'l nostro amor, l'accende, 14
perchi ima volta io mi perdei:
eminente (sic). — 8. Properzio. Ili,
XXIV, I : ce luppiter, adt'ectae tan-
dem miserare piieilae ». — g. (ST)
govetna, coi'retlo in ER. — 9-11.
Properzio, HI, xxv, 5-8: «Una
ratis fati nostros porlabit amores
Caerula ad infernos velificata la-
cus. Si non unius, quaeso, miserere
duorum. T7ra?Ji, si vivet: si cadct
illa, cadam ». — 13-14. (EN) que-
sta; dui.
SoN. XXXIV. — (EN) n. 45. —
2-3. (EN) s-uggetto; mi fa star s.
cC- hor suspecto — 4. Ovidio, [E-
pist. I, 12 ]: <( Res est solliciti
piena timoris amor» (Salv). —
8-9. (EN) io sol p.;se7npia (=scem-
|)ia) c6 Ò-. — 9-10. Properzio, [II, vi,
14J: « Et niiser in tunica suspicor
esse viruni » (Salv) ; Petrarca , I ,
cxxx, 6-8: « Sempre pien di desire
e di sospetto; Pur come donna in
un vestire schietto Celi un uom
vivo, sott'uu picciol velo ». Cfr.
son. seg. , 5-8 e n. — 14. (EN) ar-
dor linrende.
RIMK 4S
SONETTO XXXV.
Quando mi tiene Amor per sua natura
Oltra ragion il cor già risuspinto,
D'invidia & gelosia io son si vinto,
Che fede o castità non m'assicura. 4
Ogni cosa m'offende, ogni figura
D'angel, di donna, o d' huom vivo o depinto,
Et ogni altro pensiero, o vero o finto:
Timido son; perdona a la paura! 8
Endimion sognando & Pan nel bosco
Credo si stanno al lume de la luna,
A lor si chiaro, a me sì negro & fosco. u
Non admette il furor ragione alcuna:
Il falso approvo, il ver più non conosco,
Et temo un fanciullin, che dorme in cuna. 14
SONETTO XXXVI.
Mutabile, inconstante, impia fortuna.
Perché con frode & arti insidiose
Una volta mostrasti varie cose ,
Hor sempre ti dimostri ferma & uua. 4
Veggio continua nebbia & importuna,
Procelle dispietate & tempestose ,
Nubi gravi, condense & tenebrose;
Talché veder non posso la mia Luna. 8
Son. XXXV.-Tit.: "Gelosia"
(Salv).— 2. (ST) tagion, non coir.
in ER.— 3. Petrarca, I, cLxvii.y:
« La qual ne toglie invidia e. ge-
losia ».— 5-8. l'ioperzio, II, vi, 9,
1 1-13 : « Me iuveiium pictae facies,
me nomina iaetiiuit... Me laedit, si
multa libi dedit oscula mater, Me
soror CI cum quae dormit amica si-
mul: Omniame laedi'.nt: timidus
siun (ignosce timori) ». — 5. figu-
ra, così in Eli; ma nel testo (ST)
invece pittura. — 9-1 1. V. le nn.
al vs. 24 della II e ai 31-33 della
III sest.— 12-14. Cfr. Properzio,
HI, xxxu, 19-20: « Ipse meas solus,
quod nil est, aeniulor umbras ,
Stultus , quod nullo saepe timore
tremo ».— 14. Properzio, II, vi, io:
«Me [laedit] tene)- in cunis et sine
voce puer ». Cfr.'la n. ai vv. 5-8.
Son. XXXVI. — (EN) n. 46.—
1-2. (EN) impia; arte. — 4. (EN)
firma. — 5. Petrarca , 1 , s. in , i :
«L'aere gravato, e l'importuna
nebbia ».— 7. (EN) Nube grave.—
4-6 RIME
Sempre fu la tua prima antiqua usanza:
Hor male oprare, hor riparare i danni;
Perché meco servarla hor non ti piace ? 1 1
Concederai alternando hor guerra, hor pace,
prometti alcun ben tra tanti affanni ,
Che viver non si può senza speranza. 14
SONETTO XXXVII.
Dove '1 dolor mi chiama io vo correndo
Sol per ritrar da gli occhi , ove tutt' ardo ,
Alcun pietoso innamorato sguardo ,
Dal quale altro che morte io non attendo.
Dal dannoso voler non mi difendo,
Anzi a fuggir dal mal son pigro & tardo,
Et se adiven ch'io schiffi il crudel dardo,
Contra me d'ira & di furor m'accendo.
Cosi son io cagion del mio tormento ,
Che prendo per diletto andar volando ,
Ove sfrenatamente Amor mi mena.
Perché dunque mi lagno & mi lamento;
Perché grido piangendo & sospirando,
Se voluntariamente vivo in pena?
14
SONETTO XXXVIII.
Di martìr in martir, di pena in pena
Mi volge Amore & l' invida fortuna ,
Seguendo lo splendor di quella Luna ,
Che dietro al mio morir cieco mi mena.
12. Petrarca,!, CLxv, i3:«Di qne'be-
gli occhi ond'io ho gìierr a e pace y> .
Son. XXXVII. — (EN) n. 47. —
4. Petrarca, 11, 1, 6 in n. al son.
XXVill, 5. — 5-8. (EN) defende,-
del in.: segli advien chio scili fé;
me stesso ulllior dira m' a. — 6.
(ST) fnggir, corretto in ER. — 7.
schiffi. corr. cosi in ER , ma nei
testo (ST) : schifi. — 1 1 . Petrarca ,
II, xxxui, S: <( Ov' ancor per usan-
za Amor mi menaù — (EN) Dun-
que perche... o mi l. — 12-14. Pe-
trarca, I, Lxxxvni. 5-6 : « S'a mia
voglia ardo, ond'è 'I pianto e '1 la-
mento? S'a mal mio. grado, il la-
mentar che vaie?». — 13. (ST) so-
jnrando, non corr. in ER.
SoN. XXXVIII. — (EN) n. 48.—
2-3. (EN) valve; risplendor. —
RIME
Et benché de disdegno & d'ira piena
La veggia sempre & de pietà digiuna,
Non li toglie il corruccio parte alcuna
Di sua beltà, ch'ognihora è più serena.
Et se pur mostra lieta sua figura,
Misero & infelice chi la mira,
Che di tal luce aspetta vita oscura.
Ma più niisero è quel che s'assicura
Di posserla affrontar, quando s'adira,
Che muor non più d' amor , che di paura.
47
u
SONETTO XXXIX.
Ecco la notte: el ciel scintilla e splende
Di stelle ardenti, lucide & gioconde;
I vaghi augelli & fere il nido asconde ,
Et voce humana al mondo hor non s'intende.
La rugiada del ciel tacita scende ;
Non si move herba iu prato o'n selva fronde;
Chete si stan nel mar le placide onde ;
Ogni corpo mortai riposo prende.
^la non riposa nel mio petto Amore,
Amor d' ogni creato acerbo fine ;
Anzi la notte cresce il suo furore.
6-8.(EN) Veder la soglio ; corrozo ;
ina sempre. — 13. (E^) posserla. —
14. (ST) Amor.
SoN. XXXIX.— (EN) n. 49.—
Imita Virgilio , uEn. iv, 522-532
(cfr. anche viii, 26 sgg.), ed il Pe-
trarca, I, cxiii (cfr. I, s. 1, e. iv). V.
Sannazaro, Are, p. 273, ed il son.
CXXXVIII e la Metam. IV, 133
sgg del nostro. — Tit.: " La notte "
(Salv). — I. Virgilio, [l. e, 522]:
« Nox erat » (Salv).— (EN) el cid
tutto risplende. — 3. Virgilio . l.
e, 5:5-527: <f... pecudes pictae-
que volucres, Quaeque laciis late
liquidos quaeque aspera dumis
Rara tenent, sonano positae sub
uocte silenti »; Petrarca, l. e, 2:
« E le fere e gli augelli il sonno
affrena ». — 4. Virgilio, l. e. , 525 :
« Cum tacet omnis ager »; Pe-
trarca , /. e. , I : « Or che ' 1 ciel e
la terra e '1 vento tace ». — 5. (EN)
rosata. — 6-7. Virgilio, l. e, 523-
524: «... silvaeque et saeva quie-
rant Aequora ». — 6. Petrarca, I ,
cv, 13: » Che non si vedea in ra-
mo mover foglia ». — 7. Petrarca,
Z. e. , 4: « E nel suo letto il mar
senz'onda giace ».— 8. Petrarca, I,
CLXi, 1-2: «... e poi la notte, quan-
do Prendon riposo i miseri mor-
tali r). — 9-1 1. Virgilio, l. e, 529-
532 : « At non infelix animi Phoe-
nissa , ncque umquam Solvitur in
somnos oculisve aut pectore uo-
48
RIME
Ha sementato in mezzo del mio core
Mille pungenti, avelenate spine,
E '1 frutto che mi rende è di dolore.
H
SONETTO XL.
Hor sou queste contrade chete & sole,
Ogniun gli affanni suoi dormendo oblia,
Ogniun riposa, & la nemica mia
Si sogna esser crudel, com'ella suole.
Et s' è pur desta al suon di mie parole,
Da l'indurate orecchie Jior le desvia,
Per non aprire a la pietà la via,
Che, contra'l suo voler, di me si duole.
Chi non si duol di me?, che sospirando.
Languendo, ardendo, mi lamento & lagno.
Del proprio cor mi pasco desiando.
D' una pioggia di lagrime mi bagno ;
Et sempre sol mi trovo, si non quando
Con alcun fuor di speme m' accompagno.
«4
MADRIGALE IIL
Mentre quella sottile & bianca mano,
Bella, schietta, soave, dolce, amena.
Degna di gloriosa & chiara palma.
Si spoglia il guanto , & j)0Ì passa pian piano
ctem Accipit: iugeminant curae ,
rursusque resurgens Saevit amor,
mugnoque irarum fluctuat aestu ».
— II. Virgilio, l^En. iv, 5]: «...nec
placidam raembris dat cura quie-
tem » (Salv;. — 12-13. Catullo,
[lxiv, 72]: « 8pinosas Erycina se-
rena in pectore curas ». — (EN)
semenate ; avenenate. — 14. ren-
de. (ST) tende, non corr. in ER;
(EN) i-ende.
SoN. XL. — (EN) u. 30. — 2-3.
Virgilio, ^ii. IV, 322-523, 328:
« ... et placidum carpebaat tessa
soporem Corpora per terras... Le-
nibant curas, et corda oblila labo-
rura ».— 5. (EN) si è.— 6. (ST) ot-e-
cliie, non corr. in ER. — 8. (ST)
contt al, corr. in ER. — i r .Cicerone,
[Tusciil. Ili, 63]: « [pse suum cor
edens d (Salv). — (EN) disiando. —
12. Petrarca, I, cxxxvii , g-io:
« Pioggia di lacrimar, nebbia di
sdegni Bagna ». — 14. " Con qual-
che disperato" (Salv).
Madr. III. — (EN) n. 37. — Tit.:
" Bella mano " (Salv). — Cfr. Pe-
trarca , I , cxLvn-cxLU. — 2. Pe-
RIMK 49
Per l'aurea testa, angelica & serena,
Io mi veggio spogliar di vita & d'alma.
Poi quando si riveste il bel candore ,
Sento spezzarmi in mille parti il core. g
CANZONE IV.
S' alcun conforto al misero è concesso
Tra li gravi tormenti , che sostene
Ne la vita mortai , colma d'aflPanni,
E quando vede & pensa fra sé stesso,
Ch' egli è benegno & pio, né gli sovene 5
D' bavere in alcun tempo usati inganni.
Prendi dunque, alma, ardir; che se molt'anui
Alberghi in questo cor, pien di tormento.
Potrai goder la gloria più perfetta
Che vien da mente retta; ,0
Ma s' io son per dolor ben presto spento ,
Tu sarai pur lodata, & io contento.
Ragion vuol che colui che fa 1' errore ,
La pena e '1 mal che merita, comporte,
Non quel , che'n la vertù sempre s' invia. 13
S' io trovo ingratitudine in Amore ,
Perché debio chiamar piangendo morte ,
Per la colpa d'altrui, non per la mia?
Però contra la sorte iniqua & ria
ti-arca , I, cxlvii, i, j: « bella
man... Diti schietti , soain ». — 5.
aurea testa. CiV. Petrarca , 11 ,
Lxxi, 2 ecc. — 6. (EN) vedo.
Canz. IV. — (EN) D. 51.— Imita
Catullo, Lxxvi, 1-2, 17-20, 23-25. —
I-IO. Da Catullo, l. e, i-6: « Siqua
recordanti benefacta priora volu-
ptas Est homini , «<m ne cogitat
esse piiitn, Nec sauctam violasse
fidem, nec Ibedere in ullo Divom
ail fallendos nunaino abusum homi-
aetate , Catulle , Ex hoc ingrato
gaudia amore tibi ». — 2. (EN) ma-
gior. — 9. più: in (EN) manca. —
12-13. (EN) .serrai; R. é che. —
13-20. Catullo, 7-12: « Nam quae-
cumque hominesbene cuiqu;iiu aut
dicere possunt Aut facere, liaec a
te dictaque factaque sunt; Omnia-
que ingratae perierunt credila
menti. Quare iam te cur amplius
excrucieà ? Quiu tu animo otlir-
mas atque istinc teque reducis Et
dis invitis desinis esse miser ? ». —
iies, Multa parata munent in longa 1 17. (EX) voglio piangendo chia-
50 RIME
Drizza la forza & l'arte, anima trista,
Per non partir di me tanto per tempo.
Vive & godi gran tempo ;
Che gloria & fama in lunga etade acquista
Quel, che di ben oprar mai non s'attrista.
Che posso io fare incontro al mio destino ,
Se"l mio misero cor non può acquetarsi,
Et de ragione il fren sempre disprezza.
Veggio quel volto humano, anzi divino,
Per cui dal primo di de subito arsi,
Più impio oguihora & di magior bellezza.
Ma che so, lasso me!, se forse apprezza
Il nostro amore & sospirando tace ?
Forse ella arde in silentio , & , quando vede
Un cor con tcanta fede,
S' allegra & ama , e '1 mio martir gli spiace ;
Che s'io sto in guerra, lei non vive in pace.
Questo eh' il crederà , se lei mi fugge
Et si nasconde ognihor che'l gran desio
Drizza quest'occhi intenti al suo bel cielo.
Vede il mio cor, ch'amando arde & si strugge,
Et prende in gioco ogni tormento mio.
Come può mai 1' ardor mostrarsi un gelo ?
Non s'asconde gran cosa in picciol velo;
Amor non lassa un punto il cor quieto;
Né quel che può celarsi amor si chiama;
Chi rider può, non ama ;
35
40
43
mar m. — 20-21. Petrarca , I, in,
Il : « Maiitienti, anima trista ». —
20-24. (EN) le forze; da m.; gode;
lonqa; Colui ..far. .satrista — 24 In
(ST) manca il noìi\ corr. in ER. —
26. (EN) jjo. — (ST) acquattarsi,
corr. in ER. — 28-30. (EN) V. di
quella il volto almo d ; dal 2^- gior-
no io s. a.; P. crt<do.— 31-32. Pe-
trarca,!, e. XIII, 63-64: « Glie fai tu
lasso? forse iu quella parte Or di
tua lontananza si sospira ». — 32-
33. (EN) ^acrzwanrfo t.; a.&su-
spira. — 35. (EN) S" a. el mio m.
forse g. s. — 37-38. Petrarca , I,
cxcvii!, 3: « E per più doglia poi
s'asconde e f'gge ». — 37. (EN) sel-
la. — 39-42. (EN) molli al primo e ;
a. si distrugge; Et par che prenda
in gioco il dolor mio; pò gran a.
m. un gielo. — 41. Petrarca,!, e. xiir,
18-ig: «...mia donna, che sovente in
gioco Gira il tormento eh' i' porto
per lei ». — 42. (ST) Como. — 43.
RIME
5t
.Né si duol chi dimostra il viso lieto;
Et quel che muoi' uon può morir secreto,
Hor, poiché chiaramente io veggio & piovo
Per lunga experientia esser molesto
A quel fatui pianeta, che m'atterra,
Cercar convenmi alcun remedio novo
Per sanar questo male, o tardo o presto,
Et vivo morto uscir d'eterna guerra.
Ma tu, che '1 ciel governi & mare & terra ,
(Se pur pietà ti stringe di mortali ,
Et se ad alcun giamai porgesti aita
Nel fin de la sua vita';)
A me miser soccorri in tanti mali,
Et togli dal mio cor gli ardenti strali.
Per me non cheggio homai mercede alcuna,
Canzon , da la mia Luna ,
Ma prego il ciel che presto ambi duo teglia,
Lei di molestia, & me d'acerba doglia.
50
53
60
64
SONETTO XLI.
Tu vedi , Amor, ch'io non posso morire,
Benché gioven morire è mio destino :
Ben sei crudel , eh' ognihor mi porti in sino
A r hora extrema, & non mi vuoi fluire.
Habbii pietà del mio lungo martire,
Et poi ch'io sono a morte homai vicino.
Dà senza afi'anno & facile il camino
A l'alma, che luttando vuole uscire.
(EN) che sta celato. — 55-60. Da
Catullo, l. e, 17-20: « di, si ve-
strumst mis^reri , aut si quibus
umquam Estremarli iam ipsa mor-
te tulistis opera. Me miserum a-
spicita, et, si vjtam pnriter egi ,
Eripite hanc pesfem perniciemqua
ir.ihi ». — 57. (EX) porgisti. — 59-
60. (EN) Me misero; Et togìiemi
dal c.—6\. (ST) alcuna, non corr.
in ER.— 61-63. Catullo. /. <^- ^3 e 25:
« Non iam illud quaero, centra me
ut diliprat illa... Ipse valere opto et
taetnim hunc deponere morhiim ».
— 6?-64. (EN) a. dìii; di tanta d.
SÒN. XLI. — (EN) n 54. — 2.
Cfr. canz. V, 50. — (EN) Et pur
(7.-5-8. Da Virgilio, J?'?. iv, 693-
695: « Tum Inno omnipotens lon-
giim miserata dolorera Dittìcilis-
52 RIME
Che, bench'io mora acceso di furore,
Non per mio fallo o per maligna sorte ,
Ma nanzi tempo d'amoroso ardore ;
Non può il bi"6ve sospir doler sì forte ,
Che non sia molto men che '1 gran dolore.
Che suole andare inanzj a l'aspra morte.
14
CANZONE V.
Tacete homai , soavi & dolci rime ,
Et voi, amorose, honeste , altere lode;
Deponete il cantar , che nulla prode ,
Poi che non è chi con amor vi stime.
Scender conven dal chiaro stil sublime
In li più bassi canti.
Voi, dolorosi pianti,
Rendetimi le mie lagrime prime:
Ché'l misero non prova magior bene,
Che disfogar piangendo le sue pene.
Non si parie homai pivi de l' intelletto
Antiquo in corpo fresco & giovenile,
Del viso & de la man bianca & sottile.
Del latteo collo & del marmoreo petto:
Parlar di morte è '1 mio magior diletto,
Di strani & varii mali,
Et di piaghe mortali.
Una fera mi tiene il cor coustretto
A pianger tutti i giorni di mia vita ;
Et chi m' il vieta, a pianger jaiù m'invita.
'5
que obitus Irim demisit Olympo ,
Quae hictantem anhna>n nexos-
que resolveret artus ». — 6. (EN)
sì V. — 10-13. (EN) mio f.; per sit-
perchio a. ; pò quel sol s. ; fia me-
no assai e.
Canz. V. — (EN) n. 52. — 1-2.
(EN) soai'e (& dolce r.; altiere. —
3. prode = prodest (Salv). — 8. (EN)
le lachrime miep. — 10-13. (EN)
piangendo sfogar latnare p.; hor-
mai; A. <& alto in età giovenile-,
dele man bianche <& s. — 12. Pe-
trarca, ( Tr. II, 88] : « Pensier ca-
niili in giovenil e tate » (Salv). — 13.
Petrarca, I, e. iii, 143: « Le man
bianche sottili». — 15. Cfr. Petrar-
ca, I, CLxxi, 5: «Lagrimar sempre è
'l mio sommo diletto ». — 19. (EN)
RniK 53
Tante perfettioni & si diverse
In un viso sì dolce et sì sereno ,
In tosco &■ in mortifero veleno ,
Sol per farmi morir, si son converse.
Di poi di tante mie fortune adverse 25
Quest' è '1 tranquillo porto ?
Sol mi resta iin conforto ,
Ch'essendo le speranze in tutto perse,
S'io vivo più, magior dolor non temo,
Per esser quel, ch'or sento, in grado extremo. 30
Sol m'è rimasa una mortai paura
De viver lungamente in tanti affanni ;
Dunque conven ch'io m'interrompa gli anni,
Ch'altro che ben morir non m' assicura.
Però per presto uscir da questa oscura 35
Pregion, contra la sorte
Che tarda la mia morte,
Corro ad morir , lasciando ogni altra cura ;
Che meu doglia si sente ben morendo.
Che sperando la morte & mal vivendo. 40
Quella che tene in mano il viver mio,
Pregai che prolongasse i giorni miei.
Conceder non m'il volse; hor no" 1 vorrei.
Che degno di tal ben più non son io;
Et poi che si lontan m' il trovo, oblio 45
Sol mi saria remedio.
Amor mi tien l'assedio,
Tal eh' uscir non mi lice dal desio.
Abbrevia , morte , dunque il tuo camino ,
Ch'anz'il destin morire è mio destino. co
piagner tntto il tómpo.— 21. (EN) 1 mittendo 0—38. Petrarca, I, c.iu.
perfectione. — 24. (EN) Sema cn-
gion per me, si soìi c— 30. (E\)
chio s. — 33. P^itrarca, II, e. i, ó:
« Interromper convien quest'an-
ni rei ». — 34. (EX) fra temei guai
non 'in a. — 36-38. (EN) e. ìnia s.;
Ad voluntaria m.\ Corro pret^r-
20: « Pur a pensar com'io corro alla
morte » — 43. (EX) noi vorrei. —
46.^ (EN) serria. — 47. Petrarca ,
Tr. I, IH, 69: « Ch'amor e cru-
deltà gli h;in posto assedio ». —
50. (ENj Poiché morir damore. —
Cfr. son. XLI, i.
54 RIME
SONETTO XLII.
Crescete, o versi miei, & cresca amore,
Cresca la gloria & fama a l'alta Luna,
Eeplicate, cantando, ad ima ad una
Le parti del celeste suo valore. 4
Crescan le fiamme in uno immenso ardore
Per questa che nel mondo è sola & una,
Che la beltà con castitade aduna,
Et viva è degna de divino honore. 8
Oda la terra e '1 ciel , mortali & dei ,
Le sue preclare lode & la mia fede,
E '1 suon de li lamenti & sospir miei. u
Vedran com'io, senza sperar mercede,
La servo amando, & premio non vorrei:
Nova beltade un novo amor rechiede! 14
SONETTO XLIII.
A r ombra di bei rami io vidi Amore
Et la mia Luna intenti al mio tormento,
Et variando l'ombre il mobil vento,
Mostrava vario & bello il suo candore. 4
Io superato dal continuo ardore ,
In dubio tra paura & ardimento :
— Dami remedio al grave mal eli' io sento. —
Dissi, qual buoni ch'aspetta vita & more. 8
Tacque madonna: e'I mio signor rispuose:
— Qual pregio può sperar per darti vita ? —
Diss' io: — Ch'io la farò, cantando, eterna. — u
— Non è costei de le mortali cose , —
Lui replicò, — né gli bisogna aita
Per haver fama chiara & sempiterna. — 14
~ XXIII, 5 e n.
SoN. XLIII.-(EN) n. 55: 8 co-
inè h.; IO premio; 12 mundane.
SoN. XLII. - (EN) n. 53.— 5-6.
(EN) el nostro i. a.\ Verso costai
chat m. e rara. — 6. Cfr. son.
RIME 55
SONETTO XLIV.
D.v l'auree chiome in sino al bianco pede
De la mia Luna io veggio un foco ardente ,
Ella è di neve, & no' '1 vede, uè '1 sente,
Ma il cor, eh' è d'esca, al foco il sente & vede. 4
Cosi mi tieu constretto & mi possedè
Questa neve si calda & si possente.
Che folle mi fa gir, privo di mente,
Talché del mio errore ogniun s'avede. g
Amor la mente & l'alma signoreggia,
Oiid' io, lasso!, m'accorgo & ben conosco
Che '1 senno, & l'intelletto homai vaneggi;!. u
Però, nascoso in luogo oscuro & fosco,
Acciò che'l volgo il mio fallir non veggia,
Vuo' lagrimando andar di bosco in bosco. 14
SONETTO XLV.
Pien di false speranze & van desiri ,
Col dolce, amaro, eterno mio pensiero
Il dì languendo & sospirando , spero
La notte trovar pace ai miei martìri, 4
Nel letto poi radoppian li sospiri ,
L'angoscia e'I duol sì paventoso & fero.
Che tra speme & paura io pur despero
Et moro, ovunque il corpo ardente io giri. g
Né giudicar potrei qual sia più forte
Di miei dolor, che tutti sono eguali ,
Né sperare alcun ben che mi conforte. ,,
Sox. XLIV,— (EN) n. 36.— 2.
(ST) luiia.— 8-g. (EX; deli error
>nei; La graa forza damar ra-
gion dispì-eggia. — 11-14. (EN)
horniai; loco; Al tal che mie fol-
lie altrui noti r.; Voglio pian-
gendo.
SoN. XLV. - (EN) n. 57. - i.
Petrarca, 2V.V, 53 : « Seguii già le
sperante e'I van desio».— ^.{EK)
lachrimando. — 3-6. Cfr. Petrar-
ca, I , CLXi, I, 3-8: « Tutto 7 di
piango; e poi la notte. ..Trovom'in
pianto e raddoppiarsi i mali: Co-
si spendo il ruio tempo lagrimando.
In tristo umor vo gli occhi consu-
mando E'I cor in doglia... che gli
amorosi strali Mi tengon ad ogni
or di pace in bando ».— 5-6. Cfr.
Petrarca, I, clxxviii, 5-8. — 6-7.
56 RIME
Nessun d'amore aspette altro che mali,
Né creda haverne al fine altro che morte,
Che comune sepulcro è di mortali. ^^
SONETTO XLVI.
Del vostro sdegno altero, aspro & damnoso,
De l'odio, de l'orgoglio & de l'oblio,
Di tant' amor contento hor piìi son io ,
Che di quel ben che desiar non oso. ^
Ch'io son si stanco homai de l'angoscioso
Sospirar, lamentare & pianger mio,
Che di voi guidardon piìi non desio ,
Anzi nel desperar prendo riposo. g
Né desidero già che '1 fato adverso
Mi si dimostre con benigno sguardo,
Ch'io son dal proprio ben fatto diverso. n
Più lieto son , quanto più fervido ardo ,
Il morire in natura è già converso ,
Et al mio male ogni soccorso è tardo.
SONETTO XLVII.
Mentre io pensava a quelli affanni immensi
Et martiri infiniti , ch'io sostegno ,
Col viso men turbato & più benegno
Disse la Luna mia: — Che fai?, che pensi? —
— Alma mia Diva, (io dissi,) disconvensi
A celeste , immortai , divino ingegno
Dimandar quel che sa , per gioco e sdegno ,
Non per pietà di tormentati sensi.
14
(EN) paventoso ; ognihor. — 14.
Catullo, [lxviiIjSq]: a comnntne
sepulcrìini » (Salv).
Son. XLVI.— (EN) n. S9.— i-X
(EN) Dal; Dal...dal...dal.-t,-6.V.
son. XXVIII, 13 e n.- 9. (EN) de-
siderio (sic).— 12. (EN) Tanto più
lieto son quanto più ìnardo. — 13,
In ER. corr. come se dicesse: iu . non conosch' io V alma mia Di
natura, mentre nel testo (ST) sta
bene.
SoN XLVII.— (EN) n. 60.— j.
(EN) ali dolori j.— 3. (EN) beni-
gno (sic) — 4. Petrarca, 1, xcix, 1:
a Che fai alma ? che pensi? » ; II,
V, 1 : « Che fai? che pensi?. ..^ì. —
5. Petrarca, Tr. III. 11, ig: « Come
RIME 57
Voi sempre state dentro a l'alma mia,
Ove mirate apertamente il vero
Di quanto Amor mi pinge in fantasia. , ,
Ivi vedete l'alto mio pensiero,
Et come , amando , il cor solo desia
Quel che, vivendo, mai veder no' spero. ,4
SONETTO XLYIII.
Un'alma Diva in forma humana adoro,
Che non sol nominarla io non ardisco ,
Ma solo in lei pensando impallidisco,
E 'n vederla mi sfaccio & discoloro. 4
Amando , ardendo , il j^roprio cor devoro ,
D'amor senza speranza mi nudrisco,
Del desiderio audace ognihor languisco.
Et de pietà di me medesmo io moro. 8
Cosi mi insegna Amor di sufferire
I suoi disdegni & ire & crudeltade ;
Ond'io vorrei, né posso homai , fuggire: ,1
Che, ne la j)rima & ne la extrema etade
Vivendo , mi conven sempre morire
D'amor, di desiderio & di pietade. 14
BALLATA EL
Per saper 1' hora incerta ,
Quando dal corpo human 1' alma si jjarte ,
In numerar le stelle alcun s'affanna;
E chi per tal cagiou la magic' arte
Ha multe volte esperta, j
Et in ciascuna, & questo & quel s'inganna.
va?». — g. (EN) state sempre. — 1 XL, n.— 8. Petrarca I, e. xvii, 1-2.
II. (EN) pingi (sic). — 13. (EN) [ « ... e nel pensier m' assale Una
bratna <& d. pietà si forte di me stesso ». — 9.
So.\. XLVIII. — (EN) n. 61. — I (EN) sofferire. — 12. (EN) Anzi
Ct'r. Petrarca, li, lxx, 1-3, 6-7, di 1 in la p. — 14. (ST) d'Amor.
cui qui negli stessi vv. si ripeton | Ball. III.— Imita Properzio, III,
le stesse rime. — 3. Cfr. n. al sou. 1 xxiii, 1-4, 1 1-16.— 1-6. Da Proper-
58 rimp:
Solo clii langue amando ,
Sa con qual morte & quando
Gli extrerai giorni suoi deve finire;
Et sa per qual camino, o presto tardo,
Arriva al suo morire.
Vede nel ciel del desiato sguardo
L' una & l'altra fortuna,
Et è tra gli altri fuor d'humana sorte.
Che, se per troppo ardor jjervene a morte,
Bencli'oltra l'onde stygie sia passato,
— Donde tornar non suole anima alcuna , —
Se la sua donna il chiama, è revocato!
18
BALLATA IV.
Quando fra donne humane la mia Diva,
Di proprii raggi ornata , apparir suole ,
Luna non è , ma chiaro & vero sole ,
Ch' ogn' altra stella del suo lume priva.
Io che so ben quant' è '1 pericol mio
De m' appressare al foco che m' accende ,
Quando più luce e splende,
Sempre che'ngaunar j)Osso il gran desio,
Per non sentir si forti i dolor miei,
Soglio fuggir di lei ;
zio, /.e, 1-4: «Et vos incertam,
mortales, funeris horam Quaeri-
tis , et qua sit mors aditura via ,
Quaeritis etcaelo, Phoenicura in-
venta, sereno, Quae sit stella ho-
mini commoda quaeque mala ». —
4. (ST) magica. — 7-1 1. Proper-
zio, l. e, 11-12: « Solits araans
novit, quando pevìtwrvis et a qua
Morte)).— 15-16. Properzio, l. e,
13-16: « lam licet et Stygia sedeat
sub arundine remex, Cernat et in-
fernae tristia vela l'atis: Si modo
damnatum revocaverit aura puel-
lae, Concessum nulla lege redibit
iter». — 17. Catullo, in, 11-12: « Qui
nunc it per iter tenebricosum Illuc,
unde negant redire quamquam ».
Quest'ultimo vs. anche (Salv).
Ball. IV. — (EN) n. 58 — i. Pe-
trarca, I, X, I : « Quando fra l'al-
tre donne ad ora ad ora ». — 3-4.
(EN) apprir (sic); Non è luna; C.
ogne stella di lume in tutto p. — 3,
(ST) Sole.—-}. (EN) Alhor che più
risplende. — ?). Cfr. Petrarca, I, e.
VI, 18: « Ma contrastar non posso
al gran desio ». — 9-10. In (EN)
il vs. 9 sta nel posto del io, e
viceversa. — 10. ( EN) più f. —
RIME
59
'4
Ma s'egli adven che l'animo comporte
Veder tra l'altre lei più luminosa,
Da la mia vista fugge ogni altra cosa,
Et sol madonna veggio & la mia morte.
SOLETTO XLIX.
L' alto pcnsier, che fuor d' humana sorte
Suol transportar l'audace mio desio,
Menò volando al ciel lo spirto mio,
Lasciando le mie membra in terra morte. 4
Il viso mio mortai non fu si forte
Che sostenesse il sol del iirimo idio;
Ma jaiù figure angeliche vid'io,
Et quei che divi son dopo la morte. g
Dove, hench'io mirassi ad una ad una
Tutte l'Immane & le divine cose,
Pur sempre m'era inanzi la mia Luna. ,,
Tra tante forme chiare & luminose,
Simile a lei io non ne vidi alcuna,
Che tutte eran men belle & più pietose ! ,4.
SONETTO L.
Quando con lo splendor del chiaro viso
L'alma mia luce rasserena il giorno,
Et col parlar soave volge intorno
Le stelle, che di vita mi han diviso; 4
Io non posso soffrir mirarla fiso.
Ma spesso gli occhi abbasso e 'n lei ritorno;
Onde , tremando d' amoroso scorno ,
Mille varii color mostro nel viso. 8
12. (EN)/'m l'a.
Son. XLIX.— (EN) n. 62.-Tit.:
" Estasi amorosa " (Salv_). — 5-9.
(EX) La mia rista m.; il primo
Son. L.— (EX) n. 63.— i. chia-
ro viso. Cfr. Pe traroa, I. lxxiii ,
9, II, Lxxvi, I. — (EX) col ì-psplen-
dor. — 5-6. (EN) pater; raglio
eterno dio; Ala le f.; dipoi la m. (I. roUjo). — 6. Petrarra, I, xi , 8:
mirasse. — 14. ClV. Ovidio, ^wior. | nEgli occhi in terra iaijriinaiiclo
III, XI, 41 : « Aut formoQsa fores 1 abbasso ». — 7. amoroso scorno.
miuus.autminus inproba, veliera». | V. il vs. del Petrarca in n. alia
6o KIHE
L'alma resta languendo di dolcezza,
Oscuri gli occhi & tormentato il core ,
Per duo contrarii affetti & pene extreme:
Di veder tal beltà sumraa allegrezza,
Del desperar gravissimo dolore:
Cosi son misero & beato inseme !
SONETTO LI.
H
Anima, ove ne vai senz' alcun duce?
E forse Amor che ti mostra la via?
Fusse mia sorte al men si dolce & pia,
Che ne menasse me, chi te conduce? 4
Vaitene dunque? Hor qual ragion m'adduce
A creder che senz'alma io vivo sia?
Ben può durar la dura vita mia
Senz' alma più che senza la mia luce. 8
Hor va, non ti fermare in altra parte,
In sin eh' al grembo di madonna arrivi ,
De le grafie del ciel j)er.petua stanza. i j
Et se forse a lei piace dimandarte:
— Che mantien senza l'alma i sensi vivi? —
Dirai: — Di veder voi ferma speranza. — 14
SONETTO LII.
Quando col mio periglio ardire io prendo.
Donna, di presentarmi al vostro sguardo,
Un veneno m' assalta lento & tardo ,
Che non morir, ma fa languire ardendo. 4
Nel vostro volto io veggio & chiaro intendo
Di qual man son ferito & di qual dardo;
Che, se'mirando voi m'agghiaccio & ardo.
Di sdegno io tremo & di beltà m'accendo. s
ball. II, 16. — II. (E\) Per dve
contrarie passione.
Son. li. — (EN) n. 64. — Tit.:
"All'anima che si parte" (Salv). —
I. « Aufugit mi animus » (Salv).
Cfr. Petrarca, I, clii, i: « Anima,
che diverse cose tante «. — (EN)
dove vai. — 8. (EN) Piìl senza
te. — 10. (EN) In fin — 14. (EN)
firma.
RIME
Gì
Onde gli occhi e '1 colore et l'alma, errando ,
In certo luogo allhor non san firmarse;
Et mostrau ch'io languisco ardendo, amando.
Non cessa in questo il cor di glori'arse
Ch'arde per voi, & dice sospirando:
— Che'n si bel foco mai Troia non arse ! —
SONETTO LUI.
svegliati pensieri, o spirti accesi,
notti eterne , o fervido desio
veloce memoria, o lento oblio,
voci, sospir miei mai non intesi;
begli occhi dal .ciel qua giù discesi,
Primo furor del desiderio mio ;
duro , crudo , inexorabil dio ,
Amor , per cui riposo io mai non presi ;
speranza crudel, sempre fallace,
Che ti dimostri vera , & con inganno
Fai che '1 timido cor diventa audace;
lagrime infinite, o lungo affanno,
Et tu, voglia noiosa & pertinace,
Deh , date ad altrui parte del mio danno !
CANZONE VI.
Alza la testa al polo.
Ardire, & forza prende, anima lieve,
14
SoN. LU. — 14. Per Elena. An-
che Properzio, II, jii 34 (di Cin-
zia) : « Pulchriiis hac fiierat. Troia ,
perire tibi )>. CIV. anche lo stesso
Properzio, l. e, 31-33, 35-40; e
il Petrarca, I, ccii, 7-8.
SoN. un.— (KX) n. 63.— 3.(EN)
tardo o.— 3. (EN) qui q.— -]. (EN)
crudo amaro. — (ST) Dio. — 9.
Petrarca, II, xxii. 5 : « speranza,
o desir seìnpre fallace ». — i i.(ST)
dinenta, non corr. in ER.
Canz. vi.— (EX) u. 67, con que-
sto titolo: Canzone di Chariteo
intitulata Aragonla. Anche in lo ■
de dei re e dei principi aragonesi
scrisse il Sannazaro la sua canz.
XVII, che il nostro ebbe certo pre-
sente. Scritta negli anni 1495-96;
accennandosi qui (vv. 271-291) al
regno di Ferrante ti, e non a quel-
lo di don Federigo. — Imita princi-
palmente Virgilio , JEa. VI , 679
sgg. — 1-3. Properzio , III , 1 , 11-
12: «Surge, anima, ex humili
iam Carmine, sumite vires, Pieri-
des: magni nunc erit oris opus ».
Sannazaro , e. ix , « Alma , ri-
prendi ardire ». — 2-3. (EN) Et
forza <& ardir p.; Et basso &
62 RIMR
Et l'amoroso stilo homai depone.
Un' altra via si deve
Tentar, per donde io possa alzarmi a volo 5
E scriver il mio nome in Helicone.
Eimembra dal principio la cagione ,
Perché venne in Italia da la Iberia
Di Goti la progenie più che humana.
Tu, Musa Antiniana, ,0
Comincia un suon conforme a la materia;
Et voi, Nymphe, piene
D'Apollo, che colete l'alta Hesperia,
Cantate hor meco, & voi, dolci Sirene
Dite di ciò che sempre vi sovene. , i^
L'alma, formata in cielo
Da r almo creator de la natura ,
Ogni cosa nel ciel chiaro comprende;
Che la substantia pura,
Separata dal nostro ombroso velo, 20
Quanto si fa là su vede & intende.
Ma, poi che per destiu qua giù discende.
Et per necessità d'alcuna stella
S' envolve ne le humane & gravi membra,
Di nulla si rimembra. 25
Poi, se del suo fattor non è ribella.
Ricovra la memoria
tenue. — 4-5. Da Virgilio, Georg. 1 principio altero, e la corona Vit-
III, 8-9: «... temptanda viast, qua i trice, onde Aragona Sparse rim-
ine possim Tollera liumo victor- j perio suo per ogni gente? ». •
que virum volitare per ora »; San-
nazaro, e. IX, 59-63 : « Che chi di
venir brama In qualche cliiaro
grido; Non sol per mirar fiso Ne-
gli atti d'un bel viso, Si puote a
volo alzar dal proprio nido ». Pe-
trarca, I, cciv, 14: «... alzarsi a
volo»; II, Lxxni, 13: « alzata a
volo » ecc. — 6. (EN) Et esser ce-
lebrato in U. — 7-9. Cfr. Sanna-
zaro, e. XVII , 80-S3 : « Potrò dir io
con rime argute , e pronte II bel
Musa Antiniana. L'accademia na-
politana , perché si riuniva nella
villa del Pontano, sulla collina di
Antignano. Ivi forse il poeta lesse
la sua canzone.— 12-15. (EN) N.
amene; Che colite le fonti de la
H.; dolce S. di quel. — iy-i8. (EN)
Dal creator dangelica n. ; 0. e.
sottil e. e. — 20. (ST) Seperata ,
non corr. in ER. — 24. (EN) in le
gravose humane in. — 20-30. " La
reminiscenza Platonica " \Phaedr.
KIME ■ ■ 63
De l'alta opra del cielo ornata & bella,
Et si ricorda de 1' eterua gloria,
Pur com'huom d' una odita letta liistoria. 30
Così quest'alma humìle,
Che, mentre piace al ciel , mi tiene in vita,
Hebbe sua parte anchor del ben celeste;
Ma poi che fu impedita
Di mille errori & data al piacer vile, 35
Queir opre di lassù le fur moleste.
Poi dispregiando la terrena veste,
Per fuggir di i^region si mese l'ale;
Et tenendo per mezzo il suo camino
Del palazzo divino 40
Cominciò ricordarsi , & come & quale
Era quello eh' udiva
In quel sidereo & alto tribunale
Da quella voce eternamente viva ,
Da cui ogni cloquentia alta deriva. 45
Tra gli altri un di, per sorte,
L'unico Padre & dio d' huomini & divi.
Che tempra col suo grave superciglio
Foco, aria , terra & i rivi,
Aprendosi d'Olympo l'auree porte, 30
Convocò gli altri dei nel suo consiglio.
Sedendosi da la man dextra il figlio,
Et volitando Amor per ogni jDarte,
Chiaramente li vidi inseme unire.
249] (Salv). — 37, (EN) Manca la.
—38. "Dal Fedro" [Lc.\ (Salv).—
40. Ovidio, 3/p^ I, 173-176: «Hic
locus est, quem, si verbis audacia
detur, Huud timeam magni dixisse
Palatia caeii ». — (ST) Palaz-
zo. — 42. (EX) Fur le cose e. n. —
44. (EN) eternalmente. — 47. V. la
n. ai vv. 50-51. — 48-49. Orazio,
Od. I, XII, 14-» 6: « ... qui res ho-
miuura ac deorum, Qui mare ac
terras variisque mundum Tem-
perai horis »; III, 1, 8: « Cuncta
supercilio moventis ». Cfr. anche
Od. Ili, IV, 45-48. — 50-51. Virgi-
lio, jEn. X, 1-3 : « Panditiir inte-
rea domus omnipotentis Olympi
Conciliiimque vocat divom pater
atque hominuni rex Sideream in
sedem ». — 50. (EN) Aprendo dil
0.— (ST) o/i/mpo—^3. (ST) voU-
rando, corr. in ER.— (EN) da lal-
tra p. — 54-58. La Trinila. Anche
Dante di essa (Par. xxxiii, 1 31-123,
64 • RIME
Come , no '1 posso dire ;
Che non è cosa de explicareiu charte:
La mente intende il vero ,
Ma la lingua mortai non ha tant'arte.
Li tre perfetti in un perfetto intero
Vidi congiunti , & rivederlo spero.
Dunque quel padre eterno
Parlando, in piedi cominciò levarsi,
Et lui dicendo, ogniun degli altri tacque;
Vidi il vento acquetarsi ,
Tremar la terra in sino a l'imo inferno,
Ove Pluton,, pien di superbia, giacque,
Et fermarsi del mar le placide acque:
— Cittadine del cielo, alme preclare,
Udite attenti il suon di mie parole.
Sotto la luna e'I sole
Mirando quanto cinge il salso mare,
Et quanto in terra giace,
Nulla cosa più bella al mondo appare ,
Né più felice & lieta, & più ferace
Oh' Italia , degna di perpetua pace.
Ma parte de le genti ,
Che sempre fur discordi & inquiete ,
A sue felicità contrarie trovo.
55
65
70
75
139 ): « quanto è corto il dire, e
come fioco Al mio concetto! e que-
sto, a quel ch'io vidi, É tanto, che
non basta a dicer poco... Ma non e-
ran da ciò le proprie penne ». — 55-
56. (EN) Non cìiora io p. d.; Come
li viddi in una <& iti tre parte. —
60-63. Da Virgilio, Z. e. , 100-103:
« Tum pater omnipotens , rerum
cui prima potestas , Infit; eo di-
cente deum domus alta silescit Et
tremefacta solo tellus, silet arduus
aether, Tum zephyri posuere, pre-
niit placida aequora pontus ». — 62.
(EN) inconi. — 65. (EN) infino.—
68-69. ^^ Virgilio, l. e, 6 e 104:
c( Caelicolae magni... Accipite er-
go animis atque haec mea figite
dieta ».— 68. cittadine del cielo.
Petrarca, II, lxxiv, 1-2: « ... ani-
one beate Cittadine del cielo » ;
Lxxsviii, 4: «E cittadina del ce-
leste regno »; III, xi, 44: « Uani-
tne che là su son cittadine ». Cfr.
Dante , Purg. xin , 94-95. — 69.
(EN) OcZ/tó.— 70-72. Virgilio, jEh.
I, 223-225 : « luppiter aethere sum-
mo Dispiciens mare velivolum
terras(\VLe iacentis Litoraque et
latos populos ».— 73. Petrarca, HI,
XX , 56 (dell' Italia): « Del mon-
do la più bella parte ». — 77-79-
RIME 65^
Più giù gli ocelli volgete
In quella parte , ove si stan le menti 80
Quete , senza cercare imperio uovo.
Movavi la pietà, per ch'io mi movo,
Dando favore a quell'alma cittate,
Ove religiou tanto si lionora;
Ove si vede oguihora 85
Più chiaro il sol che per l'altre contrate:
Ivi , temprando il raggio ,
Fa assidua primavera, & dolce estate:
Ivi sempre son fior, non che nel maggio;
Ivi nasce ogni ingegno acuto & saggio. 90
Una Nympha sepolta
Si ritrovò nel placido paese,
Ove vixe & lassò le belle spoglie ;
Et d' ella il nome prese
La città, ne la qual cantò una volta 93
Quel , eh' ^gli altri Latin la gloria toglie.
Ogni vertute unita si raccoglie
In quel luogo gentil, salubre, amico
Di Nymphe <fc di Poete, & j)roj)rio hospitio.
Negli homini giudicio 1 00
Grave & sottile, in donne il cor pudico
(EN) discorde,' soe; Più su. —
82-94.Cfr. Sannazaro, ^ro. p. m-
112: « Napoli...è nela più IVuctifera
et dilectevolp parte de Italia, al lito
del mare posta , famosa et nobi-
lissima città, et di arme et di le-
ctere felice forse quanto alguna
altra che nel mondo ne sia. La
quale da' populi da Calcydia ve-
nuti, sovra le vetuste cenere dela
Syrena Parthenope edificata, pre-
se et ancbora ritiene il venerando
noni,e dela sepolta giovane ». —
87-88. Da Virgilio, Georg, n, 149:
« Hic ver adsiditum atque alienis
mensibus aestas ». Cfr. anche Pon-
tino, Vers. Lyrici, 14- '7« — 88.
(ST) doZee.— 92-93. (EN) Trovata
fu; Che insino al fin di la sua
l'ita colse. — 94. Partenope. — 95.
(EN) Questa cittade ove e. — 95-
96. Virgilio. Cfr. Georg, iv, 563-
566: « Ilio Vergilium me tempo-
re dulcis alebat Parthenope studiis
florentem ignobilis oti , Carmina
qui iusi pastorura, audaxque iu-
venta, Tityre, te patulae cecini sub
tegmine fagi ». — 96. Cfr Dante,
Purg. XI, 97-98: « Cosi ha tolto
l'uno all' altro Guido La gloria
della lingua ». — 96-98. (ÉN) la
fama tolse ; virptde... si raccol-
se; Nel loco saluberrimo & a-
prico. — 100. (EN) iu^itio. — r.
66
EIME
Si vede, & d'honor degno.
Togliasi dunque homai dal sceptro antico ,
Ch' abhorrente di pace bave l' ingegno ,
Et la Gotica sterpe prenda il regno. — ,05
A questo ultimo accento
Le menti de li divi , alte & profonde ,
Restaron murmurando in vario assenso;
Si come in mezzo l' onde
Si suol sentire il suon del primo vento, no
Che di nocchieri il cor fa star sospenso.
Ma chi può contradire al Padre immenso ,
Che con giusta ragion sempre si move ?
Dunque gli dei , che forse eran discordi ,
Si mostraron concordi , 113
Conoscendo il voler del sommo Giove.
Il qual nel suo conspetto
Si fé' venir de l'anime più nove
Et più tranquille un bel numero eletto ,
Et diede un tal parlar dal sacro petto: 120
— Ite voi , felici alme ,
Vestetevi di regie membra humane,
Non di materia di volgare schiera;
Prendete in vostre mane
Le gloriose & honorate palme , 125
Ite ad godere il regno che vi spera.
Et tu, che prima ti dimostri altera,
105. sterpe. Anche nel Petrarca,
II , L, 4. — (EN) stirpe prende. —
106- III. Da Virgilio, uEn. , x,
96-99: « Talibus orabat Inno, cun-
ctique fremebant Caelicolae ad-
sensu vario , ceu flamina prima
Cum deprensa fremunt silvis et
caeca volutant Murmura, ventu-
ros nautis prodentia ventos ». —
III. (EN) Che li nochier fa star
col cor s. — 116. sommo Giove,
' Dio', come in Dante, Inf. xxxi,
92, Purg. VI, 118. — 118-1 19. '' A-
nime inuanzi ai corpi secondo la
opinione Platonica", [Tim,, 41 -42I
(Salv).— 119. Petrarca, I, clxxxi,
5: « Seniio di donne un bel nu-
mero eletto )). — 121. felici alme.
Virgilio, l. e , 669: «... felices ani-
mae » ; e cfr. Petrarca, II, xiv, i,
XXVII, 9, e. VI, 6.— 122. (ST) i?e-
5^/5.-123. volgare schiera. Dan-
te, Inf.w 105.— 126. spera, "idest:
aspetta, sp. esperà''^ (Salv). — 127-
128. Virgilio, l. e, 760-762 : « Ille,
vides,. . Proxinia sorte tenet lucis
loca, primus ad auras Aetherias...
surget ». — 127-135. Alfonso il
RIME
Et sei per sorte proxima a la luce,
Sarai lo primo Alfonso in quella terra.
Per te la cruda guerra
Sarà conversa in pace , & sarai duce
Di gloria & di vertute ;
Regnarai longo tempo, essendo luce
Di ciechi & de li languidi salute,
Facendo alto parlar le lingue mute.
Subito poi di questo
Regnarai tu, fortissimo, animoso,
De r Aragonia gente eterno honore;
Et, se nanzi al riposo
S'apparecchia travaglio assai molesto,
Sarai pur finalmente vincitore.
Contr'al crudel , barbarico furore
Tu starai salda, inexpugnabil torre:
Tal, eh' a l'udir del tuo famoso nome
Staranno hirte le chiome
Del gran nemico mio che'l cielo abhorre;
Et se prende ardir tanto ,
Che voglia di tua man l'imperio torre,
lo'l farò gir nel sempiterno pianto
Del tribunal del Gnosio Rhadamanto. .
Tu sei quel ch'ode spesso
Parthenope, che dèi scender volando,
67
130
'35
140
145
150
Magnammo (1442-1438). — 129.
(P]N) i^at^ai chiamata il primo
Alfonso in terra. — 130-131. La
lotta durata ventiin'anni tra Al-
fonso I e Renato il"Angiò, per la
successione al r^ame di Napoli. —
133. Sedici anni. — 136-179. Fer-
rante 1 (1458-1494). — 139-141.
Accenna alla seconda couEriura dei
Baroni (14S5-14S7). — ,143. (EX)
saldo (sic). — 146-150. E Maomet-
to li, che tentò d'impadronirsi del
mezzogiorno d'Italia, per mezzo
di Kecliik Ahmed , che , sbarcato
con diecimila fanti presso Otranto
(28 luglio 1480), occupò questa
città ( 13 agosto). I Turchi resi-
stettero per più d'un anno all'as-
sedio del duca di Calabria, e non
si resero che il 10 settembre 1481,
quando furon richiamati in patria
per la morte di Maometto (3 mag-
gio) , cui qui si allude nei vv. 149-
150. — 149. Virgilio, ^n. VI, 566;
« Cnosiiis haec Rhadamanthus
habet durissima regna». — 151-159.
Virgilio, l. t'., 791-794: « Hic vir
hic est , tibi quem promitti sae-
€8
RIME
Adornato de palma , oliva & lauro ;
Tu sei quel gran Ferrando,
Da noi tante fiate a lei promesso ,
Per dare al suo valor presto ristauro.
Per te dèe rinovare un secol d'auro,
Qual per campi & città del regio Latio
In tempo di Saturno andar soleva.
Per te già si subleva
La vertù prisca , & fa di vitii stratio ;
lano, tanto laudato,
Che vide inanzi & dietro in breve spatio.
Di tua prudentia vinto & superato,
Si potrà contentar sol del passato.
Le porte del suo temjjlo,
Che soglion per la pace esser serrate,
Per tuo volere aprir non soffrirai,
Ma, però che'nvidiate
Son le vertù, de cui sarai l'exemplo,
No' '1 potranno i vicin pater giamai.
Cosi strage mortai venir vedrai
De la guerra civile & intestina,
Mossa di qiiel Soldan nocente & vario.
Manifesto adversario
Di gente singulare & pellegrina.
Costui con voglia accesa
'53
iCo
165
170
'75
plus audis , Augustus Caesar, di-
vi genus , aurea condet Saecula
qui rursus Latin regnata per ar-
va, -Saf2<r»zo quondam )); cfr. an-
che Ed. IV, 5-7; e Dante, Purg.
xxu, 70-72: «... Secol si rinnuo-
ea ».— 162-163. Virgilio, ^(i. xu,
198: «... lanumque bifrontem ». —
" (Z|jia TzpótjM /.olì òk'kjiw r hoà-i) ;
prov. greco] " (Saiv). — 163". (EN)
redde.— 166-168. Dante, Par. iv,
80-81 : « ... costui pose il mondo in
tanta pace, Che fu serrato a Jano il
suo delubro ».~Cfr. Virgilio, ^n.
I, 293-294: «... dirae ferro et com-
pagibusartis Claudentur Belli por-
tae ))\ VII, 607-60S: « Sunt ge-
minae belli portae, sic nomine di-
cunt. Religione sacrae et saevi for-
midine Martis));e Livio, i, 19.— l69-
I7o.— (EN) Ma perche ?'.; de qxtal
sei solo e. — 171. (ST) -potrano ,
corretto in ER.— i vicin. Lo stato
della Chiesa. — 174. Soldan. Inno-
cenzio Vili, che aiutò i Baroni nel-
la loro seconda congiura. V. in
Regis Ferdinandi Primi Instr.
Liber , p. 28, uu brano contro i
RTME
Sotto color de fare opra divina,
Contr'a l'imperio tuo pigliarà impresa,
La qual con la mia man sarà difesa.
Oli' alllior la providentia ,
Volando al cor del principe Romano ,
Chianiarù j^er la pace un santo & puro
Et nitido Fontano ,
Che vencerà con la dolce eloquentia
Ogni animo feroce, acerbo & duro.
Costui , ponendo lume al petto oscuro
Del promoter d' horribili tumulti ,
Unirà iusemo "li animi diversi.
Quest* è quel che con versi
Di grandiloquo stil sonori & culti
Et con ornate prose
Eimembrarà del cielo i varii vulti;
Poi, discendendo ne le humane cose.
Dirà le tue vertù chiare & famose.
Né mancaranno ingegni ,
Imitator di questo altro Vergilio ,
Nel regno che t' aspetta sempre & brama.
Sannazar, Pardo, Altilio,
69
180
185
190
•95
papi, quasi tlel tutto conforme a
questo. — Soldan per ' papa ' è
anche nel Petrarca. Ili, xxm, 6:
« Ma pur novo soldati veggio per
lei ». — (EN) mobile cC- v. — i8i.
(EN) Allo7^ la p. — 183-184. Al-
lude alla pace conchiusa dal Fon-
tano tra Ferrante I ed Innocenzo
Vili, il 12 agosto del i486, dopo
la seconda congiura dei Baroni.
Cfr. Fontano, De Sermone, 11. p.
\6o\, Asinus, pp. 1528-29; Porzio,
Cong. pp. 203-206; e Tallarigo,
G. Ponta>ìo . P. 1, pp. 226-228. —
184. {"ST) povtaììo. — 190-190. Ac-
cenna (v. anche canz. X, 31-42) ad
alcune opere del Ponlano, come a-
veva fatto il Sannazaro, Eleg. I, ix
{De stìidi/.t fnds et libvis Joviani
Pontani).Ck. anche Ferrante Ca-
rafa in alcune ottave a Maria d'A-
ragona ( Delle stanze di div. ili.
poeti, Venezia, mdlxxsi, F. ii, pp.
60-65). — 191. (EX) sono {\. sonori).
— 193. Il maggior poema del Fon-
tano : Urania sive de Stelli.t , in
dieci libri, pubblicato da Aldo Ma-
nuzio, nel 1 505. Il (Salv)aggiunge ad
esso anche il De rebus coelestibus ;
ma quel trattato fu messo insieme
dopo la caduta degli Aragonesi, e
pubblic. nel 15 12. — (ST) dal e, non
corr. in ER. — 194-195. S'allude al
De Principe (pubblic. nel 1490, da
Mattia Moravo) : in esso si propone,
come esempio di buon re. Ferrante
I; piuttosto che al De Bello neapo-
litano, conili vuole il (Salv), perché
scritto e ptibblicato più tardi ( 1 509).
— 197. (ST) qoesto. — 199-200. Di
70 KIME
Summontio , di corymbo & laurea degni, 200
Faran cantando eterna la tua fama:
Tu, che sai ben come la gloria s'ama,
Temprarai con amor la signoria ,
Et con benefìcentia & con giustitia ,
Fuggendo V amicitia 2 05
D' assentator , che vendon la bugia ;
Et con atti soavi
Al popol di ben far darai la via,
Ornandol di costumi honestl & gravi,
Et con leggi emendando i modi pravi, 210
Con pili tranquilla vista
Mira quell'alme in muliebre gonna,
Ambe due caste & belle, ambe leggiadre.
Questa primiera donna,
Benché mostre la fronte mesta & trista, 215
Ti farà pur contento & lieto padre.
Questa sarà feconda, altera madre
Di Ee , d' Imperatori & di Regine.
Nascer vedrai di questa, alta & felice,
Fruttifera radice, 220
Multe piante gentili & pellegrine;
Et poi che sia arrivata ,
Come nave nel porto, al suo bel fine,
Dal cieco career sciolta & liberata,
Eitornarà qua su, lieta & beata. 225
L'altra che vien, dapoi
Giovanni Pardo, spagpuolo, Ga-
briele Altilio , Pietro Summon-
te, umanisti, accademici ponta-
niani , amicissimi del Puntano e
del nostro, largamente nelT /«-
traduzione. — 200. (EN) Con li
altri di e. & l. d. — 206. assen-
tator , latin. ' adulatori '. Il cap.
xiii del I)e Maiestate di Giunia-
no Majo è intitolato: « De fugire
li assentatovi ». — (EN) che ve-
don (sic) bugia.— 212-21}. Le due
mogli di Ferrante I — 214-225. 1-
subella di Chiaromonte , figlia di
Tristano e di Caterina Orsino, con-
tessa di Convertino , sposò, ai 30
maggio del 1445, Ferrante, allor
duca di Calabria; gli détte sei fi-
gli, quattro maschi, due femmine^
mori ai 30 di marzo del 1465. —
217 (EN) seconda (sic). — 226-234.
Giovanna d'Aragona, figlia di
Giovanni , fratello di Alfonso il
Magnammo , sposò suo cugino ,
RIME 71
Ch'ella luwerà lasciato il corpo exangue,
Sarà pur tua consorte amata & cara;
Di nobiltà di sangue ,
Et d'antiqua vertù giunta con voi; 330
Portarà teco il sceptro & la tiara.
Mira la vera forma , ove s' impara
Come con castità beltà s'aduna,
Più cho'n donna d'honore & gloria degna.
Costei dolce, benegna, 235
Morigera, fidel, non importuna,
Ti dà certa speranza
Di bella prole & prospera fortuna.
Da costei nascerà quella sembianza
De la beltà del ciel, che l'altre avanza. 240
Volgi indietro, <^' riguarda
Quell'anima, dignissima d'imperio,
Del tuo secondo Alfonso, altro Gradivo;
Il qual nel regno Ilesperio
Regnar dee ne la età più saggia & tarda, 24.5
Di poi che tu sarai mutato in divo.
Mira '1 volto virile, audace & vivo;
Vedi ne 1' elmo 1' auree diademe ,
Terror d' ogni barbarica phalange.
Da l'aurora, dal Gange, 250
A le Gade , del mondo parti extreme ,
Né simil , né secondo
Ferrante I, nel 14 settembre 1477.
— 229. (ST) nobilita, non corr. in
ER. — 233 (EN) Come beltà con
honestà si a. — 23S-240. (.EX) Di
lieta sorte; Et sotto humile <&
femminil s. ; Porta viril virtù. —
239-240. L'unica figliuola di Fer-
rante I e di Giovanna d'Aragona,
anch'essa chiamata Giovanna (n.
1477), che poi sposò Ferrandino
(1496). — 242 sgg. Alfonso il (14-48-
1493): sali al trono di quarantasei
anni (cfr. vs. 243), nel 94. — 243.
Petrarca, If, i, 7 : « Alma real , di-
qnissima d'impero >). — 248. Cfr.
Virgilio, l. e, 779: «...Viden ut ge-
rainae stant vertice cristae? ». —
249. Allude alla vittoria del duca
di Calabria sui maomettani, con la
presa di Otranto. Cfr. n.ai vv. 146-
1 50, ed i vv. 256 sgg.— (EN) T. dele
barbariche pfi. — 252-253. Da Ora-
;jio, Od. I, xii, 17-18: « Unde nil
maius generatur ipso , Nec viget
quicquam simile aut seciindum » ;
e Petrarca, II, lxx, 5-6: « Ma chi
72 RWE
Si vedrà generar cF humano seme ;
Ne la pace humanissimo & giocondo ,
Ne la pugna superbo & iracondo.
Poi clie'l misero Hydronto
Da r impia gente fia direpto & preso ,
Et populato inerme & d'improviso ,
Questo, interrito, acceso
D' un' ardente vertute & voler pronto ,
Difenderà l' honor del Pai^adiso.
Anz' il suo grave & animoso viso
Vedrà cader la plebe Machometa ,
Et render la città conti-a lor voglia ;
Poi con r opima spoglia
Intrando ovante ne la patria lieta,
Et ringratiando i dei,
Come pastor la gregge mansueta ,
Menarà presi 1' inimici miei ,
Carco d' honor , d' exuvie & di trophei.
L' altra , che segue V orme
Et nel solio real si presto siede ,
Ad ogni atto gentile ardita & presta ,
Sarà quel caro herede,
Di nome & di coraggio a te conforme ,
Et de la vita candida & modesta.
255
260
265
270
275
né prima, simil, né seconda Ebbe
al suo tempo »; cfr. II, e. viii, 55. —
253. (EN) Ec nela piigna altiero <£•
i. — 256. Hydronto, latin., 'Otran-
to'.— 257. (EN) limjnetosa g. sera
p. — direpto, latin., ' rapito '. — 258.
Quando Otranto fu presa da' Tur-
chi, dico un contemporaneo {Ar-
di, nap. IV, p. 163): che la spiag-
gia era deserta e che non v' era
neppure « uno fante al mundo, ne
soldato, maxime in Otranto». —
populato , latin. , ' devastato '. —
239. (EN) Costui. — interrito ,
latin., 'imperterrito'. — 263. (ST)
Plebe. — 264. (EN) su(i V. — 265-
266. Virgilio, l. e, 855-856: « A-
spice , ut insiguis spoliis Mar-
cellus opimis Ingreditur victorque
viros super eminet omnis ». — 266.
ovante, latin., 'trionfante'. — 270.
Sannazaro, Le, 120; « Carco tor-
nar di spoglie e di trofei ». — exu-
vie, latin., 'insegne'. — 271 sgg.
Ferrante II (1467-1496) : ebbe ce-
duto il regno dal padre nel '95,
quand' egli non aveva che venti-
nov'anni (cfr. vs. 272). — 272. (EN)
si tarda. — 274. (ST) corraggio. —
275. Virgilio, l. e, 768-770: «... et
qui te nomine reddet Silvius Ae-
ne^s.pariter pietate yel armisEgve-
RIME 73
Non vedi lampeggiar sovra la testa
Un cometa, eh' a voi vittoria mostra;
A la Francese indomita barbarie
Exitio & pesti varie? 280
D'animo più viril la casa vostra
Non fia mai che si vanto:
Questo in battaglia & in palestra & giostra,
In lettere , & in opre humane & sante ,
Sempre si raostrarà forte &: constante. 285
Tuo' che qui si conserbe
La gloriosa sterpe de li Goti
Con anime megliori & più perfette.
Li tigli &. li uepoti
Regnaran sempre, & le genti superbe 290
Domaran, perdonando a le soggette. —
Tacque, dipoi queste parole dette,
Il rettor de 1' Olympo; allhor li Fati
Benegni con le prospere Fortune
Fnr d' un voler comune. 295
Al suo j)arlar con volti chiari & grati
Ogniun consente & fave :
Sì come usar si suol nei gran senati ,
Che parlando chi solo il poder bave ,
Il minor volgo applaude inseme & pavé. 300
gius ». — 277. (EN) rad?.— 277-280.
Allude alla riconquista del regno,
compiuta nel 1496 da Ferrandino
contro i francesi di Carlo Vili, ed
alia moria che distrusse gran par-
te dell'esercito nemico (v. Passero,
p. 105). — Cfr.Virgiiio, yEn. 11, 681
sgg. — 278. Un cometa. Cfr. n. al
son. XI, 8.— 279. (EX) Et ala fera
i. b. — 281-283. Virgilio, l. e, 876-
877, 879-881: <( . . . nec Romula
quondam Ulio se tantum tellus
iactabit alumno... non ilii se quis-
quara inpune tulisset Obvius ar-
mato, seu cum pedes iret in ho-
stem Seu spumantis equi foderet
calcaribus armos ». — 2S3. (ST)
giost. — 284. Ferrandino fu a ba-
stanza cólto (v. Passero, p. 107), e
rimatore egli stesso in volgare (v.
Torraca , Discv.s. , p. 124). — 287.
(EN) Per costui la progenie deli
G. — 290-291 Virgilio, Le, 833:
« Parcere subiectis et debellare
svperbos ». Anche (Salv). — 291.
(ST) qneste, non corr. in ER. —
296-297. Cfr. Ovidio, Met. i, 244-
245 : « Dieta lovis pars voce pro-
bant. stimuiosque frementi Adi-
ciunt , alii partes assensibus im-
plent ».— 29S. (EN) in li S.— 300-
308. Da Virgilio , Le, 893-898 :
74
UTME
Due porte sono iti quel celeste albergo,
D' eterno bene & di letitia pieno :
L' una d'un negro & solido metallo ,
L'altra d'un bel crystallo.
Questa n'adduce il di lieto & sereno,
Quella la notte ombrosa.
Dunque il Ee, che del mondo tene il freno,
Per la porta più chiara & luminosa
Uscir fé' quella schiera alta & famosa.
303
309
CANZONE VII.
La candida vertute al cielo eguale,
Materia di scriptori, exempio & via
A cui vole imitare il ben divino,
Cominci a resonar la lyra mia;
Et col valor d' altrui farsi immortale ,
Lasciando il basso primo mio camino.
Queir animo virile & pellegrino
De l'Aragonio principe Ferrando,
Degno di regnar vivo intra li dei,
Sarà '1 principio & fin di versi miei.
Et se non posso consequir, cantando ,
Quel ch'ora io vo tentando,
« Sunt geminae Somni portae;
quarum altera fertur Cornea, qua
veris facilis datur esitus umbris,
Altera candenti nilens elephanto,
Sed falsa ad caelum railtunt in-
sorania manes. His ibi tura natum
Anchises unaque Sibyllam Prose-
quitur dictis portaque emittit ebur-
na ». Cfr. Omero, Od. xix, 562-567.
Canz. vii. — (EN) n. 66, con la
intitolazione: Canzone di Chari-
teo de Lode del Serenissimo Si-
gnor Principe de Capua, e lire-
ceduta da un prologo, che pubbli-
ehiaino iu Appendice,— hxi\id>. prin-
cipalmente il Panegyricus Mes-
ò-!.Jtee, attribuito aTibullo (IV,i). —
2. Sannazaro, e. xvn, 49 : a Materia
da potersi alzar di terra ». — 3-4.
(EN) Ad quel che imitar volno;
Comincia r. — 6. " Idest: la Poesia
amorosa" (Salv). — 8. Ferrandino,
principe di Capua (n. 1467). — (ST)
ferrando.— ^. Manca in (ST), V ho
supplito da (EN). — io. Cfr.Virgilio,
Ed. vili, 1 1 : « A te principium ,
tibi desinam ». — 1 1-14. Properzio,
III, 1, 5-6 : « Quod si detìciant vires,
audacia certe Laus erit: in magnis
et voluisse sat est ». — 11-12. (ÉN)
RIME 75
Et la forza è minor che '1 gran desio ,
Mi basta esservi pronto il voler mio.
Non voglio errando andar per dubbie lodo, 13
per liistorie incerte & fabulose,
Per tutto divolgate a mille a mille.
Chi non sa dir le guerre sanguinose
Di quei fratei Thebani, l'arti & frode
D'Ulysse, l'ira del superbo Achille? 20
S'io pur vo' dir le fiamme & le faville
Del nostro Endimione in versi honesti.
Non mi debbio partir dal proprio accento.
Con l'importuno, amaro, aspro lamento
Li celati pensier, dogliosi & mesti, 25
Fosso far manifesti ,
Replicando le lode ad una ad una
De la mia casta, pura & aurea Luna.
Quando la gicventi!i fu piti fervente
Non mi vergogno haver servito Amore , 30
Benché sempre gli sjjiacque il mio cantare ,
Hor da le Muse imploro altro favore.
Acciò che per le bocche de la gente
Io possa vincitor volando andare.
Et tu, spirto gentile & singulare, 35
Prestami il tuo divino & alto ingegno,
sto: io r. — 15. Tibullo, l. e, 106:
« At non per dì(bias errant mea
carmina lai<des y>. — 16-20. Cfi".
Virgilio, Georg. 111, 2-8: « Celerà
quae vacuas tenuissent Carmine
mentes, Omnia iam volgata : quis
aut Eurysthea durum Aiit inlau-
dati nescit Rnsiridis ara»? Quoi
non dictus Hylas puer et Latonia
Delos Hippodameque umeroque
Pelops insignis eburno , Acer e-
quis? ». — 18-19. La Tehaide .
VOdissea, V Iliade. — (Eì<i) le bat-
taglie famose: De qì'ei fratei. —
21. (¥jS) lanìoro.ie faville. — 22.
" Endimiou amante della Luna.
Luna dama del Cariteo " (Salv). —
24. Cfr. son. VII, 2.-2S.Cfr. sest.I,
18.— 29-30. Petrarca, I, e. xvi, 13:
« Che'n giovenil fallire è men ver-
gogna ». — 29-32. Cfr. Properzio, l.
e, 7-10: « Aetas prima canat Ve-
neres, estrema tumultiis. Bella ca-
nam, quando scripta puella meast.
Nunc volo siihducto gravior pro-
cedere voltu. Nunc aliam citharam
me mea ^lusa docet ». — 33-34-
Virgilio, l. e, 9: «... victorque vi-
rum volitare per ora ». — Ennio
(app. Cicerone, Tvsnd. 1,15; De
Senect. 20] : « volito rivi'' ppr ora
viri'.m )) (Salv). — 33. (EX) Ad
^6 RIME
Et quel niveo parlar, diserto & netto,
Dimostrami il sereno & dolce aspetto,
Di reger V universo assai più degno
Che l'Italico regno. 40
Extolle la mia lyra a tanta gloria,
Ch'io rimembri i tuoi gesti in vera historia.
Benché di tuoi magiori i celebri atti
Sonan con chiara tromba in ogni parte ,
Tu de la gloria lor non ti contenti ; 45
Ma con favor di Pallade & di Marte
Contendi superar la fama e' fatti
De le passate vostre antique genti.
Sei preclaro ornamento a li presenti ,
A li posteri tuoi non dubbia speme 50
De riposo , d' honore & gloria vei-a.
Un tanto humano ingegno in mente altera,
Cercando tutto l'universo inseme
Fin a le parti extreme,
Non si vedrà giamai, né si sagace, 55
Invitto & forte sempre in arme e 'n pace.
Però che mai nessun con tal dolcezza
Seppe affrenar l'indomita insolentia
De r inconstante volgo & inquieto.
Tu vinci con soave, alta eloquentia 60
Ogn' animo crudel , pien di durezza,
E '1 mesto fai in un momento lieto.
Qual animo più saldo & più quieto ^
Qual più sereno volto tra le squadre.
tal. - 42. (EN) Che^^ r. — (ST)
rimemiti. — 43-51- Tibullo, l. e,
28-32: « Nani quamquam anti-
quae gentis siiperaui til3Ì laudes ,
Non tua maiorum contentast glo-
ria fama, Nec quaeris quid qua-
que index sub imagine dicat, Sed
generis priscos contendis vincere
honores, Qiiam tibi raaiores inuius
decus ipse futuris )>.— 47. e*. (ST)
<è. — 55-56. Tibullo, l. e, 39-40:
« Nam quis te malora gerit castris-
ve foroveì Nec tamen hinc aut
bine tibi laus maiorve minerve ». —
56. (EN) o in ;j.— 57-62 Tibullo,
l. e, 45-47: «Nam seu diversi fre-
mat inconstantia vìdgi. Non alius
sedare queat: seu iudicis ira Sit
placauda , tuis poterit niitescere
verbis ». — 60. (EN) Tu vencer sai
con sìiave e. — 62. (EX) fare. —
64-65. (KN)inter; tutto (sic). —
RIME
77
Qual ])ensier più sicur, tranquillo <^ tufo g^
Nel pericol luagior fu mai veduto i
De r intrepido cor simile al padre ,
D' humanità a la madre ;
Quella ch'io anclior farò più gloriosa,
Se potranno i miei versi alcuna cosa. jo
Tu non ignori in quale arte di guerra ,
E 'n qual guisa Texercito securo
Mover bisogna , o posare , o munire ,
Dove conven signar la fossa o 'I muro,
Et dove più feconda sia la terra, 75
Più commoda a difesa & a ferire.
Né l'ingegno ti manca, o forza, o ardire
In reger l'aspro, indomito destriero
Col freno, o con li sproni, in pugna o giostra.
Sempre in ogni exercitio si dimostra So
Il viso tuo leggiadro, grave, altiero:
S' io fusse un altro Hornex'O
Tanti duoni, dal cielo a te concessi,
Dir non potrei, se mille lingue havessi.
6Q-67. Alfonso, (luca di Calabria, e
Ippolita Maria Sforza.— 67-68. Cfr.
Sannazaro, Farza (di Cliovanna, fi-
glia di Ferrante 1), p. 319: « Una
leggiadra Infante in cui natura
Per sua lieta ventura ha poste
insieme Le bellezze supreme de
sua madre Col gran valor del pa-
dre ». — 69. (EN) farro vie più
fatìiosa.—6g-yo. Era morta (1488),
quando il poeta scriveva; la no-
minò poi nella Pascha , V , 142-
143. — 71 -72. (EN) larte della g.;
Per qual parte. — 71-76. Tibullo,
/. e. , 82-88: (( lam te non alias
belli tenet aptius artes , Qua de-
ceat tutam castris praeducere fos-
sani. Qualiter adversos hosti de-
(ìgere cervos, Quemve locum du-
olo mellus sit claudere vallo, Fon-
tibus ut dulces erumpat terra li-
quores , Ut facilisque tuis aditus
sit et arduus hosti, Laudis et adsi-
duo vigeat certamine miles ».— 72.
(ST) excercito. — 76. (EN) com-
ìnoda. — 77-79 Tibullo, l. e, 91-94 :
« Aut quis equum celerem angu-
sto conpescere freno Possit et ef-
fusas tardo permittere habenas ,
Inque vicem modo directo conten-
dere passu, Seu libeat, curvo bre-
vius convertere gyro efc. ». — 79. Di
molte giostre del principe di Ca-
pua parla il Leostello. pp. 186, 266
ecc.— (EN) freno. -il. (EN) /. a-
ìnenoa. — 82.(ST)/iome>'0. — 82-84.
Allude ad Omero, //. 11, 488-490:
Y[\r/rrj S\\iy. v.j e-jiw au5v37oy.at
où^'òvowflvo) • OitSt'i uot (Ji/.a t/iv
•y^'-JTTat , Skv.y. Sì aróuctT^ ìivj
4><>jvrj ^'aòó/;/.To; , ydl/.zo^j Si u.01
r,-oo i-jiict. E da lui Virgilio. JEn.
vj, 625-626: « Non, mihi si Un-
78
RIME
Se magnanimo cor, se petto invitto,
Se mano liberale hoggi è nel mondo,
In te solo si vede & non altrove ,
Tu sol sai dar con l'animo giocondo,
Et aitare il misero & l' afflitto.
Servando il modo, come, quando & dove:
Tre vertù regie , inusitate & nove ,
Rado vedute in questa nostra etade,
Han presa in te più naturale stantia:
La fede, e 'n ben oprar ferma constantia;
L'altra, quell'alma liberalitade;
Le quai per dritte strade
Ti menaranno al ciel senza fatica,
Poi de la tua Nestorea etade antica.
Per farti il ciel più chiaro & più bealo,
Acciò eli' a te non fusse altro simile
In ogni human costume & attiene,
Col bel liquor del suo saver gentile
Le Muse t' han nudrito & educato
Ne le braccia d'Altilio, tuo Chirone;
E'n mezzo al sacro fonte d'Helicone
Phebo ti die' la dotta lyra in dono ,
Per man del gran Barrhasio, e'I dolce canto
Che diero al Thracio Orj)heo il primo vanto:
90
93
105
guae ceutum siiit oraque ceutum,
Ferrea vox » ; citato anche dal
(Salv). Cfr. pare Georg. 11,42-44;
Ovidio, Met. vili, 533; Petrarca,
III, XVI, 7 : « Che già non mil-
le adamantine lingue ». — 83-84.
(EN) Tante gratie... concessi; ha-
vessi. — 86. (EN) è lingic. — 91.
(ST) iJe^r/e— 95-97. (EN) la chia-
ra l.; Le qual; rnenaran. — 98.
Nestore visse trecent' anni: clV.
Tibullo, l. e , 50-51, Properzio, III,
V, 46. E fu mal profeta: Ferraii-
dino morì (1496) a ventinov'anni! —
100-102. (EN) Ad tal che al món-
do non trovassi il lìaro; desigtio
(& a.; Come la madre il figlio a
mata <£• caro.— 104. " Altilio edu-
catore e maestro di Ferrando II '
(Salv): V. M. Tafuri, Op. cit., pp
xxvii sgg. — 105. (EN) al fonte
sacro. — 106. V. la n. alia canz
VI, 284 e n. — (EN) lamica l — 107
gran Barrhasio. (osi (EN) e (ST)
Certamente Giovan Paolo Parisio
detlo Aldo Giano Parrasio [i/^'jo
1 522): anche (Salv). Nel 1490 inse-
gnava già lettere greche e latine in
Cosenza; nel '92 era in Napoli col
padre , regio consigliere. Ferran-
te II lo nominò scrivano nella re-
gia cancelleria; don Federigo, se-
KIMK
79
Orpheo che col soave & alto tono
Di sua voce , & col sono
D'està lyra iramortal, movendo i passi,
Si trahea presso i boschi , i monti e i sassi.
Non nascerà de la natura tua
Né nacque in terra mai mortale o divo
Sì degno de 1' honore & nome regio.
S' alcun Greco o lìoman per fama è vivo,
La loda fu del tempo & non la sua,
Ch'allhora era vertute in luogo egregio:
Una sola vertute in sommo pregio ,
Anzi nel sommo ciel , poneva ogniuno.
Ma vederne in un solo tante unite
Hor, che dal mondo son tutte sbandite;
Et in secol sì fosco , oscuro & bruno
Vederne chiaro alcuno ,
Ne sente tanta gloria l'universo,
Che prosa dir no"l può, rima, ne verso.
Principe, il regio, eterno, alto palatio
Del chiaro ciel, dove quel che si vuole,
Facilmente si puote in tempo breve ,
125
gretario e consigliere. Nei '97 la-
sciò Napoli; e nel 1509, quando
usciron le rime del nostro, egli,
essendo già stalo nelle università
di Roma , di Milano, di Vicenza,
insegnava, in quella di Padova, ret-
torica: non che ^ranrfe, era dun-
que grandissimo. V. Minieri Ric-
cio, Biogr., pp. 408-409. — (EX)
dil tuo li. — 108. Virgilio, Ed. iv,
55: « Non me carminibus vincat
nec Thracius Orpheus ». — (EN)
avanto. — 109-1 12. Properzio, IV,
I, 41-44: « Orphea delenisse feras
et concita dicunt Flumina Threi-
cia sustiiuiisse lyra: Saxa Cithae-
ronis Thebas agitata per artem
Sponte sua in muri membra cois-
se ferunt ». CtV. Orazio, Epi.st. Il,
nr, 392-396 in n. al son. LIV, 5-
II. — III. d'està 1. Il p. avea in
mano o vicino una lira? — 112.
(EN) appresso. — 114-11^. (ST)
Divo; Regio. — 115. (EN) Et que-
sto chiaramente io provo et veg-
gio. — 118-119. (EN) in maggior
pregio (sic) nel sumnio seggio. —
126. Petrarca, Tr. Ili, i, 75: « Che
comprender noi ^\\ò prosa né ver-
so »; 2'r. I, IV, 70-71 : «...che né
'n rima Poria uè 'n prosa assai
ornar né 'n versi »; I, s. viii, 12,
20: « Che non curò giammai ri-
ìne né versi... come si legge in
prosa e 'n versi «.— (EX) Che dir
non si potrebbe in jJrosa v. —
127-1-28 palatio del e. ciel. 0-
vidio. Mei. I, 166: «... magni Pa-
latia caeli »; e ciV. canz. VI, 39 e
)?.. — 128-129. Dante, 7n/! 111,95-96:
« Vuoisi cosi colà dove si puote
Ciò che si vuole ». Anche (Salv).
8o RIME
Del tuo lungo inorar si lagna & duole, 130
Et porta invidia al glorioso Latio,
Che di triomphi tuoi goder si deve.
Ma se r ingegno human non è si greve
A contemplar de le fortune varie
Quel che '1 divin saver solo prevede, 135
So che '1 Ee de li Dei certo s' avede
Che tue vive vertù son necessarie
Per le pesti contrarie;
Che, poi che sei remedio a' nostri affanni.
Starai qua giù tra noi molti & molt'anni. 140
Ma tu, Vergine madre, intatta & alma,
Che serbi l' Aragonio nome antiquo
Per far del sangue barbaro vendetta,
Non ti dispiaccia che quest'alma eletta
Emende tanti error del mondo obliquo, ,45
Che r inimico iniquo
Del tuo figliuol assai ne die' supplitio
In quel furor de F Hydruntino exitio. ,48
SONETTO LIV.
Hor ritornamo ai primi aspri tormenti,
A le lagrime prime, al primo ardore.
Chi credesse che lei, mossa d'amore.
Fermasse il corso al suon di miei lamenti? 4
Orpheo con suoi soavi & dolci accenti,
— 130. morar. " Idest: dimorare "
(Salv). — 131. Latio. Qui ' Italia '. —
136. (EN) Quel chel re deli dei
ceì'to Sfivede {y\ è confuso anche
il vs. 133). — 140. V. la n. al vs.
-142. nome, latin. (Virg'. ul^n.
druntino exitio. La strage fatta
dai maomettani in Otranto (13 a-
gosto 1480). Un contemporaneo
{Ardi. nap. Vi, 88): « mai non
furono mure de terra più sangui-
nate de quelle w.
VI, 758: « nostrum... in nomen), I Son. LIV. -^ Questo e tutti i
'stirpe'. (EN) il Aragoneo...an- componimenti che seguono ( ec-
tico. — 145-146. (EN) iìiiro: Chel \ cetto il son. CIX ) si trovano so-
perverso initnico. — inimico, ■" i- 1 lamente in (ST). — S-'i- Orazio,
dest: Turco " (Salv). — 148. Hy- | Epist. II, 111, 392-396: a... Orpheus.
RIME
8l
Per li boschi spargendo il suo dolore ,
De le fere mulceva il duro core ,
Facendo andare i monti e stare i venti.
Al cantar d' Amphione i duri sassi
Si congiunsero attendo in compagnia,
Et fur di Tbebe un muro altero & forte.
Ma no' spero che mai la Luna mia,
Al suon di prieghi miei ritenga i passi,
difesa mi sia centra la morte.
14
SONETTO LV.
spirto d' honestade & gloria pieno ,
Petto , di fede albergo & di candore ,
Volto, onde vien quel foco & quel dolciore,
Col quale Amor coutempra il suo veueno;
Occhi , più chiari assai che '1 dì sereno ,
Uel più propinquo ciel vivo si^lendore;
Quantunque in voi non habbia forza Amore,
Volgete a me l'honesto sguardo al meno.
Ch'altro dal vostro sole io non vorrei,
Che '1 dolce lampeggiar, che mi fu duce
Al camin degli affanni & dolor miei.
L'oro, le gemme & quanto India j^roduce ,
Dictus ob hoc lenire tigres rabi-
dosque leones. Dictus et Amphion,
Thebanae coiiditor urbis , Saxa
movere sono tesiudiais et prece
blanda Ducere , quo vellet ». V.
anche in n. alla canz. VII, 109-
113, un brano di Properzio, IV,
1, 41-44,
SoN. LV. — 6. Il cielo della Lu-
na. Cicerone [ De re pubi. VI , xvi] :
(( (Luna) citima terris » (Salv).— 9.
sole, ' splendore ": cfr. sest. I, 39,
e ZI. — IO. lampeggiar. Petrar-
ca, II, xx.iv, ó: « E *^ lampeg-
giar deìV-ànf^eWco viso»; TV. III,
ji , 80 : « Ch' i' vidi lampeggiar
quel dolce viso ».— lo-i i. Petrar-
ca, [I, e, vu , 2-3]: «.., uu dolce
lume Che mi mostra la via che al
ciel conduce» (Salv). — 12-14. 0-
razio. Od. Il, xii, 21-26: (i Num
tu quae tenuit dives Achaemenes
Aut pinguis Phrygiae Mygdonias
opes Permutare velis crine Licy-
mniae Plenas aut Arabum domos,
Dum flagrantia detorquet ad o-
scula Cervicem »; III.xxiv, 1-2:
« Intactis opulentior Thesauris A-
rabum et divitis ladiae »; cfr. E-
52 RIME
Et de Mida il thesoro io cangerei
Per un rivolger sol di vostra luce!
14
SONETTO LVI.
Qual anima ignorante, o qual più saggia,
Qual huom mortale dio, qual donna o diva,
Qual antro, prato, o valle, o fiume, o riva,
Qual habitata o solitaria piaggia,
Qual selva è sì reposta si selvaggia,
Qual lauro in aere cresce, o quale oliva,
Che non sapia il mio male onde deriva,
Et de sì grave arder pietà non haggia?
Qual parte è hoggi al mondo, che non sia
De le lagrime piena & del lamento.
De le voci, sospiri & doglia mia?
Non giace cosa homai sotto la via
Del sol, che non conosca il mio tormento,
Se non sola costei, ch'io più vorria!
SONETTO LVII.
Poi die negli occhi il cor cliiaro si vede,
Et dentro il cor la vostra imagin vera,
Sculpta da man d'Amor, perfetta, intera.
Da la siderea fronte al bianco piede;
pist. I, VI, 6; VII, 36. — 13. Mida.
Catullo, XXIV, 4: (( ... divitias Mi-
daei). — 14. Petrarca, I, b. 11, 7:
« Ma puossi a voi celar la vostra
luce ».
SoN. LVI. — È in un cod. di A-
postolo Zeno, fra altri, col nome
del Sannazaro (v. in Opere volg. ,
p. 434) , con queste var. : 2 qi(al
dio; 3 prato fiume selva; 5 fe-
ra; 6 aria; 7 mal donde; 9 oggi
d. m. è/ IO e di L; 14 che sol v.
I fratelli Volpi non s'accorsero
ch'apparteneva al nostro. — 1-13.
Cfr. Petrarca, II, xx, 9-14; « Non è
sterpo né sasso in questi monti ,
Non ramo o fronda verde in que-
ste piagge. Non fior in questi valli
foglia d'erba; Stilla d'acqua non
vieu di queste fonti, Né fiere han
questi boschi si selvagge. Che non
sappian quant'è mia pena acer-
ba ».— 2. (ST) Dio. — 5. (ST) re-
sposta, non corr. in ER.— 6. (ST)
Lauro. — 14. Petrarca, I, oli, 2-3:
«...se non sola colei Che sovr'ogni
altra e eh' i* sola vorrei ».
SoN. LVII.— i. Petrarca, I, GLI,
6: «Non vedete voi 'i cor negli
occhi miei? »: anche (Salv).
UIME 8^
Con lingua non conven farvi più fede
D' ardor sì manifesto , ove no' sjDera
Altro, che desperar, l'anima altera,
Altro che ben servir senza mercede. 8
Tacendo, col mirar parlarvi io soglio,
Et con magior ardir che non vorria,
Che de si gran beltà temo l'orgoglio. n
Sol che vedate voi che '1 cor desia
Languir, morir, servendo; altro non voglio:
Quest' è '1 fin del triompho & gloria mia. 14
SONETTO LYIII.
Pregio, gratia, beltà, senno perfetto,
Candor meraveglioso, anzi celeste,
No' sperar che con lingua lo manifeste
Il foco, che per gli occhi esce dal petto. 4
Tu pòi veder col chiaro, almo intelletto.
Non impedito mai d'humana veste,
Nel viso sfavillar le fiamme honeste.
Che d'honesta cagion mostran l' effetto. s
Repulse non temo io, non temo asprezza,
Ch'altro il mio cor non vuole, altro non chiede
Che mirar sempre il sol di tua bellezza. u
Due phenici hoggi al mondo il ciel concede:
Una beltade & sola una fermezza,
Contenta di servir senza mercede. 14
SONETTO LIX.
A voi sola vorrei far manifesto
L' incredibil dolor che '1 cor m' assale ,
SoN. LVIII. — IO. Petrarca, I,
Lxxxvi, 5: « Pasco 7 cor di so-
spir ch'altro non chiede, «.—non.
(ST) un , non corr. in ER; e cor-
retto anche dal (Salv). — lo-i i. Pe-
trarca, II , Lxxv, lo-i 1 : «... e mai
non volsi Altro da te che 'I Sol
degli occhi tuoi ». — 12. phenici.
Anche di Laura il Petrarca , I ,
CLVi,4: «Nè'n ciel nè'n terra è più
d'una fenice »; III, e. 111, 49: « Una
strania fenice «; Lin, 1 : « E que-
84 BIMR
Né conoscesse pria qual è '1 mio male
L' invido volgo , al ben sempre molesto.
Ma, perché già passato è l'anno sesto
De la mia pena, al valor vosti'o eguale,
Celar non posso agli altri un foco tale ,
Et per paura a voi no' '1 manifesto.
Ben vorrei ch'alcun altro havesse ardire
De dirvi, ch'io per voi moro & languisco.
Et agli altri celasse il mio martire.
Ma chi osarà per me, s'io non ardisco?
S'io me discopro, chi mi può coprire?
Chi mi sarà fidel , s'io mi tradisco?
«4
SESTINA IV.
Poscia eh' io fui subietto a l' impio regno ,
Con arme di beltà tratto per forza,
Non hebbi al mondo mai di gloria parte ,
Le nubi mi negàro & sole & luna;
Ond' io ti prego, primo honor del cielo,
Che tu mi rendi a la mia vita prima.
S'io fusse nato in quella etate prima,
Che Saturno regeva l'aureo regno,
Allhor eh' era ad ogniun comune il cielo ,
Né vi regnava crudeltà né forza,
Forse che fatto havrei de la mia Luna
Crii aspri sdegni mancare in qualche parte,
fusse io fuor dal mondo, o in quella parte
Creato con color che furon , prima
Che dimostrasse i rai la bella luna;
Ch' or io non servirei quel ferreo regno.
sto '1 nido in che la mia feni-
ce ». — (ST) Phenici.
SoN. LIX.— 4-5. " L' anno sesto
del suo amore " (Salv).
Sest. IV. — 5. p. onor dsl
cielo. Nel sistema tolemaico il
primo cielo è quello della Luna.
Cfr. anche vs. i8. — 8. Virgilio,
Ed. IV, 6 : « ... Saturnia ì^egna »;
Ovidio, Met. I, 89: (.i Aurea pri-
ma sata est aetas ». — 13-15. Du-
rante il Caos; che, allora, secondo
Ovidio {Met. I, lo-ii): « Nullus
adhuc mundo praebebat lumina
RIME 8$
Che li mortali e i dei vence per forza ,
Né par che'l primo honor gli iieghe il cielo. i8
Colui che sol col cenno tempra il cielo,
La terra e '1 mar ventoso & ogni parte
Del mondo, non dispregia una tal forza;
Et, (se vana non è la fama prima,)
Quel ch'ebbe in sorte il fal)uloso regno.
Arse in fiamma crudel per la sua Luna. 24
Luogo non è qua giù sotto la luna,
Ne là su nel profondo & arduo cielo,
Immenso spatio de l'empireo regno,
Che già non l' habbia Amor di parte in parte ,
Da V ultima magion fin a la prima ,
Preso con violenta, invitta forza. 30
Ma sol di questa inexpugnabil forza
Triompha la beata, altera Luna,
Et serba a castità la fede prima.
Hor empia Endimion di sogni il cielo ,
Et Pan di voci i boschi & ogni parte,
Che lei si vive nel siao proprio regno. 36
Del regno Archadio il Dio né con sua forza ,
Né con frode hebbe mai parte in la Luna ,
Che, come hor corre il ciel , corse da prima. 39
SONETTO LX.
di bellezza intera eterno nume.
Comune & naturale invidia a quelle ,
Titan, Nèc nova crescendo repa-
rabat cornua Phoebe ». — 17. Pe-
trarca, I, s. vili, 19-20: « Uomini
trarca, II, e. n, 9-11: « E s'egli è
ver che tua potenza sia Nel ciel si
grande come si ragiona, E nell'a-
e Dei solca vincer pei' forza, A- | bisso «. — 23-24. Plutone e Pro-
mor ». — 19-21. Giove: cfr. canz.
VI, 46-48. Orazio, Od. Ili, iv,
45-48: « Qui tcrrayn inertem, qui
mare temperai Ventoswn et ur-
bes regnaque tristia , Divosque
mortalesque turbas Imperio regit
unus aequo ». — 19-24. Cfr. Pe-
serpina. — 25. sotto la luna. Pe-
trarca, I, s. VII, io; II, e. VII, 99. —
26. profondo... cielo. Virgilio, Ed.
IV, 51: <( ... caelu7nq\w profun-
diim».— 3+. V. la n. ai vv. 31-33
della sest. III. — 35-38. V. in n. ai
vv. 23-24 della sest. II , il brano
86 RIMR
Ch' al viso glovenil , più per costume
D'amor che di ragion, son chiare & belle; 4
d' eloquentia dolce & aureo fiume ,
Consecrato a le nove alme sorelle,
Luna, de gioventù perpetuo lume,
Ch' offuschi i rai de le minori stelle ; 8
Ornamento del mondo, altero honore
Di pudicitia intatta, in cui si gloria
Vertù, natura, il cielo, e'I primo autore; n
Se nanzi il fin de la leggiadra historia
Del tuo valor, non mi consuma Amore ,
Sarà d'ambi duo noi sempre memoria. 14
SONETTO LXI.
Se'l vostro sdegno, & fiero & pertinace,
Non fusse a darmi morte tanto intento,
E '1 cor , eh' omai languendo in tutto è spento,
Donna, trovasse in voi pur qualche pace; 4
L'ingegno, che diventa, ardendo, audace,
Al bel nome farla tal monumento,
Che no' '1 ruinarebbe onda né vento,
Non foco, non invidia, tempo edace. 8
E '1 valor , di cui sol Napol si gloria ,
Rjisonarebbe allhor per ogni parte ,
di Virgilio, Georg, m , 391-393, | >'e5 ». Quest'ultimo brano in parte
anche qui tenuto presente, e spe- anche (Salv). — 11. (ST) auttorp ,
cialmente pei vv. 37-38 il 392:
« Pan deus Arcadiae captam te ,
Luna, fefellit ».
SoN. LX. — 5. Petrarca, I, ce,
4: « D'alta eloquenza sì soavi fiu-
mi ». Cfr. Omero (di Nestore) , //.
I, 249: Toù /.ut «770 y)M(jcr,(; ps-
)itTo; jìvAo'j pé£v aù(?J3. — 7-8. 0-
razio, Epod.w, 1-2: «... et caeio
fulgebat Luna sereno Inter mi-
nora sidera » ; Od. I, xir, 46-48:
« ... micat inter omnes lulium si-
dus, velut inter ignes Luna niino-
non corr. in ER.— 12.- 13. Petrar-
ca, II, Lxxi, 1 1 : « La lunga isto-
ria delle pene mie ».
Son. LXL — 4. Petrarca I. cxm,
8: « E sol di lei pensando ho
qualche pace ».— 6-8. Da Orazio,
Od. Ili, XXX, 1,3-5: « Exegi monu-
mentum aere perennius. .. Quod
non imber edax, non Aquilo inpo-
tens Possit diruere aut iunume-
rabilis Annorura series et fuga
temporum ». Il primo di questi vv.
anche (Salv).
RIME
Né morte gli torna la sua gloria.
Ma questa ilebil Musa in varie cliarte,
De l'orgoglio facendo hor sol memoria,
Tace de la btiltà la magior parte.
87
>+
SONETTO LXII.
refrigerio grande a tanti ardori,
S'io tanto havessi ingegno , quanto ho fede,
fusse, donna, in voi tanta mercede,
Quant'è beltà, magior de le raagiori;
Ch' io cantarci tai versi & sì sonori
De l'immense vertù, che '1 ciel vi diede.
Che quanto abbraccia il mar , quanto '1 sol vede
1 miei pregi udirebbe e i vostri houori.
Ma voi d'ogni pietà privata, & io
D' ingegno , ambi duo noi col fallo nostro
Duro freno liavem posto al bel desio.
Et hor non per mio ben, non per lo vostro
Io canto, che non son vostro né mio.
Ma perché '1 torto altrui col mal mio mostro.
»4
SONETTO LXIII.
Se fusse eguale il mio cantare in rima,
Donna, al vostro divino alto valore,
Io sarei tra poeto hoggi il magiore.
Come tra donne voi siete la prima.
Ambi duo siemo posti in su la cima,
Voi di beltà, di sdegno & aspro core,
Io di fede syncera & tale amore,
Che'l casto in voi, non mon che '1 bello, estima.
Son. LXII. — 7. Petrarca, I, e.
II. 57: « Quanto l Sol gira ». — 1 1.
l'etrarca, I, xxi, i : «... s'ancor vi-
ve il bel desio ». — 13. Petrarca,
I, e. I, 100: a Non son mio, no ».
Son. LXin. — 4. Donne. — 5.
siemo. Cosi (ST) ; forse derivato
dal sirnnio del vernac. napol. —
88 EIME
Ad ambi duo dispiace il mio desio;
A malgrado del vostro animo ingrato ,
Et contra il mio voler, vostro sou io. u
A voi sola mi diede il duro fato;
Ond'io posso affirmar, che non son mio,
Se non son vostro, a cui mi havete dato. 14
SONETTO LXIV.
Alto pensier , che 'n gentil cor s' annida ,
È del proprio valor tanto contento ,
Che nullo affanno mai gli dà spavento,
Et è più saldo , quando Amor lo sfida. ^
Quanto la Luna mia più si confida
Con gli sdegni abbassar l'alto ardimento,
Mi trova saldo , come a l' aspro vento ,
Atho, Apennin, Yesevo, Olympo & Ida. g
Luce celestì'al d' eterno honore.
Come j)uò il vostro petto esser capace ,
(Divino essendo lui,) d'humano errore? u
Ch'io cheggio da vostr' occhi honesta pace,
Et sol priego, che'l mio pudico ardore
Non vi dispiacia al men, si non vi piace. 14
SONETTO LXV.
Se'l mio candido amor ch'ai cielo aspira,
In gloria & honestà sempre constante,
De jjudicitia segue 1' auree piante ,
Perché '1 bel volto in me tanto s' adira ? j
13. V. il. son. precedente all'istes-
so vs.
Son. LXIV. — 3-4. Petrarca, I,
cxx, 14: « Che s'ella mi spaventa,
Amor m'attìda ». — 7-8. Cfr. Vir-
gilio, JEn. X, 693-696: « Ille velut
rupes , vastura quae prodit in ae-
quor, Obvia veutorum furila expo-
staque ponto, Vim cunctam atque
minas perfert caelique marisque,
Ipsa immota manet ». — 8. Cfr.
Petrarca, I, xcvni, 1-4. — 12. Pe-
trarca, I, xvii, 2: « Per aver co' be-
gli occhi vostri pace ».
Son. LXV. — i. Petrarca, II, e.
1, 69; «... '1 cielo, ove '1 tuo core
RIME 89
Se come un cor volgare il mio sospira,
Non è '1 mio foco di volgare amante ;
Sol tua beltade eterna & l'opre sante
L' animo , eh' è divino , ardendo admira. 8
Poi che tu , Luna mia, vedi & intendi,
Ch' io spregio ciò che '1 volgo amando apprezza ,
Perché d'ira crudel ver me t'incendi? n
Forse d'amor de mortai liuom t'offendi,
Che , (si superbia mai seguìo bellezza ,)
Tu sola, & con ragion, col ciel contendi. 14
SONETTO LXVI.
Per dio, madonna, un dubio mi solvete,
Nel qual penso & vaneggio, anzi mi doglio:
Parvi forse honestà tant' aspro orgoglio ,
Che li saluti anchor non mi l'endete? 4
Qual sorte mia vi tien, che non vedete.
Ch'altro che casto amor di voi non voglio?
Ma di begli occhi io più lagnar mi soglio,
Che giamai verso me non gli volgete. 8
Nel viso aperto, aperto il cor vi mostro.
Nel qual si vede eh' altro io non desio ,
Ch' un dolce aspetto sol del lume vostro. u
Ricco sarei del desiderio mio
Più che chi beve in gemma & dorme in ostro:
Tanto a ciascun gran cosa è'I suo desio! 14
SONETTO LXYII.
Di piangere & pregar già stanco & lìoco ,
Fuggir credendo Amor, giamai non cesso
aspira ». — 7. Petrarca, II , xix ,
14: « Membrando '1 tuo bel viso
e l'opre sante ». — io. Cfr. Ora-
zio, Od. Ili, 1, I : « Odi profanum
volgus et arceo »; Sannazaro , e.
XVII, 26-27: « Se di voi sol con-
tento Dispregio quel che più la
turba estima ».
SoN. LXVI.— 4. (ST) le saluti.—
12-13. Cfr. son. LV, 12-13 e n.
SoN. LXVII.— 1. Petrarca, I,
LUI, 4: « E del continuo lagrimar
90 RCME
D'andar corx'endo, & ritornare spesso
Da r habitato al solitario loco.
Ma, lasso!, il mio fuggir mi giova i^oco ,
Poi che fuggir non posso di me stesso.
Ovunque io vada, Amor mi veggio apresso,
Ch' accende il petto mio di magior foco.
Cosi non manca mai l' aspra ventura
D' ardermi dentro & fuor dal luogo , ov' io
Vivo in vita peggior che morte oscura.
Sì bella è la cagion de 1' arder mio ,
Si molle io che la seguo, & lei si dura,
Che speranza non vien d' un tal desio.
H
SONETTO LXVIII.
Candida fronte ornata in treccie bionde,
Anzi ai raggi del sol perle raccolte ,
Volto di rose in paradiso hor colte,
Che spirate altro odor che rosee fronde;
Eburnee man, bellezze alme & gioconde
Nel collo & latteo petto inseme accolte ,
Et voi, magior dolcezze, agli occhi occolte,
son stanco )>; Tr. I, i , io: « Ivi
fra r ei'be , già del piange)^ fio-
co v.—^^. Petrarca, I, e. xiii, 15-
16: « Ogni abitato loco, É nemi-
co mortai degli occhi miei ». —
5-7. Cfr. Orazio, Od. II, xvi, 18-24:
(( Quid terra alio calentes Sole mu-
tamus? Patriae quis exsul Se quo-
que fvgitì Scandit aeratas vitiosa
naves Cura nec turmas equitum
relinquit , Ocior cervis et agente
nimbos Ocior Euro »; Sat. II, vii,
1 1 3 : <( Frustra : nam comes atra
premit sequiturque fugacem » ; Pe-
trarca , I, XXII, i:-i4: « Ma pur
si aspre vie né si selvagge Cercar
non so, ch'Amor non venga sempre
Ragionando con meco, ed io con
lui ». — 6. Cfr. Orazio, Epist. I, xi,
27 : « Caeluni, non animum mutant,
qui trans mare curruut ».— 7. Pro-
perzio, III, xxviii, 1-2: «...tu licet
usque Ad Tanain fugias , usque
sequetur Amor ».
SoN. LXVIII. — 1-2. Petrarca,
XLiii , 6: « Per rimembranza del-
le trecce bionde » ; e. xi , 47-49 :
« Qual su le trecce bionde. Ch'o-
ro forbito e perle Eran quel di
a vederle»; e. xii, 77: «Le bionde
trecca sopra '1 collo sciolte ». —
3. Petrarca, I, clxxxvii, i : « Due
rose fresche e colte in Paradi-
so »; cfr. anche I, e. xii , 71-74-
Sannazaro, Are. p. 27: « Tyrena
mia , il cui colore aguaglia Le
matutine rose »; Properzio, II, m,
12. — 6. latteo petto. V. anche il
son. ce VII, 4; e cfr. Ovidio. Epist.
xvi, 249-230: « Pectora vel puris
nivibus, vel lacte... candidiora »;
Petrarca, l. e, 78 (del collo); « O"
RIME
9i
Ove'l gorgo Letheo la speme asconde;
Quando udirete un dì la vostra historia ,
Volgendo gli anni a la stagion perfetta,
Ch' offusca il sol de la fiorente etade ;
Forse direte anchor, non senza gloria:
— Luna al mio tempo io fui per gran beltade ! —
Et quel fin per me fia giusta vendetta.
>4
SONETTO LXIX.
Tu, Musephilo mio, giocondo amico,
Da che si mostra il sol, fin che s'asconde,
Al dolce murmurar de le sacre onde
Ti stai, ne l'Heliconio colle aprico.
Io, come soglio, hor lasso m'affatico
Con un vano desio, che mi confonde,
Di veder bianche quelle chiome bionde,
Vendetta & refrigerio al foco antico.
Tu ti pasci del tuo nobil ingegno.
Et l'amoroso ardor di me si pasce,
Et più cir io sono homai men verde legno.
Incrudelito Amor ver me si irasce,
v'o.sni latte p rJeria sua prova ». —
8. Forse: ' Di veder le quali non
ci è speranza '. Cfr. son. CLXII ,
lo-i I : '• La speme nel crudel gor-
go ili Lete Cade"; e son. LXXXVI,
12: " L'altre dolcezze ascose eran
(lesiri ". — 9-14. Anche il Petrar-
ca (I, IX ; II, xlvii-xli.k) dalla vec-
chiaia di Laura si riprometteva pa-
ce, se non vendetta. — io. Virgilio,
\JEn. 1 , 234] «... olim volventibìts
annis »; Petrarca, I, xxi, 4: « Vol-
gendo gli anni , già poste in ob-
biio ». — II. Petrarca, l,ix,3-4:
« Ch'io veggia, per virtù degli
ultimi anni , Donna , de' be' vo-
str' occhi il lume spento ». — 12.
Orazio, Od. Ili, xxvi, 2 : « Et mi-
litavi non sine gloria »: in parte
(Salv),— i3.Virgilio, [JS/t. iii, nj:
« Et campos ubi Troia fuit »
(Salv).
SoN. LXIX.— !. Musephilo. Di
Giovan Battista Musefilo, di Gub-
bio, cancelliere di don Federigo,
re (1496), lettore di poesia e di
hunianità nello Studio napolitano
(1508-1512), e ricordato dal nostro
anche nella Resp. contro li ma-
liv. , 220; più largamente nell'/n-
trod. — 2. Virgilio, Georg, i, 438:
« Sol quoque et exoriens et quum
se condet in undas»; Petrarca, l,
e. IV, 44: «... poi che 'l Sol s' a-
sconde ». — 7. Petrarca, I,ix, 5
« E i cape' d'oro fin farsi d'argen
to»; II, XLix, 14: « Cangiati i volt
e l'una e l'altra coma ». — 1 1. Pe
trarca , II , 1:1 , 11 : « Tanto più
quanto son men verde legno ».
9^ RIME
Et mi mostra il bel volto ognihor più degno,
Et in secco terren verde rinasce.
>4
CANZONE Vili.
Già se dissolve lioraai la bianca neve
Per gli alti monti, e 'n tepido liquore
Si cangia l'indurato & freddo gelo:
L'ape soavemente il dolce humore,
Lagrima di Narcisso, liba & beve;
Favonio aspira, & dal ceruleo celo
Eimove il negro velo.
Lasciando la spelunca esce di fuore
Con la gregge il pastore;
Né riposarsi più gli piace altrove,
Che sotto a l'almo Giove;
Amor per prati & per fiorite valli
Le Nymphe invita a gli amorosi balli.
E Orazio, f Od. IV, xiii , g-io ]:
« Transvoiat aridas Qiiercus ».
Quesfviltimo (Salv).
Canz. Vili. — Fu diretta al ca-
valier Cola d'Aiagno: v. la n. al
vs. 14, e cfr. i vv. 95-96 di questa
canz. — Traduce principalmente da
Orazio , Od. I , iv. — 1-3. Orazio,
l. e. , 1: « Solvitnr acris hieras »;
anche (Salv) e (M-C); ix, 5 : « Dis-
solve frigus»; e Virgilio, Georg.
1,43-44: «Vere novo gelidus ca-
nis cum montihus umor Liquitur
et zepliyro putris se glaeha resol-
vit ». Cfr. anche Orazio, Od. IV,
VII, I, 9: « Diftugere nives... Fri-
gora mitescunt Zephyris » ; xii ,
3-4: « lam nec prata rigent, nec
fluvii strepunt Hiberna nive turgi-
di ». I due nllinli brani (M-C). —
4-5. Virgilio, Georg, iv , 51-55
(delle api): «...ubi pulsam hie-
mem Sol aureus egit Sub terras
caelumque aestiva luce reclusit,
Illae continuo saltus silvnsque pe-
ragrant Pnrpureosque metunt flo-
res et flumina libant Summa le-
ves ». Cfr. anche JEn. 1,430 sgg.:
(I Qualis apes aestate nova per flo-
rea rura Exercet sub sole labor
etc. »; e vi, 707 sgg.: « Ac velut
in pratis ubi apes aestate serena
Floribus insidunt variis etc. »; e
questi da Omero, //. 11, 87 sgg. —
5. lagrima di Narcisso. Virgilio ,
l. e. ( fra gli alimenti delle api),
160: « Narcissi lacriniam ». —
6. Orazio, Od. I, iv, i : « ... graia
vice veris et Favoni »; anche
(M-C).— 8-9. Orazio, l. e, 3: « Ac
neque iam stabulis gaudet pecus
aut arator igni » ; anche (M-C). —
lo-ii. Orazio, Od. I, 1, 25-26:
« Manet sicb love frigido Vena-
tor »; in parte (Salv), che aggiun-
ge anche: " sub dio ". — 12-13. 0-
razio, Od. I, iv, 5-7: « Iam Cythe-
rea choros ducit Venus inminente
luna, lunctaeque Nyinphis Gratiae
decentes Alterno terram quatiunt
pede » (M-C); e Oc?. IV, vii, 5-6:
« Gratia cum Nymphis geminis-
que sororibus audet Ducere nuda
choros ».— 13. amorosi balli. Pe-
UIMK 93
Hor ti conven, felice & chiaro spirto.
Pascer di bei peusier la mente grave, 15
In questi giorni lieti & geniali;
Hor dèi sotto l'amena ombra soave,
D'hedera, o lauro, di Venerea mirto
Ornar le terapie nitide , immortali.
Vedi con passi eguali 20
Intrar quella crudel, pallida morte,
Per le superbe porte
D' alti palazzi, & per le case liumìli
Di genti basse & vili :
La frale & breve vita, che n'avanza, 25
Ne vieta incominciar lunga speranza.
Quanto sarebbe il desiderio vano
Et fallace la speme , quando alcuna
Mercede, o dolce sguardo, anz'il morire.
Io sperassi liaver mai da la mia Luna. 30
No' spero che'l suo cor meu inhumano,
Ch'iersera fu, demane io possa dire.
Questa in disdegni & ire,
In crudeltade & in bellezza augmenta ,
Et già non mi tormenta, 35
Che'l tormento in costume è transformato.
trarca , I, clxiv, 7: «Destami al
suoli degli amorosi balli».— 14. f.
& chiaro spirto. É Cola d'Alagno,
— cui il n. diresse auclie il son.
CXCIV, e dedicò la prima edizio-
ne delle sue rime (dove non era
ne questa canz. uè quel son.) col
prologo stampalo in Appendice ,
— figlio di Ugo, e questi fratello
della celebre Lucrezia. Fu signo-
re di Rocca Rainola, Torre An-
nunziala ecc. , e, nel 14S9, amba-
sciatore di Ferrante I a Venezia.
Di lui anche nell' Introduzione.
et in urnbrosls Fauno decet inmo-
lare lucis » ; anche (M-C). Cfr. poi
Orazio, Od. I, i, 29: « Me docta-
rum hederae praemia frontium»;
Virgilio, ^En. V, 71-72,246, 339:
«... et cingite teìnpora raniis. Sic
fatus velat anatema tempora myr-
to . . . viridique advelat tempora
lauro... Sic iiitus cingit viridanii
tempora lauro »; e Dante, Purg.
XXJ, 90: « Dove merlai le tempie
ornar di mirto ». — 20-26, Ora-
zio, Z. e. , 13-15: « Pallida mors
aequo pulsai pede pauperum ta-
17-19. Orazio, I, IV, 9-11: : bernas Regumque turres. O bea
« Nunc decet aut viridi nitidum te Sesti , Vitue siimma brevis
caput inpedire myrto Aut flore 1 speni nos vetat inchoare lon-
terrae quem ferunt solutae; Nuuc i gami): (Salv) e (M-C). — 2S. (ST)
94 RIME
Speranza no, ma fato
Poner mi fé' gli affanni e i pensier miei,
Et ogni mia dolcezza in amar lei.
Che se fusse d' amor libera l'alma,
Forse ch'io sperare! dal ciel tal dono,
Qual diede il sacro Apollo al Tliracio Orph^o ;
Ond'io dii-ei con grave, heroico suono
Gli alti Trophei, la gloriosa palma
Di quel cho'n terra è -più che semideo.
Forse di Chariteo
Vivrebbe il nome allhor non men preclaro ,
Che quel del Sannazaro.
Il quarto d'honor de l'Aragonio nome,
Ornando le mie chiome
Di lauro, io cantarci per tutto il mondo;
Et tu saresti il mio pensier secondo.
Ma già la notte eterna hornai ne preme,
Et le fabule & l'ombre, horrendi mostri
Del regno, ove non vive altro che inane.
Extender non si ponno i pensier nostri
Da r alba al sol, non che'n più larga s^aeme.
Et tutte nostre imprese al fin son vane.
Quel ch'esser dee demane
Fuggo cercar; che, benché non contento,
Pur con minor tormento
Mi vivo, & ogni mal, che '1 dì m' adduce,
Pensando a la mia luce.
40
45
50
55
60
fallace. — 42. V. la n. alla canz.
VII, 108 e n.— 43-44. Properzio, II,
1, 17-18, 25: «Quod mihi si tantum,
Maecenas, fata dedissent, Ut pos-
sem beroas ducere in arma ma-
nus ... Bellaque resque tui memo-
rarem Caesaris ». — 45. Ferrandi-
no. — 49. Il quarto dei sovrani a-
ragonesi che regnarono a Napoli :
Ferrante II. — 50-51. Cfr. Dante ,
Purg. xxu , 107-108 (dei poeti):
«... ed altri pitie Greci, che già di
lauro ornar la fronte ». — 51.
(ST) Lauro. — 52. Properzio, /. e,
25-26 :'<(... ef tu Caesare sub ma-
gno cura secunda fon^es ». — 53-
55. Orazio, l. e, 16-17: « lam te
jìreniet nox, fahulaeque Manes ,
Et domns exiiis Plutonia, quo...»;
(Salv) solo il fabul. Man. — 59-
60. Orazio, Od. I, ix, 13: «Quid
sit futurum cras, fiige quaerere »:
anche (Salv). — 62. Petrarca , I ,
e. IV, 12: « iVIa lasso, ogni dolor
RIME 95
Rivolgo in gioco ; che per darsi affiinno
Non augmenta il piacer, iiò manca il dauuo, 65
Che giova sparger lagrime inliuite ,
languire in sileutio?, o lamentarsi
D'un cor che per natura Amor disprezza?
Quanto meglior sarebbe affaticarsi
A non pensare al petto duro, immite, 70
Ma de mirar la lucida bellezza.
Tener la mente avezza
A contentarsi & non passar più avante.
Ai me , misero ! , quante
Fiate fu cagion del dolor mio jr
Il trojjpo alto desio!:
Ch'avendo lui prescripto & mortai fine,
Non debbe mai tentar cose divine.
Anz'il fallir si dèe 1' huom ritenere,
Che folle è quel che tardo si ripente, so
Et saggio chi peccò sol una volta.
Poi de r error s' impara facilmente,
Che per sé dio ritien l' antevedere,
Dove non giunge nostra mente stolta ,
Nel vii fango sepolta. 8-
Atteon , se '1 suo mal prima vedea ,
La vergine alma Dea
Non facea divenir si fera & cruda,
Quando la vide igniuda;
Che de servo fidel si fé' nemico :
Tanto r ardir offende un cor pudico !
Ma tu converti il jjianto ,
Canzone, in riso, & in dolcezza il tosco;
Et d'uno in altro bosco
90
che 'l di m'adduce ì).— 62-64.. C{r. 1 Cfr. Orazio, Orf. Il.xi, 11-12: «.
Orazio, l. e. , 13-15: «...etQiiem | quid aeternis minorem Censi liis a-
fors dierum cuiuqiie dabit lucro
Adpone ». — 64. Petrarca , II ,
XLvn , 7-8: «... e rivolgeva in
gioco Mie pene acerbe ». — 74-78.
niniiuu fatigds? ». — 86-90. Cfr. O-
vidiù, J/e<. Ili, 143-239. — 93-95. Pe-
trarca , III, XI, 99-100, io2:«...
canzon., vedrai Un cavalier ». —
9^ mìiiK
Ricerca iiìi cavalier, di laurea degno g^
Per arme & per ingegno;
Et digli che Dittinna homai si duole,
Che rimangan per lei le Muse sole. gg
SONETTO LXX.
Alma, qual fia meglior: verso occidente
Correr , o ber del Nil le fertil onde ?
de terra cercar le più j^rofonde
Parti , per non sentir dolor si ardente ? 4
Che parli?, o qual furor gira la mente,
Dove poi tu fuggire, o chi t'asconde?
Ch' amor teco non venga & ti circonde ,
Et ti dimostre il bel viso presente ? g
Dunque, misera, stanca, in tanti affanni
A fuggir di pregion non sarai presta
Con forza, o con ingegno, o con inganni? n
Cerca ove dorme il sole, ove si desta,
Da r Indi primi a 1' ultimi Britanni,
Ch'amor ti vedrai sempre in su la testa! 14
SONETTO LXXI.
sole in terra, in ciel candida Luna,
Regina & duce del sidereo choro,
Fronte ornata di rai de nitido oro,
Che dio di propria man fé' sola & una; 4
Celeste corpo , in cui non può fortuna ,
De pura castità caro thesoro ,
97.DiUinna, 'Diana', dalla città di
questo iiome,e s;icra a lei, nell'isola
di Cretii. Cfr. Ovidio, Met. 11, 341.
SoN, LXX.— 5-8. Properzio, III,
w?o.sque Britannos »; xxix, 4: «...
et ulcima Britannia »; Orazio, Od.
I,xxxv, 29-30: «...in vltimos Orbis
Britannos ». — 14. Properzio, l. r..
xxvin, 1-2: « Quo fugis a demens? I 7-S: « Instat semper Amor snpra
nullast fuga: tu licet nsque Ad Ta- caput, instat amanti. Et gravis ipse
nain fugias,usque sequeturAmor». super libera colla sedet»: (Salv)
— 13. Catullo, XI, 2, 1 1-12. « Sive in | solo il supra capiti.
ecctremos penetrabit Indos... ulti- \ Son. LXXI.— 6. (ST) tbesoro. —
RIME 97
Rara vertù eli' io celebrando adoro,
Ch'altro non dee sperar anima alcuna; g
Io per me vo'che prima il j^adre eterno
Col fulgure a le negre ombre m' invie ,
Horribili ombre del profondo inferno; n
Ch'altro dal vostro nome io mai desia,
Che farlo più sublime & sempiterno :
Quest'è '1 fin de l'imprese & glorie mie. 14
SONETTO LXXII.
Baia, di lacciuol venerei piena.
Monumento de l'alte, antique cose;
fortunato lito, piaggia amena,
jDrati , adorni di purpuree rose ;
monti, valli apriche, selve ombrose.
Onde fluenti da sulfurea vena.
Dolci acque , chiare , tepide , amorose ,
Non vi soven di mia continua pena?
Eimembrevi ch'or volge il septimo anno,
Che, seguend'io de la mia Luna il sole,
Con voi mi lamentava del mio danno.
Ricordanvi le voci, le parole,
Le lagrime, i sospiri e '1 vario affanno:
Di quel medesmo mal l' alma si duole.
>4
9-12. "Virgilio, [ ^n. IV, 24-26]:
« Sed [tnihi... opteìn prius]... pa-
ter omnipotens abigat me fulmi-
ne ad mnbras, Pallentis umhras
Èrebo noctemque yrofundain »
(Salv). — li. Dante, Inf. m, 42:
« Né lo profondo inferno gli ri-
ceve ». — Cfr. son. LVIf, 14.
SoN. LXXII.— I. Baia. Celebre
per i suoi bagni; luoghi di ritro-
vo e di corruzione presso gli an-
tichi ( Properzio, I, si, 27-30, Ovi-
dio , Ars amat. i, 253-258 ecc.) e
i moderni (Boccaccio , ss. iv, xv,
xxxiii-iv, Lxix; Sannazaro, Are.
p. 235; Fontano, Baiar.., di cui una
del lib. ì: Ad Chariteum): v. i miei
Bagni di Pozzuoli, p. 7 sgg. n. —
lacciuol. Dante, Inf. xxii , 109;
Petrarca,!, XLV, 3, s. iv, io; II, 111,
6: e. VII, 51 ecc.; Sannazaro, e. iv,
14 ecc. — 3. Orazio, Epist. I, i, 83 :
(( Nuli US in orbe sinus Bais prae-
lucet amoenis ».— 6. Ovidio, l. e,
236: «Et quae de calido sulpure,
fumat , aquara ». — 7. Properzio,
IV, XVII, 2: « Fumida Baiarum
stagna tepentis aquae ». — Petrar-
ca, I, CXI, 1 : « Chiare, fresche e
dolci aeque ». — 9. Petrarca , I ,
XL , 9 : <( Or volge , Signor mio ,
r undecim'a/iHO ».— io. La Luna,
'3
98
KIME
SONETTO LXXÌII.
labil tempo, o mia perduta etade,
fiamma, o passion dolce & nociva,
voglia per mio mal più ardente & viva,
fato acerbo & nudo de pietade ;
fronte alta, o splendor, non di beltade
Di donna, ma de vera, eterna diva,
Sarà ch'io jjossa mai questa captiva
Anima vendicar in libertade?
Sarà dal duro nodo & greve salma
Libero il core, & la mia vita sciolta,
Havrò giamai di me triompho o jjalma?
desiderio vano, o mente stolta!
Chi può sperar di scioglier più quell'alma,
Che fu di tal beltà presa una volta?
«4
SONETTO LXXIV.
Languendo io nanzi al vostro almo splendore ,
Che mi fa diventar hor ghiaccio, hor foco,
Io me sentea mancar a poco a poco
La virtù , che mantene in vita il core.
Et credo al variar del mio colore.
Che non sapea firmarsi in alcun loco ,
Vedeste che'l mio mal non era gioco,
E sfavillar ne cfli occhi il vivo ardore.
come si rileva dalla canz. XII, 39-
44, solea bagnarsi nei Bagnino-
lo (Baliieolum), ora 'Bagnoli ': v. i
miei Bagni, p. 51. — sole, 'io
splendore '.
SoN. LXXIII. — 6. (ST) Don-
na. — 8. vendicar in libertade,
latin. ( in liberUtem vindicare ) ,
' liberare '. — 9. gr. salma. Pe-
trarca , II, X, 13.— g-io. dal
d, nodo ... sciolta. Petrarca, I,
CXCVIII, IO, II, XXXVII, I, LXXXI,
12 , III , IV, 4.
SoN. LXXIV. — 3. a poco a po-
co. Petrarca, II, xlvii, 6, Tr. VI,
76. — 4. Petrarca, 1 , b. v, 4: «...
teneste in vita il core ». — 5-8. 0-
razio, Od. I, xiii, 5-8: « Tura nec
mens mihi nec color Certa sede
manet, umor et in genas Furlim
labitur, arguens Quam lentis pe-
iiitus macerer ignibus».
RIME 90
Io non so quel che dentro haveste occolto,
Che non vidi giamai che si movesse,
si cangiasse il sol del vostro volto. u
Ma gloria mi saria pur ch'io credesse,
Che tardar non voleste a sparir molto
Per tema, che pietà non vi vencesse ! 14
SONETTO LXXV.
Quale spirto celeste in un momento
Appare inseme & fugge, e 'n la partita
Lascia l'alma tremante e sbigottita.
Tal mi lasciasti, al me! , pien di spavento. 4
Sapess' io che pietà del mio tormento
Ti fé' mostrar fuggendo impallidita,
Ch' io sperare! talhor più lieta vita ,
Benché non rimanesse il cor contento. 8
Però che più mi crebbe il gran desire.
Fuggendo la tua chiara, alma figura,
Et seppi qual dolor fusse'l morire. n
Perché fuggesti , ond' eri più secura?
So ben che tema non ti fé' partire :
Ché'n le cose del ciel non è paura. 14
SONETTO LXXYI.
SI come ratto il ciel tuona & lampeggia ,
Quando di stelle più la notte è priva ,
Che tanto offusca la vertù visiva
A lo sparir , che adven che più non veggia ; 4
Cosi quello splendor, che'l sol pareggia,
Nascondendo la luce fugitiva.
Parte di sensi iu me non è più viva,
SoN. LXXV.— 4. p. di spaven- vita. Petrarca, li, xxxiii, io. —
to. Petrarca, I, e. xi, 54: «Al- j 9. gr. desire. Petrarca , II, xlii,
lor jp/en di spavento ».— 7. lieta | 13. — 14- (ST) chen.
lOO RIME
Anzi con gli occhi anchor l'alma vaneggia. s
Che serrando & aprendo in quel momento
Il mio sidereo ciel l'aspra fortuna,
Io mi ritrovo in tenebre & tormento. , i
Tal, che vertute allhor, se non quell'una
Che serve a sospirare, in me non sento:
Teco son tutte r altre, alma mia Luna! 14
SONETTO LXXVII.
Vedendo in l'alme luci alma dolcezza,
Pervenne a gli occhi miei questa amorosa
Anima, che, al celeste lume avezza,
Non sa mirare horaai terrena cosa. 4
Et, perché essendo ne la carne ascosa,
Non potea contemplar divina altezza.
Uscio di fore ardente & desiosa
Di goder piìi 1' eterna , alta bellezza. 8
Cosi, senza ella allhor remanend'io.
Né vivo era, né morto, & pur sentea;
Che senz'alma era vivo il bel desio. u
Deh, perché si nascose la mia Dea
Dietro una nube, adversa al dolzor mio?
Che l'alma al primo ciel si rimanea. 14
SONETTO LXXVIII.
Un animai si pasce in Oriente ,
Che, poi che gli è purgato in alcun fiume.
Adora de la luna il novo lume,
Et lei gli porge i rai benegnamente. 4
Son. LXXVI. — io. il m. side- 1 mano? Ch'ai suon de' detti sì pie-
reo ciel, ' il volto della Luna '. tosi e casti Poco mancò eh" io non
SoN. LXXVII.— 3. (ST) eh.
n. Petrarca , I, xxi, i: «Apollo,
s'ancor vive il bel desio ». — 12-14.
Come il Petrarca, li, xxxiv, 12-14:
« Deh perchè tacque ed allargò la
ritnasi in rìelo 1).
SoN. LXXVIII.— i.(ST)oriew-
te. — Cfr. Petrarca, I, e. xiv. 16-
17 : « Nell'estremo occidente Una
fera è soave e queta ». — 1-4. Da
RIME
Endimion, sognando, hebbe presente
Quel prima irato , inexorabil nume ,
Ch'oltra il severo & rigido costume,
Lo prese Pan con arti fraudulente.
Molti hanno il guidardon de' loro affanni,
Et altri, supplicando, accendon d'ira:
Tanto lo stelle e '1 fato in amor ponno !
Et in tal segno il ciel per me si gira.
Che per prieghi, humiltade, o per inganni.
Vigilia non havrò felice o sonno.
SONETTO LXXIX.
Qual huom languendo giace in febre ardente ,
Ch'essendogli negato il freddo huniore,
Bever si sogna un fiume, & più l'ardore
Gli cresce in mezzo al liquido torrente: 4
Tal vo sempr'io con gli occhi & con la mente ,
Donna, cercando voi, mio primo amore ,
Et poi, presente al vostro almo splendore,
Mirando , a più mirar son più fervente. 8
Che satia mai non è l'anima, errante,
Incerta in qual dolzor si pasca pria,
Plinio Nat. Hist. ( dell' elef\inte ),
vili, I : « Auctores sunt , in Mau-
retaniae saltibus ad quendara am-
nem, cui nomen est Amilo, nite-
scente luna nova , greges eorum
descendere: ibique se purificantis
sollemniter aqua circumspergi, at-
que ita salutato sidere in silvas
reverti »; cfr. anche Solino xxxvin,
p. 184; e Sannazaro, Are. p. 191
e n.: «Dime, qual fera è si di
mente humana Che s' inginocchia
al ragio dela luna. Et per purgarsi
scende in la fontana ». — 5-6. V.
sest. Ili, 31-33 e ". — Sannazaro, s.
Lii, 9-11: «Felice Endimion, che
la sua Diva , Sognando , si gran
tempo in braccio tenne; E più, se
al destar poi non gli fu schiva ». —
7-8. V. sest. II, 24. e n. — 13. (ST)
hicmilitade, non corr. in ER.
SoN. LXXIX. — 1-3. Da Lucre-
zio, IV, 1089-1093: « Ve blbere in
somnis sitiens quom quaerit et ?(-
wzorNon datur,ardorem qui mem-
bris stinguere possit, Sed laticum
simulacra petit frustraque laborat
In medioqyxe sitit torreìitl flumi-
ne potans, Sic in amore Venus si-
mulacris ludit amantis ». — 8-1 1.
Lucrezio, l. n., 1094- 1096: « Nec
satiare queunt speccando corpora
corani. Nec manibus quicquam te-
neris abradere membris Possunt
errantes inc.e7'tl corpore toto », —
102 EIME
Nel bel petto , o'n le luci honeste & sante. u
L'una beltà da l'altra la desvia,
Tra tai perfettioni inseme & tante ,
Che mirando più brama & piìi desia! 14
SONETTO LXXX.
L'alma per libertà non s'affatica,
Et servitute homai non gli dispiace,
Poi che la Luna mia, rivolta in pace,
Par che non sia d' amor tanto nemica. 4
Hor si fa nova più la fiamma antica,
Et più fervido Amore & più vivace
M'abbraccia il cor, qual hedera tenace
L' arbor per ogni parte errando implica. 8
Revivo ognihor che riede a la memoria
Quando la rosea bocca, al dolce giro
D'un lieto dì, per me pregava i fati. n
Deh, perch'io non risposi: — Alma mia gloria,
Tu sola pòi ritrarmi di martire ,
Et fare i giorni miei lieti & beati? — 14
SONETTO LXXXI.
Dal lampeggiar del bel sembiante altero ,
Da r honesto fulgor del dolce aspetto
Mi vien nel core un sì soave affetto ,
Che'l greve mio dolor mi par leggiero. 4
L'alma, la mente mia, gli occhi e '1 pensiero,
Donna, son in preglon nel vostro petto.
il. luci... sante. Petrarca, I, lxxii,
3; II, Lxin, 14.
Son. LXXX. — 5. Virgilio, JEn.
IV, 23 : « ... veteris... f,animae n ; e
Dante, Piirg. xxx, 49: «... antica
fiamma ».— 6. Petrarca, Tr. l, iii,
37: « Vivace amor, che negli af-
fanni cresce )). — 6-8. Da Catullo,
Lxi, 33-35 : « Mentem amore revin-
ciens, ÌJt tenace hedera huc et Ime
Arborem inplicat errans » : cfr.
anche Orazio, Epod. xv, 5; Od.
I, xxxvi , 21; e Dante , Inf. xxv,
58-59. — IO. giro, ' volgere '.
BIME
103
Et è si ^aro a lor l'alto ricetto,
Che possér liberarli io più no' spero.
Vostro valor, cagion di duri affanni,
M'empie gli occhi, il pensier, la mente & l'alma
Non solo di martìr, ma di dolcezza.
Ch'anchor per gloria mia, volgendo gli anni ,
Alcun dirà: — Costui portò la salma
Del magior mal per la magior bellezza ! —
14
SONETTO LXXXII.
Quando da' più begli occhi agli occhi intenti
Vien con soavità raro dolzore ,
Sento stillando liquefarsi il core,
Pien di contrarli & novi movimenti. 4
Ch'esser non pouno i spirti miei contenti,
Poi che'l piacer non vien senza dolore,
Che, dove suol la speme esser magiore.
Li sproni del desio son più pungenti, 8
Nò ponno il cor negli occhi sostinere
L'ardor, né lo splendor di quella vista,
Che la speranza adegua al gran volere. ^i
Poi che'l vano sperar via più m'attrista,
Deh, chiudi gli occhi, Amor, non far ch'io spere.
Che noce il ben, che con dolor s'acquista. 14
SONETTO LXXXIII.
Intermisse lusinghe, in quel bel volto,
Onde '1 mio amor, anzi furore uscio,
Son. LXXXI. — io. (ST) em-
pion. — II. CtV. pel concetto il Pe-
trarca, I, CLiii, I sgg. : « Dolci ire,
dolci sdegni e dolci paci ecc. ». —
i2.volg. gli anni. CtV. sou.LX Vili,
IO e n. — 13-14. Petrarca, l. e,
9-11 : a Forse ancor tia chi sospi-
rando dica, Tinto di dolce invidia:
assai sostenne Per bellissimo a-
mor questi al suo tempo ».
Son. LXXXII.— 4.(ST) novimen-
ti, non corr. in ER.— 13. Della Casa
[e. II, 45] : (.< Fa tu, Signore, almea
eh' io non lo spere ». (Salv).
104
Pex- che giungeti foco al foco mio?
Deh , perdonate al cor , eh' è già sepolto !
Quand' io per voi da libertà fui tolto
Con la speranza eguale al bel desio,
Vencer fu qualche cosa; hor , che son'io
Preso, ligate alcun che viva sciolto!
Ma voi perseverate, aspre parole,
Né creda alcun ch'io mai per voi mi stempre,
Che seguir voglio, ardendo, la mia morte.
Te, dolce Luna mia, venendo il sole,
Te, partendosi il di, canterò sempre.
Non sol per mio voler, ma per mia sorte.
14
SONETTO LXXXIV.
Hor ben puoi tu satiar la fiera voglia,
Augel rapace & famolento Amore ;
Poi che del tuo dannoso, eterno ardore
Scampar non posso, & son vivace in doglia.
Riporta homai di me l'ultime spoglia,
Constringe un duro, illacrimabil core.
Di crudeltà fecundo & di furore,
Che '1 viver, che m'avanza, anchor mi toglia.
Chi pon freno a la mente che vaneggia,
Et, col pensier correndo & col desio,
Non sa che Amor colei non signoreggia?
Son. LXXXIII.-5-7. Cfr. Ovidio,
Amor. II, IX, 6: a Gloria pugnan-
tes vincere maior erat ». — 8. Cfr.
Ovidio, ^. e, 15-16: « Tot sine a-
more viri, tot sunl sine amore
puellae: Hinc tibi cum magna lau-
de triumphus eat ». Cfr. il brano
di Properzio , in n. al son. Vili ,
3-14. — 12-14. Da Virgilio, Georg.
IV , 464-466 : « Ipse cava solans
aegrum testudine amorem Te, dui-
cis coniunx , te solo in litore se-
cum , Te veniente die , te dece-
dente canebat ».
Son. LXXXIV.— 2. famolento.
" Sp. harabriento " (Salv) : cfr. an-
clie la n. alla canz. Il, 33. — 5. Spo-
glia. " Lfat.| : spolia " (Salv). — 6.
illacrimabil. Orazio [Od. II , xiv,
6-7]: ii ... inlacrimabilem Pluto-
na » (Salv); e Od. IV, ix, 26: «...
sed omnes inlacrimabiles y>. — 11.
signoreggia. Cfr. Petrarca, I ,
Lxxvn, 12.
RIME
105
Né vedo il ciel contrario al voler mio,
Ch'allhor mi darà vita, quando veggia,
Ch'io, vinto dal dolor, morir desio?
«4
CANZONE IX.
Se tu, Galeazzo mio, jìer te contempli
Li costumi di questa nostra etate
Col naturai saver, che '1 ciel ti diede.
Vedrai non sol per molti & varii exempli,
Ma per ragione & mille opre passate.
Ch'oggi solo il mal dire acquista fede.
Dal quale ampia mercede
Havrai, non per lodar l'alma vertute
Et meriti di quei, che, morti & vivi ,
Già son tra gli altri Divi
Annumerati in cielo , onde son mute
Le lingue al ben , al mal cotanto argute.
Se tu ponesti l'alma & sacra insegna
Sovra '1 muro hydrontin, quando '1 gran Duca
Agl'infedeli die' l'aspra battaglia,
Questa gran gagliardia, di premio degna,
Benché a triorapho & gloria ti conduca ,
«5
Canz. JX. — I. Tit. : "A Galeazzo
Caracciolo " (Salv) ; cfr. anche vs.
32(1455). Figlio diXicolantonioedi
Maria Caracciolo, fu uomo d'arme
della guardia di Alfonso, duca di
Calabria,e cortigiano di Ferrante I.
Da questo re fu creato capitan ge-
nerale della flotta napolitana, di ot-
tanta legni, mandata, nel 1480, con-
tro i Turchi rinchiusi in Otranto. V.
A. de Ferrariis (il Galateo), Succes-
si della arm. tiirch.. p.156. — 1 1-12.
mute Le lingue. Petrarca, TV. I,
III, 144: <( Ove tutte le lingx'.e sarian
'tnute »; II, e. 11, 97: « Tutte le lin-
gue mute ». — 12. argute, latin..
'ingegnose'.— 13-14. Albino, De
bel. hydrunt, 11, p. 59: «... supra
quos [ le mura di Otranto] Ga-
leatius Caracciolus iuvenis acerri-
mus militare signum aftìsit, ut pri-
mi in oppidum ingressi eximiae
virtutis gloriam consequerentur ,
ac immortalia de se monumenta
relinquerent, & caeteri ad tam cla-
rumfacinus incenderentur )).Quel-
Vinsegna gli era stata consegnata
da Ferrante I nella chiesa di San
Lorenzo, e benedetta dal vescovo
d'Ischia ( Cfr. De Ferrariis , Op. cit.,
p. 156). — 14. gran Duca. Alfonso,
duca di Calabria: v.n. alla canz. VI,
14
1 o6 KIME
No' sperar che'n silentio in ciel ti saglia;
Che, quantunque ti vaglia
Che '1 magnanimo Alfonso in alta sorte 20
T'extoglia, non fia già tua fama viva;
Che , se non v' è chi scriva
Grli atti del tuo coraggio , invitto & forte ,
Sarai sepolto in l' una & 1' altra morte.
Ma rhuomo hoggi per dir de gli alti heroi 25
Le lode & de le candide heroine ,
Nome di folle & biasmo al fin gli avanza.
Questo volgo, che vive hor qui tra noi,
Meschia le cose humane & le divine;
Non perdonando al ciel per lunga usanza. 30
Quell'ardente speranza
D'honor, Caracciol mio, più non m'incende:
Perché deb' io cantar d'anima alcuna?
Se per lodar la Luna ,
Che'l primo ciel governa e'n terra splende, 35
Biasmato sono, & so ben chi mi intende.
Alcuni animi, d'atra invidia pieni.
Vóti d' ogni amorosa cortesia ,
Indegni d'haver nome in li miei versi,
Con gli occhi, oltre mortai sorte, terreni 40
Non possendo mirar la Luna mia ,
Con la lingua si sono in lei conversi.
Questi son si sommersi
Nel fango , che lor mente , al ciel ribella ,
256 sgg.— 18. ti, ma (ST) si. — 20.
In qualche documento Galeazzo è
detto creato dì Alfonso. V. Mi-
nieri Riccio. Biog7\ p. 316. — 22-
24. Cfr. Orazio, Od. IV, viii, 28:
ft Dignum laude virum Musa ve-
tat mori d; l. e, 22-24: « Quid
foret Iliae Mavortisque puer, si ta-
citurnitas Obstaret meritis invida
Romuli?»; e Od. IV, tx , 25-30:
<( Vixere fortes... Multi; sed omnes
inlacrimabiles Urguentur ignoti-
que longa Nocte, careni quia vate
sacro. Paullum .'.epultae distat i-
nertiae Celata virtus ». — 29. Ora-
zio, Epist. I, XVI, 54: «... miscebis
sacra profanis ». — 32. (ST) in-
eende. — 33. (ST) cantare. — 36.
" Biasimato per li suoi versi amo-
rosi " (Salv). — 40. Petrarca, I, e.
VI, 5: « Oc(;/iz sopra '1 mortai corso
sereni «.—43-44. Petrarca, Tr. Ili,
45
RIME 107
Veder non sa celeste pudicitia.
Hor taccia di nequitia,
Taccia il volgo ignorante : io dico quella
Luna, chiara, immortale, lionesta & bella.
Eompa r invidia i venenosi fianchi :
Io dico quella Luna, & canto sempre, 50
A cui la castitade è consecrata ,
Né creder che d'amarla io mai mi stanchi,
che pavento l'alma, si distempre,
Ch' a celebrarla è più sempre infiammata.
gente dedicata 55
In vita e'n morte al volto di Medusa;
Che giova armare i negri, acuti denti
Ne l'anime immerenti?
Guardate ch'io non armi in voi la Musa,
Anchor del Lycambeo sangue perfusa. 60
Forse dispiace a questi animi rei,
— Ch' àn de livore il cor si forte amico.
Che d'altrui mal, quasi suo ben, si gode, —
Che di Ferrandi, i miei Aragonei dei.
Degli alti Alfonsi & del gran Federico, 65
Cantando, io scriva le preclare lode?
Lor mal dir nulla prode ,
Che, cominciando da l'antiquo padre,
Canterò fin a gli ultimi nepoti
L' alta stirpe di Goti : 70
Vedransi ne le mie rime leggiadre
Armate in pugna l' Aragonie squadre.
Ma tu, di veri amici il primo lionore
li, 36: « C hanno posto nel fango
ogni lor cura )).— 47. Petrarca, Tr,
II, 157: ft Taccia 'l volgo igno-
rante: i' dico Dido ». — 49. Vir-
gilio, [ Ed. VII, 26]: «... [invidia]
rumpantur ut ilia Codro » (Salv).
— 35'5^- "Degna di esser pietri-
ficata dal volto di Medusa". — 57.
Cfr. Orazio, Od. IV, ni, ló: « Et
dente minus mordeor invido ». —
58. "L[at.]: in immerentes animas"
(Salv). — 59-60. Da Ovidio , Ibis ,
33-54: aPostniodo, si perges. in
te milii liber iambus TincCa Ly-
cambeo sanguine tela dabit ». —
61. (ST) questi. — 67. prode ,
"L[at.]: prodest " (Salv). — 68-70.
Accenna alle sue canz. VI e VII. —
lo8
RIME
Et dei nostri optimati insigne gloria,
Deh, fugge questi spirti pravi & mali. 75
Intendimi; ch'io non cornetta errore
De dir lor nomi , che di tai memoria
Far non si dèe, per non farli immortali;
Non vo' eh' uomini tali ,
Da cui conven che ciascun buon s'asconda, 80
Qual fanciullin da fabulosi mostri,
Macchien li versi nostri ;
Ma che perpetua notte, atra, profonda,
Et morte & vita & lor nome confonda.
Et tu, canzone, estolle 85
Nel ciel costui, che col petto tranquillo
Conservò quel santissimo vexillo.
SONETTO LXXXV.
A la mia voce humll , molle & soave
Non si conven cantar l'alto valore
Del Principe, del qual cosa magiore.
Onde si glorie , Italia hoggi non liave.
Il chiaro ingegno tuo, superbo & grave.
Marchese, è degno sol di tanto honore;
Io non posso parlar si non d' Amore;
Che se '1 fo , quel crudel par che s' aggrave.
A dir de la mia Luna , Amor m' invita
Ognihor con arti nove & novi ingegni ,
Né magior gloria voglio in questa vita.
74. (ST) vostri, corr. anche dal
(Salv).— 78. (ST) 7tol.— 8i. fabu-
losi mostri, •'Orchi " (Salv).— 83.
perpetua notte. Catullo, v, 6:
« Nojo est 2>erpeU(a una dor-
mienda ».
SoN. LXXXV. — 3. Principe.
Ferrandino, principe di Capua. —
(ST) dal qual. — 6. Marchese. E
Alfonso d' Avalos , primogenito
d' Inico e di Antonella d' Aqui-
no , marchese di Pescara , conte
di Loreto e di Satriano, gran ca-
merlengo del Regno. A lui fu di-
retto dal n. il prologo, che, nella
prima ediz. deW Endim. , prece-
deva la caiiz. VII, perché la pre-
sentasse a Ferrandino ; ed anclie a
lui molti dei componimenti che se-
guono. Di lui poi neH'Jnfrod.— 8.
aggrave, ''ildest]: 'entri in colle-
ra ' dallo sp. agraviarse " (Salv).
RIME
loq
Pur vidi te spregiar d' Amor gli sdegni ,
Et per un dolce sguardo lior di Mellita
Mille città daresti & mille reorni.
'4
SONETTO LXXXVI.
Ne la fenestra , ov' io morendo adoro
L'alte bellezze, al primo ciel gradite,
Io vidi Amore armato, aspro & immite
Con l'arme, da le quali io cado & moro.
Gli occhi e i capei di puro & nitido oro
Erau dardi, ond'hebb'io mille ferite,
Et le candide gnancie & colorite
Le faci, ov'io m'infiammo & discoloro.
Il bel petto & le mane eran veleno,
Che'l cor m'empie di doglia & di sospiri,
Talché lo spirto stanco ognihor vien meno;
L' altre dolcezze ascose eran desiri.
Hor qual meraviglia è, s'io son sì pieno
Di piaghe avelenate & di martiri ?
H
SONETTO LXXXVII.
per me sol disventurato & rio ,
Per te felice , & glorioso manto ,
Et tu, candida man, con l'impio guanto
Avidamente intenti al morir mio.
Deh, perché ra'ascondeti il lume, ond'io
Presi la fiamma, li sospiri e'I pianto?
Date remedio a la trist'alraa alquanto,
Non sia per voi più fervido il desio.
— 13. Mellita, " dama del Mar-
chese " (Salv): dal^a^•J,^ lat. tnel-
lita, ' soave '. Forse Diana di Gar-
dena, figlia di D. Artale, conte di
Colisano , che nel 14S8 sposò il
marchese di Pescara.
Son. LXXXVI. — I. fenestra.
'' Primo ciel, della Luna " (Salv).
Cfr. anche Petrarca, l, lvii, i. —
12. Cfr. son. Lxviii, 7-8. — 13. Cfr.
Petrarca, I , Lxi , 8 : « Qical ma-
raviglia se...».
1 IO
RIME
Tu sei bella, immortai, siderea vesta,
Fatta da man divine in Paradiso ,
Et già quel proprio odor d'ambrosia aspiri;
Ma, quando copri il petto e'I roseo viso,
Ti muti in nube oscura & in terai^esta,
In pioggia & tuon di lagrime & sos^^iri.
14
SONETTO LXXXVIII.
Io ti lodava & hor ti maladico ,
Mantello ingrato in Acberonte infuso,
Tal cb'ad Amor, pien di dolor, mi scuso,
S'io per te lascio il mio costume antico.
Che tu m' ascondi il volto & quel pudico
Et chiaro petto, ove'l mio core è chiuso.
Dolce habito , mutato in crudel uso ,
D' amore , anzi più mio duro nemico.
Panno, contexto sol per mio dispetto ,
Togli da la mia Luna il negro velo ,
Et da r liumero cade liomai demisso;
Non impedire i rai del chiaro cielo,
Mostrami il giovenil , nitido jjetto,
Non far eh' io viva sempre in cieco abisso.
14
SONETTO LXXXIX.
Haver non può quest'alma in morte oblio,
Del danno, che mi dai, crudel mantello,
Ascondendomi il volto honesto & bello,
SoN. LXXXVII. — IO. Cfr. Pe-
trarca, II, Lxxvi, 8: « Dalla per-
sona fatta in paradiso ». — n.
Virgilio, --E«. I, 403-404: « Ani-
brosiaeque coniae divinum verti-
ce odoreni Spiravere. », — 12. "Col
manto si coprian le donne napole-
tane il petto e '1 viso " (Salv).
SoN. LXXXVIII. — 2. CiV. Pe-
trarca ( degli specchi che facean
superba Laura), I, xxxi , 12-13:
« Questi far fabbricati sopra l'a-
cque D' abisso, e tinti nelT eterno
obbiio )). — 1 1. cade, ' cadi '. —
demisso, latin., ' basso '.
SoN. LXXXIX. — Tit.: "Donne
KIME
Onde '1 principio de mia morte uscio.
D'aspra vendetta ognilior cresce il desio,
Sempre l' oltraggio tuo m' è più novello ,
Invido panno, & de pietà ribello;
Deh, che ne le mie mane hor t'havess'io!
Che tante ingiurie e stratii io ti farei
Per mille modi & vie, con più dispregio,
Che tu non fai a li tristi occhi miei.
Pensa, che chi ti fece al mondo egregio,
Alzandoti nel solio de li dei,
Ti può privare anchor di tanto pregio.
14
SONETTO XC.
sacro legno, eterno, invitto muro.
Centra le fraudulente, inferne imprese.
Ove '1 rettoi" del ciel la morte prese,
Perché '1 legnaggio human fusse secare ;
Cosi al mie cor i^erdona atre & oscuro ;
Sommerse ne le pene, in foco accese,
Come lui jjerdonò l'inique offese.
In questo santo giorno, al popol duro.
sangue, honor de le cose divine.
Che redemisti la perduta gente;
Horrendi chiodi, & voi, pungenti spine;
Per quel dolor che deste a l'immerente.
Drizzate ad opre sante & miglior fine
Questa culpabil , greve & cieca mente.
»4
napoletane si coprivano la faccia
col mantello " (Salv). — 4. Petrar-
ca. I. XXXI, 14: « Onde 'l princi-
pio di mia morte nacque ».
SoN. XC. — Tit. : " Alla Croce "
(Salv). — Cfr. Petrarca, I, xl, di
cui ripete le rime arcete, itnpre-
se; ed il s. lxxvii del Sannaza-
ro, di cui conserva anche le rime
imprese^ offese, accese. — 1. legno:
anche nel Sannazaro , ss. lxxviii
e Lxxix. — 12-14. Sannazaro, s.
LXXVII, 78: « Per quel non finto
amor che in noi t'accese. Drizza
a buon corso il disviato core ». —
12. immerente. latin. 'innocente*;
cfr. canz. IX, 58 e n.
EIME
SONETTO XCI.
Marchese, ad cui natura diede ingegno
Diverso dal maligno volgo, insano,
Che posso io dir che fai, tanto lontano
Dal comune Signor, dolce & benegno?
Che fa quel eh' oggi è sol d' imperio degno,
A gli altri altero, ad suoi soggetti huraano?
Quel che , pace tenendo & guerra in mano ,
Tranquillo & secur serba il patrio regno.
Bramo anchor di saper: se l'Aquevivo,
Di toga ornato & d' arme, ha pur pensiero
D'adrairar hor Marone & hor Homero?
D'Altilio non dimando o de Syncero,
Che r uno & 1' altro è salvo , eterno & vivo ,
Come io son per amor de vita privo.
14
Son. XCI. — Scritto probabil-
mente quando Alfonso , duca di
Calabria , era nei Ferrarese o in
Lombardia (cfr. il tanto lontano
del vs. 3), capitan generale della
Lega contro Venezia (1482-84). —
I. Marchese. Alfonso d'Avalos. —
1-2. Da Orazio, Od. II.xvi, 37-
40: «... mihi... Spiritual Graiae te-
nnem Camenae Parca non men-
dax dedit et malignum Spernere
volgus ». — 4. Ferrandino , detto
anche nel prologo alla canz. VII,
diretto al D'Avalos: "il nostro
commune Signor anzi terreno dio".
— 5. Il duca di Calabria : cfr.
canz. VI, 242 e n. — 6. Dante, Par.
xn, 57 : « Benigno ai suoi, ed ai ne-
mici crudo )) ; Petrarca , III , xvi ,
55-56: «... e poi con le sue mani
Pietose a' buoni et a' nemici in-
vitte )). — 7-8 Leostello (di Alfon-
so) , p. 254: a Tiniebat et colebat
illum Ytalia... Nominabatur utro-
bique Dominatio sua Illustrissima:
Sahis Ytalie^i. — 9. Aquevivo. An-
drea Matteo d'Acquaviva d'Arago-
na, nato (1458) da Giulio Antonio e
da Caterina Orsino del Balzo, com-
batté in Toscana (1478); contro,
i Turchi ad Otranto (1481), e poi
contro i Veneziani « nel 1482...
nell'armata della lega, comandata
dall'irrequieto duca di Calabria »
(D'Afflitto, Mem. degli scrltt. i,
p. 42 ). Egli fu anche dei ponta-
niani, e scrittore di varia erudizio-
ne: V. su di lui pure Vlntrod. Ora,
poiché egli nel 1485 si trovava
già nella congiura dei baroni, que-
sto son. dovett' esser scritto ne-
cessariamente prima, e probabil-
mente, come abbiam supposto noi,
nel 1482.— II. L'Altilio segui an-
ch'egli Alfonso in quella spedi-
zione ( V. M. Tafuri , Op. cit. , p.
XXXIV ) ; ma che vi fosse andato
anche il Sannazaro non si rileva,
ch'io sappia, d'altra fonte: cfr.
anche il son. XCIIL
RIME
113
SONETTO XGII.
Alfonso, de la patria et padre & Dio,
Del regno avito inexpugnabil muro ,
Deh, ritorna, ti jìriego , & sia maturo
Il tuo venir, com'è '1 nostro desio!
dolce lionor, dolce presidio mio ,
Bendine il lume tuo sereno & puro :
Che lo splendor del sol ne pare oscuro
Senza '1 tuo volto human, benegno & pio.
Per te la greggia mena in ogni prato
Senza sospetto il timido pastore,
Per te , novo Pompeio , è '1 mar pacato.
Tu sei quel Scipion, per chi il furore
Di barbari fu vinto & disarmato ;
Et per te vivo è morto ogni temere.
14
SONETTO xeni.
Syncero, 1' huom de vita integro & sano
SoN. XCII. — Ad Alfonso, duca
di Calabria; forse per la sua as-
senza da Napoli, quando era capi-
tan generale della Lega contro i
Veneziani (1482-84) : al suo ritorno
fu accolto con un vero trionfo: che
era slato « dui anni fora in r.a-
stHs » (Leostello, p. 45). — Tutto
imitato da Orazio, Od. IV, v. — 3-
4. Orazio, /. e, 2-4: «... abes iam
nimium diu; Matiirum redituni
pollicitus patrum Sancto concilio
redi )). — 5. Orazio , Od. I , i, 2 :
(( et praesidium et dulce decus
meiim ». — 6-^. Orazio, Od. IV, v,
5-8: « Lucerti redde tuae, dux bo-
ne, patriae: Instar veris enim vol-
tus ubi tìi.Ks Adfulsit populo, gra-
tior it dies Et soles raelius ni-
tent ». — 7. (ST) So/. — 9-11. 0-
razio, l. e, 17 e 19: « Tutus bos
etenim rura perambulat... Paca-
tuììi volitant per tnare navitae ». —
1 1, Pompeo Magno, che scacciò da '
tutto il Mediterraneo i pirati. Cfr.
Floro, Epitom. l,'!iLi: «...eodemque
tempore et usura maris navibus re-
cuperavit, et terrae homines suos
reddidit », — 12. Leostello (di Al-
fonso , risanato da malattia ), p.
257: «Ogni homo de sua casa et
da fora rendeva grafia a dio di-
cendo: si patiebatur iste, patieba-
tur tota Ytalia. Et ita erat quia
vulgo vocabatur Scipio et sub-
stentaculura totius Ytalie )).— Sci-
pion. Il vincitore di Zama : Pub.
Corn. Scipione Affricano maggio-
re. — 13. Allude all'assedio ed alla
presa di Otranto, fatta da Alfonso
nel 14S1. — 14. Cfr. Orazio, /. e,
25-27: « Quis Parthnm paveat ,
quis gelidum Scythen , Quis Ger-
mania quos horrida parturit Fetus
incolumi Caesare ? ».
SoN. xeni.— Imita Orazio, Od.
I, xxn. — I Syncero Nome acca-
demico del Sannazaro (son. XXi, i
>5
I 1 4 RIME
Di mente va secur seuz' alcun dardo:
Cosi di selva in selva inerme & tardo
Vo, mentre tu di me sei sì lontano!
Le fere hor qui nel bosclio Antiniano ,
Mentre che la mia Luna io canto & ardo ,
Fuggon dinanzi al mio pensoso sguardo,
D'arme non già, ma da conspetto humano.
Poumi dove giamai pianta ninna
Da vento estivo recrear si suole,
Et l'aere nebuloso i fiori uccide;
Ponmi sotto '1 più vivo ardor del sole ,
Segnerò sempre amando quella Luna,
Che dolcemente parla & dolce ride.
14
SONETTO XCIV.
De la mia Luna il volto hor lieto, hor grave,
E la cagion ch'io ardisco, temo e spero,
Ch'allhor divento di speranza altero, "
Quando lei move quel riso soave. 4
e M.)< '1 cji'ale si trovava molto lon-
tano da Napoli (cfr. vs. 4) col duca
di Calabria , contro i Veneziani
(1482) , come si è detto in n. al
son. XCI ,11. — 1-4. Da Orazio ,
/. e, 1-8: « Integer vitae scele-
risque purus Non eget Mauri ia-
culis neque arcu Nec venenatis
gravida sagittis, Fusce, pharetra,
Sive per Syrtes iter aestuosas, Sive
facturus per inhospitalem Cauca-
sum vel quae loca fabulosus Lam-
bii Hydaspes » : in parte (Cj. — 2-
4. Petrarca, I, cxxiv, 1-3: a Per
mezz'i boschi inospiti e selvaggi,
Onde vanno a sran rischio uomi-
ni ed arme, Vo secur io »: cfr.
anche Properzio, IV, xv, 11-14. —
4. lontano: cfr. son. XCI, 3. —
5-8. Da Orazio, l. e, 9-12: « Nam-
que me silva lupus in Sabina, Dum
meam canto Lalagen et ultra ter-
minum curis vagor expeditis, Fu-
gii inermem »: anche (C); e cfr.
Petrarca, l. e. , 5-6: « E vo can-
tando (o penser miei non saggi!)
Lei che '1 Ciel non poria lontana
fanne ». — 5. bosco Antiniano ,
r ' Accademia napolitana ': cfr. la
n. alla canz. VI, io e n. — 9-14. Da
Orazio, l. e, 17-24: « Pone me
pigris ubi nulla campis Arbor ae-
stiva recreatiir aura, Quod latus
mundi nebulae malusque luppiter
urguet;Poije sub curru nimium
propinqui Solls in terra domibus
negata : Dulce t^denteni Lalagen
amabo , Dulce loquenCem »: an-
che (C) ; Petrarca, I, xcv, 1-4:
(( Ponmi ove "1 Sol occide i fiori
e l'erba, dove vince lui '1 ghiac-
cio e la neve ; Ponmi ov'è '1 carro
suo temprato e leve, Ed ov'è chi
cel rende o chi cel serba; ecc. ». —
14. Petrarca, /. e. .cviii, 14: « E
come dolce jjar-^a e dolce ride ».
Son. XCIV.— 3. Petrarca, I, x,
14: « Si eh' i' vo già della s^e-
RIME 115
Ma, lasso!, magior tema il cor uou bave,
Che quando mi dimostra il ciglio austero,
Nou de minor beltà , ma più severo ,
Tal che la voce trema & 1' alma pavé. 8
Et giudicar non può lamenta incerta,
Qual sia certa ragion di tal mutanza.
Se crudeltà non si dimostra aperta. n
Ma s'io conosco poi per lunga usanza
L'aspra ira, per mio mal più volte esperta,
Eitorno in dietro , fuor d' ogni speranza. 14
SONETTO XCV.
Quando , da presso , il bel guardo sereno
Prendo ardir de mirar, tremante, exangue,
Tra dolcezza & timor morendo langue
Lo spirto , che nel foco ognihor vien meno, 4
Parlar vorrei di quanto il petto ho pieno,
Ma veggio Amor crudel , converso in angue ,
Darmi tal morso al cor , che '1 caldo sangue
Fa transformare in frigido veneno. 8
Onde l'alma riman sì sbigottita,
Che non sa dar ragione in quel momento
Di doglia di piacer , di morte o vita. 1 1
Tal ne le membra novitate io sento,
Che non m' avedo poi de la partita
Di cui mi lassa senza sentimento. 14
SONETTO XCYI.
Quando vedrete quella intatta fede,
Con la qual castamente il elei vagheggio ,
ranza altiero ». - 8. pavé. Cfr. | Son. XCV-u- Cfr. Dante, Inf-
Petrarca, I, cu, 28.-9-ÌO. Cfr. | n, , ,35 : « La Qual mi v.nse c.a-
son.X,9-tó. i scun sentimento».
ii6
RIME
Non moversi giamai dal formo seggio ,
Che nel mio saldo petto Amor gli diede ;
Forse clie '1 vostro cor, ch'oggi non crede
Ch'ardendo io per voi sola, altra non cheggio,
Si penterà d' bavere eletto il peggio,
In privai-mi di vita & di mercede.
Non udite exclamar con chiaro grido
Ne gli occhi miei la fé, che vien dal core,
Ov'è '1 suo naturale & proprio nido?
S'altro ne crede altrui, vive in errore;
Che sol di Chariteo , constante & fido ,
Voi siete il primo & 1' ultimo furore.
'4
SONETTO XCVII.
Già meritai con più giusta cagione.
Donna, sperar di voi qualche mercede.
Ma per mia sorte il ciel tal cor vi diede.
Che desperar mi fé' contra ragione.
S' io fussi tra delfìn novo Arì'one,
Et Orpheo ne le selve, & la mia fede
Cantassi & la beltà, che 'n voi si vede ,
Di voi no' sperarci mai guidardone.
Dunque , se vive Amor sol d' un pensiero
Di speme, & senza quel si suol morire.
Amar come poss'io, poi che no' spero ?
Io mi lascio ingannar per non sentire
La morte, &, se ragion mi mostra il vero,
Muor la speranza & pur vive il desire.
14
SoN. XCVI.— 6. Petrarca, I, III,
59: « Altro giammai fion chieg-
gio »; e. XIII, 26: (( Che se Terror
dui-asse, altro non cheggio ». —
12. Petrarca, I, xvii, 3-6: «E se
di lui foss'allra donna spera. Vi-
ve in speranza debile e fallace », —
ia-14. Properzio, I, xii, 19-20: « Mi
neque amare aliam neque ab hac
tiesislere fas est: Cyntliia ^''''wia
fuit, Cynlhia finis erit ».
SoN. XCVII. — 5. (ST) del fi-».
— 5-6.Virgilio, iic^. vili, 56: « Or-
plieiis iti silvis, Inter delphinas
Arion ».
RIME
117
SONETTO XCVIIl.
de r Afhiio del vivo splendore ,
Nudrita tra le uove , alme sorelle,
Anzi decima gloria, aggiunta a quelle
Per ingegno, bellezza & casto liouore ;
Narrando tu le lagrime e'I liquore,
Che piovea da le mie fatali stelle ,
Essendo piìi che mai serene & belle,
Ne r alma m' aggiungesti un novo horroro.
Che, come i ciechi & miseri mortali
Per minacele del ciel vedon venire
Morte, arme, piaghe, affanni & varii mali;
Cosi col mio furor sepp" io predire ,
Ma no' schiifar 1' amare , impie , mortali
Repulse, sdegni, asprezze, orgogli & ire.
14
SONETTO XCIX.
Non sol che sei vittor d'invitte genti,
Et con gli auspicii tuoi prostrate & morte
Di Turchi far l'horribili cohorte
SoN. XCVIIl.— Ad una coltissi-
ma donna, che atterisce il p., nar-
rando i torraenli amorosi di hii.
Confrontando questo son. con un
brano somigliantissimo della Pa-
scila, VI, 109 sarg. , si vede che
questa donna è Costanza d' Ava-
Ics, di cui parliamo in n. al son.
ex, e più distesamente neWln-
trod. — 6. fatali stelle. Cfr. Pe-
trarca, I. xni, II. — 13. schiifar.
Cfr. son. XXXVII, 7 e u.
Son. XCIX. — A Ferrante I, co-
me risulta da ciò che dice ap-
presso ( vv. 5-S ) ; e non " Al Re
di Napoli Ferdinando II d'Arago-
na ", come postilla il (Salv).— Lo
credo scritto dopo il 1487, quando
il Fontano, per la pace conchiusa
da lui tra l'errante I ed Innocen-
zo Vili, e per altri suoi meriti, fu
creato da! re segretario di stato,
in luogo di Antonello de Petruciis
(cfr. vv. 12-13). — '■ vittor. Anche
nel Petrarca, Tr. V, 104: « E se-
coli , r'Utor d' ogni cerebro ». —
3-3. La resa dei Turchi rinchiusi
in Otranto (1480-81), cui qui si al-
luile, si dovette tutta al senno po-
litico di Ferrante I ed al valor mi-
litare del duca di Calaliria, come
appare dai docum. pubblicali dal
Foucard {Ardi. nap.,\i, 609 ecc.).
ii8
RIME
Dal duca , pien di proprie forze ardenti ;
che tre cavalier forti & j^ossenti,
Tra Sidicino & le Calvine porte,
Tu sol vencisti, o Ee gagliardo & forte,
In cui non ponno inganni o tradimenti,
Poi gloriarti; o che '1 secondo herede
Supera ogni vertute antiqua & nova,
Ma eh' un Fontano anchora il ciel ti diede
Quel ministro fidel , eh' oggi non trova
Pare d' integritade , ingegno & fede ,
In cui le Muse han fatto ogni lor prova,
SONETTO C.
Mostresi chiaro il di più che non suole,
Et d' ogni nebbia scarco il ciel profondo,
Ch'oggi natura die' tal luce al mondo,
Che splende in terra, qual nel cielo il sole.
Dicamo hor caste, pie , sante parole,
— 5-8. Accenna ad un episodio della
{guerra tra Ferrante I e Giovanni
d'Aragona, durante la prima con-
giura dei ìjaroni. Marin() Miirzano,
principe di R,ossano . chiesto un
abboccamento al re, tentò, insieme
a Deifobo deirAnguillai'a ed a Ja-
cobuccio Montagano (cfr. vs.. 5) di
ucciderlo. Questo fatto, che don Fe-
derico fece poi ritrarre su alcune
pareti del palazzo di Poggio Rea-
le (Colangelo, Vit del Sannaz.
p. 77, n. i), fu esaltato in prosa
ed in verso da tutti gii scrittori
della corte aragonese: e, oltre che
da Ferrante I istesso in una let-
tera a Pio II (Reg. Ferclin. et a-
lior. Epist., p. 322), dal Pontano,
De bel. neap. i. p. 21, e dal Sanna-
zaro , Eleg. Ili, 111, 27-28, e s.
LXIX; e da Gianiano Mmjo nel De
Majestate com'esempio della «For-
titudine»; e qui finalmente dal n. —
5. Sannazaro, eleg. cit., 27-28: « Ac
primuni triplici sese defendat ab
boste Fernandus rapido iam rae-
tuendus equo )) ; son. cit., 3-4:
« Vedi colui che sol sì fero in
vista Da tre nemici armati or si
difende ».— 6. Pontano, l. e, p. 21 :
« Sidicinum in agram, prope... Cal-
vium castris ». — 14.. ' L' estremo
del loro potere' : cfr Petrarca, III,
xxii, 8 : « In cui lussuria fa V xxiiì-
msi. prova ».
SoN. G— Tit.: "Nel giorno
della nascita del Pontano: a di 7
di maggio [1426] " (Salv): v. an-
che M" Tafuri, Op. cit., pp. xxi-
xsit. — 1-2. Cfr. Properzio (pel na-
tale di Cintia). IV, ix, 5: « Tran-
seat hic si ne nube dies, stent aere
venti ». — 3-4. Cf. Orazio, Od. IV,
XI, 17-20: « Iure sollemnis mihi
sanctiorque Paene natali proprio,
quod ex hac Z-ncr? Maecenas niens
adfluentes Ordiiiat annos ». — 5 6.
Tibullo, II, II, 1: a Dicamus bona
RIME 119
Ecco '1 dolce uatal , fiiusto & giocoudo
Del gran Pontano, a nuli' altro secondo
In le virtù, ch'Apollo honore & cole. 8
Maio, salvo sii tu , sereno, adorno
Di rose & fior, ch'ai lume di Poeti
Apresti gli anni al tuo septimo giorno. u
Volgi & rinova i tuoi tempi quieti,
Et sia sempre meglior il tuo ritorno,
Et più felice, & pien d" augurii lieti. 14
SONETTO CI.
de divino honor & gloria degna ,
Alma, più che d'human terreno stato,
Non una volta eletta al principato.
Ma sempre che ragion consiglia & regna; 4
Chiaro exempio , col qual il ciel ne insegna ,
Che per sé l' huomo è contra '1 vitio armato ,
Principe, di vertù celeste ornato.
Del valor d' Aragona insigne insegna ; 8
Meutr'io continuava il canto humile,
Seguendo il tuo voler prudente & saggio,
Cantando te, volea far me più chiaro; n
Ma conoscendo Ajiollo il gran coraggio :
— Riede, — mi disse, — a l'amoroso stile,
Che questo incarco io diedi al Sannazaro, — 14
fìcrba - veiiit natalìs - ad aras »: I 11-13. Virgilio, Ed. vt, 3-3 : « Cum
anche (Salv). — io. al lume di ! canerera reges et proeiia, Cyn-
poeti. Dante, Inf. i, 82: « degli j thius aurem Vellit et admonuit:
•a\Ivì poeti onovQ e lume». — 12- I ' pastorem, Tityre, pinguis Pascere
14. Cfr. Tibullo, I, VII, 63-64: « At i oportet ovis, deductiun dicere car-
ta, natalis niultos celebrande per 1 men '»: in parte anche (Salv). —
annos, Candidior semper candi- j 13. Petrarca, II, s., i3:«Ov'ècon-
diorque veni ». | dotto il mio amoroso stilel ». —
SoN. CI.— Forse a don Federigo, 1 14. Com'è noto, il Sannazaro, so-
principe di Altamura (cfr. n. al vs. vra tutti i principi aragonesi, pre-
14). "Al re di Napoli " (Salv). — | dilesse e cantò don Federigo ( v.
8. Cfr. Petrarca, I, ex, 6 : « sola l Eleg. Ili, i, Epigr. I, i, ecc.) e la,
insegna al gemino valore ». — 1 caiiz. X, 79 sgg. del n.
I20
EIME
SONETTO CU.
Cantan di chiari autor le sacre charte ,
Che li giganti stolidi una volta
Con temeraria voglia, audace e stolta,
Tentar salir ne la superna parte.
Onde, non col favor del ferreo Marte,
Ma con la man di Giove, armata & sciolta,
Gli fu la vita con l'audacia tolta,
E '1 sangue & membra lor per terra sparte.
Dal seme de li quai produtta in terra
La simia fu , che i superi beffeggia ,
Imitando i paterni impii costumi.
Non è dunque miracol , che si veggia
Un bruto animaletto anchor far guerra
Col fero volto a li celesti lumi.
• 4
SONETTO CHI.
Non poco amor, non è poco desire,
Donna, cagion eh' a veder voi son tardo,
SoN. CU. — Forse allusivo alla
seconda congiura de' baroni (cfr.
vv. lo-ii) contro Ferrante I e il
duca di Calabria (cfr. vs. 14). —
Tit.: "Sopra la scimmia" (Salv). —
i-ii. Pare da Ovidio, Met. i, 152-
162: « Affectasse feruut regnum
cadeste Gigantas, Altaque conge-
stos struxisse ad siderii montes.
Tum pater omnipotens misso per-
fregit Olympum Fulmine et ex-
cussit subiecto Pelion Ossae. 0-
bruta mole sua cum corpora dira
iacerent Perfusam multo natorum
sanguine Terrani Inmaduisse fe-
runt calidumque animasse cruo-
rem, Et, ne nulla suae stirpis mo-
nimenta manerent, In laciem ver-
tisse hominum. Sed et illa propago
Contemptrix superum saevaeque
avidissima caedis Et violenta fuit:
scires e sanguine natos ».— i. (ST)
aiUtor. — 3-4. Orazio, Od. I, iii,
23, 38 : (( Audax omnia perpeti...
Caelum ipsum petimus stultitia ».
— 5-8. Dante, Piiì-g. xii , 31-33:
(( Vedea Timbréo , vedea l'allade
e Marte, Armati ancora , intorno
al padre loro , Mirar le membra
de'Giganti sparte ».— 9-1 1. " Scim-
mia prodotta dal sangue de' gi-
ganti " (Salv). — 10. simia. (ST)
Simia. — E un latin., e per essa
par che intenda ' i baroni'. — 13.
bruto a., cioè 'animaletto bruto ';
ma potrebb'essere anche errore di
stampa per brutto.
RIME 121
Ma sol temor del venenoso dardo ,
Che'l cor m'empie di foco & di martire. 4
Ma, perché magior tema ho di morire
Del desiderio, ov'io languisco & ardo.
Vengo per defraudar di qualche sguardo
Vostr' occhi, onde '1 mio cor sempre sospire, g
Che , se i rai del bel viso oltra misura
Ardono inseme & gran fulgor mi danno,
Mi parto, ardente il cor, la vista oscura. n
Ingannar credo altrui, me stesso inganno,
Ch' io mi ritrovo poi qual huom che fura ,
E'I furto gli è cagiou del proprio danno. 14,
SONETTO CIV.
Come '1 sole, a chi '1 mira intento & fiso,
Col soverchio fulgor sé stesso asconde,
Cosi con le sue luci alte &■ profonde
M'asconde la mia Luna il suo bel viso. 4,
Soglion fluir nel suo fiorente riso
Dal fonte de le Gratie lucide onde,
Ove spargon tal sol le chiome bionde,
Che per luce di luce io son diviso ; g
Che quei tremuli rai di bei crin d' oro ,
Che vanno errando intorno al volto chiaro ,
Offuscan la vertù del viso mio. u
Prodigo extremo Amore, extremo avaro.
Et mostra & cela troppo il gran thesoro,
Sol manifesto agli occhi del desio. 14,
Son. chi. — 7. " V[idelicetJ : ra-
pire uno sguardo" (Salv). — 12.
Petrarca, Tr. 1, ni, 166: « So mille
volte il di inganì\ar me stesso ».
Son. CIV.— 1-2. Petrarca, II,
Lxvu, 13-14: (t E per aver uom
gli occhi nel Sol fissi , Tanto si
vede men, quanto più splende»; I,
xxxiii, 1 1 : « E '1 Sol abbaglia chi
ben fiso il guarda » ; cfr. anche I,
xiu, 8: « Mentr' io sono a mirarvi
intento e fiso ».— 6. (ST) gratie. —
9. crin d' oro. Petrarca, II, xxni,
3.— II. del viso mio, "della mia
vista" (Salv): latin.
122 RIME
SONETTO CV.
Voi, Donna, & io per segni manifesti
Andremo inseme a l'infernal tormento,
Voi jjer orgoglio, io per troppo ardimento,
Che vagheggiare osai cose celesti ; ^
Ma, perché gli occhi miei vi son molesti,
Voi pili martiri havrete, io più contento,
Ch'altra che veder voi gloria non sento,
Tal, eh' un sol lieto fia tra tanti mesti. §
Ch' essendo voi presente a gli occhi miei ,
Vedrò nel mezzo inferno un Paradiso ,
Che 'n pregio non minor che '1 cielo havrei. 1 1
Et, si dal vostro sol non son diviso,
Non potran darmi pena i spirti rei :
Chi mi vuol tormentar, mi chiuda il viso! 14
SONETTO evi.
Sì come salamandra in fiamme ardenti ,
Ove si more altrui, vive in diletto,
Così tu , donna , alberghi intro '1 mio petto ,
Et de l'incendio mio parte non senti; 4
Anzi di quel ti pasci & ti contenti,
Et del mio mal ti vien soave affetto ;
Deh, mostra agli occhi miei benegno aspetto,
Soccorre il cor coi chiari occhi, ridenti. 8
Vedi che crudeltà, più volte ex2Jerta ,
Son. CV.— Fu imitato dai Di Co-
stanzo, s. Lxxxii; e poi dal Marini,
dal De Lemene, da! Manfredi (v.
D'Ancona, Z)e^ seceìit.fp. 186-1SS
e Vlntrod.); ed inserito tra le rime
tanto mesti ». — 14. viso, ' vista *;
cfr. n. al son. prec. ,11.
Son. evi. — 1-2. Petrarca, I, e.
XVI, 40-41 : «... e vwo in fiamme ...
mirabil salamandral »; e il Gui-
di A. Brocardo (Venezia, 1538) con I nicelli ( app. Naimucci , Man. i,
qualche variante! — 6. contento, | p. 57): u... salamandra... nello
' contentezza '. — 8. Cfr. Dante, foco a)-dente Vive ». — i. (ST)
Lif. I, 134: « E color che tu fai co- 1 Salamandt-a. — 3. (ST) dona. —
RIME
Non può frenar la voglia, onde s'accende
La fiamma, ch'arde chiusa più che aperta.
Sol d'un bel guardo il cor remedio attende:
Non soflPrir tu che 'n cener si converta !
No' '1 cor mio, no, la tua magion difende.
SONETTO CVII.
troppo fera & impia castitade,
Estremo & non vertù ! : sotto colore
Di larvato , mentito & vano honore ,
Havere in odio un cor, pien d' honestade.
Volete pur ch'io viva in libertade,
Et lasci i bei pensieri & fugga amore?
Lasciate voi degli occhi il bel fulgore ,
Il parlar dolce, il riso & la beltade.
Vien da vostra durezza o dal mio fato ,
Che soffrir non posseti un'alma humile,
Cora' io suffro un superbo animo, ingrato?
Può caper tanto orgoglio in cor gentile ?
Ma come è fermo un odioso stato ,
Fuor di natura , in petto feraenile ?
SONETTO CVIII.
D' amore & d' odio in qual guisa si mova
14
«4
li. Petrarca , [ I , e. xvi , 66 J :
« Chiusa fiamma è più ardente »
(Salv).— 14. Cfr. Petrarca, I, e.
1 , 1 00 : ft Non son mio , no ... »
ecc. ecc.
Son. CVII. — Forse tenuto pre-
sente da A. Caro nello scrivere il
suo s. vili: « Iniqua legge empio
costurae& fero ere.».— 2. Estremo,
sost. ' eccesso '.— 12. Cfr. Petrarca,
II, xxxiv, 9: (( Mio ben non cape in
intelletto umano »; e I, cxxx, 1 1. —
13-14. ' Il cuor delle donne suol
facilmente mutarsi, ma quello del-
la sua Luna si serba sempre co-
stante nella durezza contro di
lui'. — Petrarca, I, cxxxi, 12-14:
« Femmina è cosa mobil per na-
tura; Ond'io so ben ch'ìcn amo-
roso stato In cor di donna picciol
tempo dura /i; Virgilio [JEn. iv,
569-570): (( Varium et mutabile
semper Femina » ; quest' ultimo
(Salv). Cfr. Tibullo, III, iv, 63:
«. Sed flecti potei'it: mens est mu-
tabilis illis ».
Son. CVIII.— 1-4. Da Catullo,
Lxxxv, 1-2 : « Odi et amo. Quare
1 24 RIME
Il vario affetto in me , no' '1 saprei dire ,
Ma so, che amare inseme & abhorrire
Mi danno pena inusitata & nova. 4
Onde di darvi biasmo ho fatto prova ,
Madonna, & vi confesso il mio fallire:
Non vi potrei biasmar senza mentire ,
Ch' envidia stessa in voi colpa non trova. 8
Non vi son traditor, il ver vi mostro,
Io m' affanno in passar 1' onde d' oblio ,
Et armar centra voi l' amaro inchiostro. 1 1
Ma dal principio al fin l' ingegno mio
Altro scriver non sa che '1 valor vostro,
Né mi posso pentir del bel desio. 14
SONETTO CIX.
Quando l'Aurora il dì chiaro n' adduce ,
Volgendo io gli occhi al lucido oriente
Per contemplare Apollo, almo, splendente,
Che di Pianete & di Poete è duce; 4
Vidimi da man manca uscir la luce
De la mia Luna, anzi mio sole ardente.
Che sfavillava quel foco possente ,
Ch'a morte & vita inseme mi conduce. • 8
— Vaghi lumi del cielo , a cui soggiace
Quanto qui cresce & quanto si consuma,
id faciam , fortasse requiris. Ne-
scio, sed fieri sentio et excrucior » :
anche (Salv).— i. (ST) Amore. —
IO. l'onde d'oblio, "di Lete"
(Salv).
Son-. CIX.— Da un " Epigr[ain-
Quiim subito a laeva Roscius exo-
ritur. Pace mihi lic.eat , caele-
stes, dicere vestra, Mortalis visus
pulcrior esse deo ». Il n. ed il Ca-
ro ebber ci=rto presente l'epigr. la-
tino , ma il secondo fors' anche il
son. del n. (cfr. il suo vs. 13: « Santi
mal di Quinto Catulo: vedi Annibal lumi del Ciel , con vostra pace »,
Caro nel pfrim]o sonetto " (Salv). che, traducendo non altro che il
L'epigr. di Quinto Lutazio Catulo caelestes, pare composto con una
è riferito da Cicerone , De nat. \ porzione del vs. 9 e con un altra
deor. I, xxvni: « Constiteram exo- del 12 del presente son.).— i. (SI)
rientem ^z«ro)Y{»), forte salutans , 1 ìa Aurora.
RIME 125
(Cosi volse quel vostro alto motore,) n
Siami licito dir con vostra pace:
Che questo viso humano è di magiore
Vertù; che i cor di magior fiamma alluma! — 14
SONETTO ex.
Imaglu di celesti, ampi thesori.
Duchessa , iu cui soavi , alte parole
Il ciel la sua harmonia mostrar ne suole ;
Nel volto i suoi supremi, empirei honori; 4
Negli occhi tuoi tri'omphan vaghi Amori ,
Di cui son l'arme i rai del tuo bel sole ;
E '1 triomphato libertà non vuole;
Vinto, crede esser lui tra vincitori. 8
Constanza, col tuo vivo, alto intelletto
Volando & penetrando il paradiso.
Infiammi i Dei d' un amoroso affetto. 1 1
Col novo, in terra inusitato viso
Impari un novo , honesto amor , perfetto :
Amor da vii pensier tutto diviso. 14
SONETTO CXI.
Constantla ferma, al fermo polo eguale,
Nel secol nostro indicio & vero segno.
Son. ex.— Diretto a Costanza ] Son. CXI.-Tit.: "Alla medesi-
(cfr. vs. 9) d'Avalos. figlia di lui- | ma " (Salv).— i. Constantia: e la
co e di Antonella d'Aquino, ma- Costanza d'Avalos del son. prec.
ritata a Federigo del Balzo, pri- , I quattrocentisti, come 1 trecenti-
mogenito di Pirro, e conte di A- j sti (cfr. Dante, Vit. A. cap. xm:
cerra Nel 27 aprile 1501 ella si ; '' Noìuma sunt consequentta re-
ebbe da don Federigo la terra di i non ""; e una n. del Carducci uel-
Francavilla,col titolo Ai duchessa, \ le Rhne del Petr., pp. S3-86). ve-
che ha qui nel vs. 2 ; di modo che | devano una certa relazione tra 1
questo soii. dovett'essere composto '1 nomi o i cognomi e le persone, gin
dopo quel tempr». Su di lei v. il | il n. tra ' la costanza ed il nome
son. XCVIII, i due sgs. a questo e i della D'Avalos: e cosi in seguito
r Introd. — '• Alla duchessa Co- j spessissimo, per altri. — polo, la-
stanza" (Salv). '
126
RIME
Che de vertù, bellezza & alto ingegno
Il guidardon non è stato reale.
Che, se'l valor divino & immortale
Nel mortai mondo havesse il premio degno,
Europa tua seria, l'Africo regno ,
L' ultima Tile e '1 mondo orientale.
Ma, per esser vertù cosa divina.
Divino stato in pregio a lei convene :
Che 'n ciel Minerva è dea, non qui Regina.
Non sono i pregi tuoi cose terrene ;
Divini honori Apollo a te destina
Nei templi Idalii , in Delo, in Hippocrene.
SONETTO GXII.
Serena, estiva luce, matutina,
Celeste gioventù, eh' ognihor rinova,
Beltà frequente a la magion divina,
Nel nostro mondo inconsueta & nova;
Fulgor de sol, che 'n nulla età declina.
Margarita, che'n ciel simil ritrova,
A cui vittoria Amor, vinto, s'inclina,
Che pugnar con Constantia è vana prova.
Che , benché il blandi'ente & dolce riso
Et r ornato parlar gli animi tire
Dietro al bel, giovenil, tenero viso;
D'alto valor non vien basso desire:
Chi di tal volto affètta il Paradiso,
Conven eh' a gloria &, pudicitia aspire.
14
liu., ' cielo '. — 4. reale, ' regio \ —
8. ultima Tile. Virgilio, Georq. 1,
30: «...tibi serviat ultima Thy-
/e »; e Petrarca, I, xcvr, io; Tr.
I, IV, 114. — 14. Idalii. In Idalio,
città dell'isola di Cipro.
SoN. CXII.— Tit.: "Allamedfe-
simja" (Salv).— 3. (ST) frequen-
te. — 6. Margarita , anche cosi
Dante ' le anime beate', la ' Lu-
na' e 'Mercurio' {Farad, x.vii ,
29,11,34. VI, 127), L'usò pure nel
soti. CLXV , 6 , riferendoti, alla
stessa signora. — affètta , latin,
(affectare), ' brama con ansietà':
ciV. il brano d'Ovidio in n. al son,
CU.
BIME
127
SONETTO CXIII.
Vapor terreni obnubilare il cielo,
Et l'aria ponuo empir d'atre tempeste,
Ma non faran che non si manifeste
Il dì, quando si leva il sole in Belo.
Marchese, il congiugal pudico zelo
Di negri panni , hirsuti hor ti riveste ;
Ma il tuo candor mirando , anzi celeste,
Penetra ogni condenso , ombroso velo.
Laura chiara, immortai, Sanse verina:
Non è per nebbia oscura ardente stella ,
Sempr' è lucente in sé luce divina.
Quando più piangi , allhor sei qual novella
Rosa aspersa in rugiada matutina:
Ch' a malgrado del pianto sei più bella.
14
SOiNETTO CXIV.
Madre di quelle antique , invitte genti ,
SoN. CXIII. - « Alla S[igno]ra
march[es]e Laura Sauseverina, ri-
masa vedova " (Salv) : cfr. la n. al
vs. g. Il marito, Inico d'Avalos, mo-
ri all'ultimo di settembre del 1303
(cfr.Notar Giacomo, p. 262); dopo il
qual tempo fu dunque scritto que-
sto son. Nelle note al Cantico in
la morte de don Innico, composto
dal n. per la stessa occasione, v.
le notizie sul marchese e sulla sua
morte.— i . obnubilare, latin., ' an-
nuvolare'.— 3. Marchese, 'marche-
sa': cfr. Cant. ck., vs. 80 ecc. —
zelo , latin., ' amore ardente '. —
9. Laura Sanseverino era figlia di
Roberto , conte di Marsico e prin-
cipe di Salerno, e di Marina d'A-
ragona. — 12-14. Cfr. Cant. cit. vv.
100 sgg. — 14. (ST) ad m.; pici.
SoN. CXIV. — Ad un papa, per
la presenza di un principe arago-
nese in Roma: e, probabilmente,
ad Alessandro VI, che, nel 1494,
accostandosi Carlo Vili a Roma e
trovandosi ivi Ferrandino - di ri-
torno dalia Romagna, dove aveva
cercato di resistere alle armi fran-
cesi , - era indeciso se dovesse o
difender R.oma, affidandone la di-
fesa al principe aragonese ( cfr.
vv. 12-14), abbandonarla, o ac-
cordarsi col re di Francia ( cfr.
Guicciardini, Stor. d'Italia I, iv,
p. 131-132). — "Sopra il Re di Na-
poli " (Salv). — Ebbe presente il
Sannazaro , s. lxxv ( di cui ri-
pete le rime: tnemorie , glorie,
vittorie, istorie), scritto anch'esso
per l'andata a Roma di un princi-
pe aragonese, certamente don Fe-
derigo (1492). — I. Cfr. Sannazai'o,
128
SiMÈ
Che lasciaron di sé viva memoria ,
Roma, fundata sol per fama & gloria,
Et per dar legge a populi possenti ;
Quando di quegli heroi, che al cielo intenti,
Hebber da te tviorapho per vittoria ,
Bimembri la famosa & chiara historia,
Magior gloria non hai, ch'or vedi &■ senti.
Tu vedi hor d'Aragona un tal fulgore
Che da presso reluce & da lontano.
D'imperio degno & d'immortale honore.
Dunque tu, santo Principe Romano,
Se vói domare il barbaro furore,
Pon l'arme in man di questo altro AfìVicano.
SONETTO CXV.
Mentre la IVlusa tua , gioconda & grave ,
Che contende con quello Hispano antico,
Scherne il volgo profano , ai buon nemico ,
Che di tuoi versi ride inseme & pavé ;
Io pur con questo stil non insoave,
Chrisostomo , lodando hor m' afìatico
( anche di Roma ) , s. lxxvi , i :
« Gloriosa, possente, antica ma-
dre ». — 4. Cfr. Virgilio , ^n. vi,
851 : « Tu regere imperio populos,
Romane, memento » : anche (Salv).
— 5-8. Cfr. Sannazaro , s. lxxv ,
5-8: « Questa fra l'altre tue rare
memorie, Fra l'altre lodi più leg-
giadre, ed alme, Fra le più prezio-
se, e ricche salme. Per colmo a-
scriver puoi delle tue glorie ». —
7-1 1. Cfr. Sannazaro, l. e, 9-11:
« Che con altero fasto et trium-
phale Spirto vedrai pur hoggi ,
al creder mio , Da far con suo
splendor meravigliarle » : cfr. an-
che il son. CXLVIII. — II. Cfr.
canz. VI, 242 e n. — 14. Cfr. San-
nazaro, /. e, 12-13: « Tal che di-
rai: Se questi è uom mortale, È
Paulo, Scipion »; e la n. al son.
XCII, 12 e n.
Son. CXV. — É diretto a Criso-
stomo ( cfr. vs. 6 ) Colonna , dei
pontaniani , poeta latino e non i-
spregevole rimatore in volgare. —
"A Chrisostomo amico suo" (Salv).
— 2. Hispano antico, certamente
M. Valerio Marziale, nato a Biibili,
nella Spagna Tarragonese —3. 0-
razio, Od. Ili, i, 1 : « Odi profa-
nimi volgiis »: anche (Salv). —
5-8. Cfr. Properzio, I, vii, 3-Ó :
<( Nos, ut consuenius, nostros a-
g'itamus amores Atque aliquid du-
ram quaerimus in dominam ». —
6. Crisostomo. Il Colonna, nato
(1460?) a Caggiano , in provincia
RIME 129
Un bel volto d'orgoglio tanto amico,
Che d' esser posto in ciel par che s' aggrave. 8
Felici voi, che del vostro valore
Con chiara fama haveti il premio degno,
Et siete d'Helicona il vero houore. n
Misero me , che non tanto a l' ingegno ,
Son forzato servir, quant'al dolore.
Et ho per guidardone ira & disdegno! 14
CANZONE X.
non volgare honor del secol nostro ,
Tra noi, come tra stelle un vivo sole,
Nato da generoso sangue , antico ;
Quel che nel volto , in atto & in parole,
Et in pensiero al volgo ognihor dimostro,
No' '1 celo a te, perfetto & raro amico.
Io piango & canto ardendo; & m' affatico
di Salerno, fu prete, precettore e
poi segretario di Ferrante, primo-
genito di don Federigo. Segui il
suo allievo alla difesa della Pu-
glia e di Taranto (1501), coutro i
francesi, e nell'esilio di Spagna,
dove stette dalla metà 1502 a tutto
l'ottobre del 1505. Non pare che
questo son. fosse scritto durante
la sua dimora in Ispagna, ma
prima o dopo di essa. V. Minieri-
Riccio, Blog. p. 453 sgg. , e Yln-
trod. — 7. Petrarca, II, e. vui, 117:
« Vergine umana e nemica d'or-
goglio ».— 8. s'aggrava, " sp. se
agrarie " (Salv): cioè ' entri in col-
lera': cfr. son. LXXXV, 8 e n. —
12-13. Traduce da Properzio, l. e,
7-8: (xNec tantum ingenio, quan-
tum servire dolori Cogor et ae-
tatis tempora dura quaeri ».
Canz. X.— Tit : "Ad un suo ami-
co Cav[alie] re Napoletano; cioè a
M. Iacopo Sannazzaro " (Salv). —
I. Petrarca, II, lxxii, 5: « Quella
che fu del secol nostro onore »; I,
cxcui, 11: « Che me mantenne e
'I secol nostro onora «, — 2. vi-
vo sole. Cosi Laura il Petrarca,
I, Lxi, 12, CLXxv, 2.-3. E lo stesso
Sannazaro, Are, p. 112: « In quel-
la [ Napoli ] dunque nacqui io ,
ove non da oscuro sangtie , ma
(se dirlo non mi si disconviene) se-
condo che per le più celebri parti
di essa città le insegne de' miei
predecessori chiaramente dimo-
strano ; da antichissima & gene-
rosa prosapia disceso, era tra gli
altri miei coetanei gioveni forse
non il minimo riputato. E lo avolo
del mio padre da la cisalpina Cal-
ila, benché (se ad principii si ri-
guarda) da la extrema Hispagna
prendendo orighie (ne i quali duo
luoghi anchor hoggi le reliquie de
la mia famiglia fioriscono) fu ol-
tra ala nobilita de maggiori, per
suoi proprii gesti notabilissimo ».
Cfr. anche F. Elio Marchese . De
neap. fam.,\). 184 sgg., e Vhitrod.
dello Scherillo all' A)-c. del Sanna-
zaro, pp. ix-x.— 7. Cfr. Petrarca, I.
CLXXV, 1 : « r piansi or canto...». —
>7
130 RIME
Indarno sempre in exaltar costei,
Ch'io adoro; onde, s'io veggio,
Intendo & laudo il meglio, & seguo il peggio, io
Ne 'ncolpo i duri fati , iniqui & rei.
Che , ben eh' altra prometta quant' io cheggio ,
Et d' ella io speri morte per mercede ,
Sarà pur verso lei
L'ultima tal, qual fu la prima fede. ,5
Così vivo, seguendo mia ventura
Fera & crudele, & quel , che posso, io voglio.
Poiché quel , che vorrei , non si può fare.
Sì cieco Amor mi tien, che non mi doglio
Di vedermi sepolto in fama oscura, 20
Lasciando a voi le palme insigni & chiare.
Non cominciai sì follemente amare ,
Ch'io spere pivi d'Amor posser fuggire:
Che passa il decimo anno ,
Ch'io pugno meco per fuggir d'affanno, 23
Et per questo pugnar cresce il martire;
Che correr con la voglia è minor danno.
Poi che non può sospiro , voce alcuna
Da la mia bocca uscire ,
Che non risone Amore & la mia Luna. 30
Colui , che con soave ingegno & arte ,
Infiammar prima fé' gli ombrosi mirti,
D' Ariadna cantando in dolci accenti ;
9-10. Da Ovidio, Met. vii, 19-21:
« ... Aliudque cupido, Mens aliud
suadet. Video ìneliora proboque ,
Deteriora sequor » : cfr. Orazio ,
Epist. I, vili, 1 1 : « Quae nocuere
sequar, fugiam quae profore cre-
dam » ; ma tutt'e due da Euripide
HippoL, 380-381. Ed il Petrarca,
I, e. XVII, 139: « E veggio 'l me-
glio ed al peggior m'appiglio ».—
12. altra, donna. — 15. Cfr. Pro-
perzio, I, XII, 20; « Cjaithia pri-
ma fuit ^ Cynthia finis erit ». —
16-17. mia ventura Fera & cru-
dele. Petrarca, II, XLiri, 12: «...mia
fera ventura » ; I, e. xiv, 28: «...0
cruda ?nia ventura ». — 24. " De-
cimo anno passato del suo amore "
(Salv). — 28. (ST) pno. — 28-30.
Cfr. Anacreonte, xxiii, 8-9, 11-12:
... Ivp'n (?£ "Epwras àvTsy&Jvsi... vj
lùp-Q yàp Móvo'j; "Epwras aSit. —
31-42. Enumera, come aveva fatto
nella canz. VI, 190-195, alcuni poe-
mi del Fontano.— 32-33. I tre li-
bri De amore coniugali, pubbli-
cati nel 1 505, da Sigismondo Mayr;
KIME I 3 t
Poi con più audaci & animosi spirti,
Examinando il ciel di parte in parte, 35
Dinumerò le aurate stelle, ardenti;
Scendendo poi, cantò degli elementi
Le nature diverse, e i varii mostri
Di quella discordante
Concordia, giunta in fede sì constante; 40
Lui celebre gli lieroi di tempi nostri ,
Lui de gli Alfonsi & di Ferrandi caute ;
A me lasciando il chiaro, almo pianeta,
Che co' i favori vostri
Non può mancarmi il nome di Poeta. 45
Come fu vinta la novella Troia
Da man de l'Aragonio novo Achille,
Che restò vivo & lieto, & pien di honore;
Et come, extinte le vive faville
De l'ardor Tarentino, in pace & gioia 50
Eicovrò il patrio regno , vincitore,
Potrà cantar con voci alte & sonore
Pardo, che '1 somno oscuro in Helicona
Con chiari versi ha desto.
A lui conven, che faccia manifesto 53
in cui il P. canta le gioie della sua | nessuna ai due Ferranti. — 43. La
vita coniugale, dirigendosi , per lo ! Luna. — 44. vostri, del Sannaza-
più alla moglie, Adriana (/Irmdna, ro. — 46. Troia, in Puglia, dove
cfr. il vs. 33, e così pure il P. ) I Ferrante L (cfr. vs. 47) solo dopo
Sassone ( pp. 62, 63, 69 ecc.): v. j aver abbattuti inieramente Gio-
Tallarigo, Op. cit, 1, p. 87 sgg. — vanni d'Angió ed i baroni, parteg-
34-36. L' Urania sire de Stellisi gianti per lui, capitanati da Gio-
cfr. canz. VI, 193 n. , e v. Talia-
rigo. Op. cit., u , p. 583 sgg. — 37-
40. Il Meteororum liber, pubbli-
cato con altre poesie da Aldo Ma-
nuzio, nel 1503: V. Tallarigo, l. e,
p. 596 sgg. — 39-40. Ovidio , Met.
1, 433: «...et discors concordia
fetibus apta est ». — 41-42. Fra le
liriche del P. ve ne sono alcune in
lode di Alfonso, duca di Calabria,
e delle sue vittorie (ed. Mayr, 1503:
pp. 135, 171, 224, 229 ecc.), e qual-
cuna per don Federigo (p. 202 ecc.);
vanni Antonio Orsino, [>rincipe di
Taranto (cfr. vs. 50 : l'ardor Ta-
rentino); potè dire di aver ricupe-
rato il regno (cfr. 31). quasi perdu-
to da lui per il numero e le forze
dei ribelli: v. Pontauo, De bel.
neap. iv, p 103 sgg. Il (Salv) a-
veva qui postillato, .poi cancellò
" Otranto ". — 53. È inutile av-
vertire che questo poema sulla
prima congiura dei baroni, se mai
il Pardo lo compose - che il potrà
cantar del n. (vs. 52) può essere
132 RIME
Il glorioso nome d'Aragona
A quei che poi verranno; & io con questo
Più dolce stil cantando la mia Diva ,
Di sua bella persona
Parrò forse memoria eterna & viva,
L'insignie, li trophei, le opime spoglie,
Eapte da man di barbari infideli ,
Di elle '1 Eettor del ciel s'allegra & gloria;
Il domar di tyranni, impii , crudeli,
Il moderar de le sfrenate voglie ,
II sapersi goder de la vittoria ,
Gante con versi d' immortai memoria
Altilio, al cui cantar terso & polito
Le Nymphe di Sebeto
Menavan le lor danze, onde quel lieto
Hymeneo , Hymeneo sonava il lito
Del bel Tyrrheno mar, tranquillo & cheto.
Non vo' eh' altro, ch'io sol, la lyra tempre.
Per far che l'infinito
Valor de la mia donna viva sempre.
Et tu, di cui l'ingegno ogni altro avanza,
Che r una, & l'altra lingua hai exornata.
L'alme Muse evansreliche illustrando.
60
65
cosi un fatto come un sempilce
desiderio - non si trova fra le po-
che cose che ci sono rimaste di
lui: V. Introd. — 59. Petrarca , I ,
Lxvui, 7: « Con quanti hioghi sua
bella persona ». — 60. Petrarca ,
II, LV , 14: « Fia del tuo nome
qui ìnemoria eterna ». — 61-72.
Anche qui i nostri dubbii su que-
ste poesie composte dall'Altilio su
l'impresa d'Otranto (cfr. vv. (5i-
03 ) e su altri argomenti politici
e morali ( vv. 64-66 ). Di lui non
resta altro che una epistola al
nostro , alcuni epigrammi ed un
Epitalamhim, cui qui si accenna
nei vv. 68-72, i quali, anzi, traduco-
no un brano di quel carme: « Au-
rea Sebethi soboles... ibi variante
reflexu Nunc pedibus choreas ,
nunc carmina plaudere cantu, Car-
mina quae curvis in vallibus as-
sultabant, Incejiere, omnis Hyme-
naeo ut ripa sonaret... Dicite Hy-
men, Hyraenaee Hymen ter dicite,
Nymphae ». Questo poemetto ca-
tulliano, scritto per le nozze d'Isa-
bella d'Aragona e di Gian Galeaz-
zo Sforza (148S) , fu ripubblicato
da M. Tafuri , Op. cit., ove a p.
IO e 12 i vv. 42, 52-55, 65, rife-
riti qui sojn'a — 63. Petrarca , Il ,
Liv, io: <( Quasi d' un più bel Sol,
s'allegra e gloria ». — 77. exor-
nata , latin. ' abbellita '. — 78. Il
De Partii Virginia , detto pri-
RIME
'33
L'alma gentil per te più celebrata,
De r Aragonio honor 1' altra speranza go
Potrai lodar , sì come ber fai , cantando.
Né gir conven per lode incerte errando ,
Cile da qua l'alpe & oltre , in mare , iu terra
Son conosciuti & cbiari
Gli atti di sua verta, j^reclari & rari, 85
Giocondi in pace & animosi in guerra.
Et io vo' pur cantar quei dolci & cari
Occhi celesti & quelle gote intatte,
Cbé, (se '1 veder non erra,)
Son fresche rose , asperse in puro latte, 90
Cbé, s'io contemplo miro il chiaro aspetto ,
Il riposato & non mortale incesso ,
Da la mia bocca nasce un suon più vivo.
Ma se pur gli occhi miei guardar da jaresso
Ponno il soave, casto & latteo petto, 95
Mille Eneide allbor, mille opre scrivo.
Se '1 fato non m' havesse in tutto privo
Del grandiloquo stilo, in quel più bello,
Antiquo , alto idioma
Non cantarci de la possente Roma, 100
ma anche Chrhteis, cominciato a
scrivere sul principio del 1300,
già compiuto nel 1 507, fu pubbli-
cato nel 1326 dal Freccia in Na-
poli. — 79-Si. Don Federifro: cfr.
son. CI, 14. »i.-82. Da Tibullo, IV,
I, 106-107: « At non per dubias
errant mea carmina laudes: Nam
bellis esperta cano »: cfr. canz.
VII, 15 e n. — 90. Da Properzio,
II , ni , 12: « Utque rosae puro
lacte natant folla >>: anche (Salv);
e Sannazaro, Are. p. 29: «. . il cui
colore aguatrlia Le matutine rase
e 'l puro lacte »: cfr. son. LVIII,
6 n. — fresche rose. Petrarca, I,
csLvii, 10, CLXxxvii, 1. — 91-103.
Imita Properzio, II, 1, G, 9-10.
12-14, '7"'9' 21, 25: « [3/tram?(r]
Sive illam Cois fulgentem ince-
dere coccis , Hoc totum e Coa
veste vohimen erit:... Invenio cau-
sas ìnille poeta novas: Seu nuda
erepto mecum luctatur amiclu ,
Tum vero longas condiraus I/ia-
das... Quod mihi si tantum, Mac-
cenas , fata dedisseut... Non ego
Titanas canerem ... nec Pergama
nomen Homeri ... Bellaque resque
tui memora rem Caesaris »: solo
il vs. 14 il (Salv) — 92. riposato,
" sp. sossegado " (Salv) : cfr. sus-
siego. — non mortale incesso.
Virgilio, [^En. 1,403]: «Et vera
incessii patuit dea » (Salv); e il
Petrarca, I. lxi, 9 : « A^OJi era l'an-
dar suo cosa mortale t). — 99. anti-
quo, "i[destj nel r idioma latino "
1 34 BIME
Di Cesare, di Paulo o di Marcello;
Il mio signor , con 1' honorata soma
Di trophei, mi darebbe nome altero,
Et non minor di quello
Forse, che diede Achille al grande Homero. 103
Canzon, nel sacro fonte d'AganÌ2Jpe
Un poeta vedrai, sublime & raro,
Di lauro ornar le chiome ,
Da le Muse chiamato in vario nome ,
Hor Actio & hor Syncero, hor Sannazaro, 1,0
A lui la fronte inclina, & digli come,
Vivend' io ascoso in questa sorte humìle,
Di contentarmi imparo ,
Che non ogniuno arriva a 1' alto stile. j ,^
SONETTO CXVI.
Un sogno paventoso, oscuro & nero
M'atterra sì, ch'io non riposo un'hoi'a.
Et vien , misero me!, quando l'aurora
Toglie confusione & mostra il vero. 4
Veggio un monstro marino, borrendo & fero.
Tal che vegliando par che '1 veggia anchora,
Che coi denti mi trahe il cor di faora,
Et portai oltre il mar, ratto & leggiero. 8
(Sai v). — 101. Cfr. Petrarca, III, xxix,
9-10: «Credete voi che Cesare o
Marcello Paolo ». — Paulo.
Paolo Emilio (cfr. Orazio Od. I ,
XII, 38). — Marcello. Marco CLui-
dio Marcello, il vincitore degli Iq-
subri e il conquistatore di Siracusa
zoni per la partenza della Luna
da Niipoli.-Tit : " Sogno " (Salv).
— I. ClV. Petrarca. I, cxciii , i :
K misera ed orribii visione »: e
cfr. vs. II. — 3-4. Da Ovidio, E-
piit. 195- 19Ó: « Namque sub au-
rora... Somnia quo cerni tempore
ecc. (cfr. Virgilio, .^JJ*;. vi, 835 1 vera solent »; e dal Petrarca, Tr
sgg.). _ ,02. 'Ferrandino. — ioi3- IH, 11, 5-6: « .. la bianca amica di
114. Cfr Petrarca, I[I,xi, 99-100.— Titone Suol de' sogni confusi tórre
108 (ST) Z.«)«>'o.— uo.'Cfr. soa. il velo ». Cfr. anche Orazio, Sat. I,
XXI, i, xeni. I. ^.32-33- « Quirinus. Post mediani
SoN. CXVI. — Con questo co- noctem visus, cum somnia vera».—
mincia una serie di sonetti e can- '• 5-8. Allude alla nave che doveva
RIME
135
Io mi soglio destar con tal paura
Et sì pien di dolor, che non discerno,
Che vuol dir questa visione oscura.
Ma di mia vita homai lascio il governo
A quella dispietata mia ventura,
Che '1 camin trove anchor giù per l'inferno.
SONETTO CXVII.
Se'n le contrade extreme d'occidente,
Ove s'asconde ogni celeste luce,
Necessità del ciel pur ti conduce ,
Ond'io mi reste qui, cieco & dolente ;
Et se '1 duol de la mia misera mente,
A lo sparir de la vital mia luce ,
A morte per miracol non m'induce,
Là mi vedrai col cor più sempre ardente.
Ove, s' anchor di poi vivo son io,
Essendo per me morta ogni speranza,
Seguerò de 1' ardor mia prima usanza;
Et dove Amor giamai non fece stanza ,
Conosciuto sarà col pianger mio ,
Tal ch'arderà ciaschuu del mio desio.
14
SONETTO C XVIII.
— Ai ! , misera alma!, a che pur te tormenti?
Che sai, s'anchora il ciel vuol contentarte? —
portare in Ispagna la sua Luna.—
13. Petrarca, I, e xn, 15: « Poi
che la dispietata mia ventura ».
Son. CXVII. — Tit, : •' Partenza
della S[iiaJ D[onna] per Ispagna"
(Salv). — I. La Spagna. Cfr. Pe-
trarca, I, e. IV, 31: « E "mbrunir
le contrade cf oriente ». — 2. ' Ove
si vedono tramontare tutti gli a-
stri '. — 8. Andrà anch' egli in l-
spagna. — ii. ' Seguiterò a canta-
re'? — 12-13. ' E coi miei versi
farò conoscere l'amor mio fin an-
che a quelle genti cui Amore è
affatto ignoto'.
SoN. CXVIII.— É un dialogo fra
il poeta e l'anima sua a imitazione
di quello del Petrarca (I, lv) , tra
lui e gli occhi suoi. — ì-2. Petrarca,
[I, e. in, 11-12] : «...[anima trista:]
1 36 RIME
— Come, quando, esser può?, se già si parte,
Chi devea fare i sjjirti miei contenti? —
— Damo le vele a li medesmi venti,
Seguendo i chiari rai per ogni parte. —
— Se fuggon me , qual forza humana o arte
Giunger li può con passi tardi & lenti ? —
— Forse che absente fia più pietosa. —
— Assai saria per me, dolente & lassa,
Questo , quando di ciò sapessi il vero. —
— Hor non t'affliggere, alma dolorosa,
Che tra la spica e '1 pan gran tempo passa! —
— L'uno & l'altro vegg' io , ma il peggio spero. -
14
SONETTO CXIX.
Io m' era già condotto a coutentarme
Di mirar gli occhi sol pien di dolcezza,
Venceudo loro sdegno & dura asprezza
Con tacer & sofiVir, non con altr'arme.
Ma novo male hor vien per assaltarme,
Onde gli antiqui danni il cor disprezza.
Ch'io temo non veder più la bellezza.
Che suol darmi la morte & consolarme.
Che, benché in mezzo al cielo il suo fulgore ,
E si lontan di me, come in ponente.
Sotto '1 suo raggio pur s'acqueta il core.
Ma, se dagli occhi miei fia sempre absente ,
Et io posso sperar tanto dolore ,
Piangerò, lasso!, insatiabilmente.
Che sai s' a miglior tempo anco
ritorni » (Salv). — io. dolente &
lassa. Sottint. Vahna dei w. i e
12.— 13. 'Tra il proposito di pai--
tire (spiga) e la pai'tenza (pane)
correrà dei tempo: fin che ci sarà
tempo, ci sarà speranza': cfr. il
prov. tose. : " Dal detto al fatto c'è
\m gran tratto " ecc. in Giusti ,
Prov. Tose. pp. 130-131.
SoN. CXIX. — 9-11. 'Quantun-
que egli non potesse avvicinar la
sua Luna, pure, restando ella in
Napoli, avrebbe potuto almeno ve-
derla; ma non più ora, se essa se
uè va in Ispagna'. — 13. Virgilio,
RIME 137
SONETTO CXX.
Quando veggio volare i giorni & 1' hore ,
Et appressarsi il di, che la mia vita
Deve finir , per 1' aspra departita
Di cui mi lassa in tanto extremo ardore; 4
Parte di me non è senza dolore,
Et la pena con l'alma è tanto unita,
Ch' io non so qual conforto , o quale aita
Difende il cor, che subito non more. 8
Forse dà fede anchor l' alma al desio ,
Né crede si permetta un tanto danno,
Onde s' allunga il viver doloroso. 1 1
Egli è pur ver; non prender, alma, inganno,
Non allungare il fin del fine mio ,
Che, fuggendo il morir, fuggi il riposo. 14
SONETTO CXXI.
Hor su, seguir vogl'io la Luna mia
Per l'alto & lungo mar con quello ardore.
Che sempre li mostrò l'aperto core:
Chi mi vieta vederla ove che sia? 4
Che parlo ? o dove sono ? qual follia
Voi ve la mente, accesa di furore?
Già non mi dan gli antiqui sdegni horrore.
Non veggio per me sol chiusa la via? g
Quanto più la ragione i passi serra.
jEn. IV , 4 1 9 : « Hunc ego si po-
tili tantutn sperare dolorem » ; e
cfr. Petrarca, II, lxviii, 13: «E
sola puoi finir tanto dolore )k —
sperar, "esperar" (Salv): dallo
spagn. , ' aspettare ' ; ma qui è un
latiu.: V. la n. precedente.
SoN. CXX.-3-4. Cfr. son. XCV,
13-14. — 3. a. departita. Petrar-
ca, I, e. ui , 5: «Però che dopo
r empia dipartita ».
Son. CXXI. — 5-6. Da Virgilio,
^En. IV, 595: « Quid loquor, aut
ubi sura ? qiiae mentera insania
mutat? »; ed il Petrarca, I, e. v,
31: «Che parlo? o dove sono? e
chi m' inganna ».
18
138 RIME
Amore a seguitarla più m' invita ,
Ma gelosia mi chiude & mare & terra.
Toglimi, o morte, l'angosciosa vita;
Ch'io non ho forza a sostiner la guerra,
Che s'apparecchia il dì de la partita!
SONETTO CXXII.
Hor m' è chiuso il camin del guidardone ,
Hor cresce il duolo, hor la speranza cade,
Già se ne va ne l' ultime contrade ,
Chi del mio amaro fu dolce cagione.
Nullo tempo giamai , nulla stagione ,
Può minuir mia doglia , & nulla etade
Da mente mi torrà 1' alma beltade ,
Che mi privò di sensi & di i-agione.
Che potrò fare io, misero, dolente,
Se non moro al partir del mio dolciore ,
Altro che lagrimare eternamente?
Ma donde può venire un tanto humore
A gli ocelli miei, che possa pienamente
Le lagrime agguagliare al gran dolore?
H
SESTINA V.
Cantai un temjjo in più soavi rime ,
Ben che'l cantar non fusse mai sì lieto,
Che non havesse jDur parte di pianto;
Hor piango in dissonanti , horindi versi.
SoN. CXXII.— j. guidardone.
Cfr. Petrarca, I, lxxxvi, 4.-4. Dal
Petrarca, I, clxxiv, 14: « Si dol-
ce è del mio amaro la radice «. —
6. minuir , latin., 'diminuire'. —
13-14. Da Virgilio, JEn. u. 361-
562: «... quis funera fando Espli-
cet aut possit laoHmis acquare
labores? »; ed il Petrarca, II, e. i,
18-19: « Qual ingegno a parole
Porla agguagliar il mio doglioso
stato? ».
Sest. V. — Tit.: " Lamento del-
la partenza della S[ua| D[onna) "
(.Salv). — Ebbe presente Virgilio ,
^TjH. IV, 296 sgg. , neir episodio di
Bidone abbandonata, - imitato an-
che da Ovidio nell' Epist. vii ; - ed
RIME 1 39
Cantai per l'alma Luna, allhora in vita;
Per Proserpina rapta hor piango in morte.
Hor mi ritrovo in tenebrosa morte ,
Ove non è chi intenda le mie rime ,
Né mi soven eh' io mai vivesse in vita,
Né so se vissi o doloroso, o lieto,
Quando cantai sì lagrimosi versi,
Che trasser da crudeli anchora il pianto.
Da gli occhi miei non esce altro che pianto.
Né sa chiamar la lingua altro che morte,
Poi che chi dava lena a li miei versi ,
Fuggendo, hor interrompe & canti & rime.
Taccia il giocondo stil, sonoro & lieto,
Comincie un suon conforme a 1' aspra vita.
Invidia hebbe fortuna a la mia vita,
Vedendo , eh' io sperava forse il pianto
Mutare in riso, anchor sereno & lieto;
Hor se ne va speranza, hor vien la morte,
Con ale tenebrose, onde le rime
Si son converse in discordanti versi.
Prima m' acconsolava in cantar versi ,
Hoggi sente piìi duol l'oscura vita.
Quando rimembra 1' amorose rime.
Solo si pasce il cor d'amaro pianto;
24
il Petrarca, II , sest. (di cui serba
anche le rime: lieto, rime, pian-
to, morte, ed il numero delle stan-
ze). — 3. (ST) luna. — 6. La sua
Luna, andando in Ispagun, a ma-
rito, gli ricorda Proserpina rapi-
ta da" Plutone (cfr. Ovidio , Met.
V, 385 sgg.) — 12. Cfr. Petrarca.
L LXiv, 1-4: « Ch'animo al mon-
do non fu mai si crudo Ch' io
non facessi per pietà dolersi ». —
14. Petrarca. II, sest., 33, 42:
u Che non sanno trattar altro che
morte ... Xè contra Morte spero
altro che Morte ». — 19-20. Pe-
trarca, II, XLvn , 12-13: «Morte
ehhe invidia al mio felice stato '
Anzi alla speme ». — 23-24. Cfr-
Petrarca, sest. cit. , 40: « Cosi è ''
mio cantar converso in pianto ». —
23-26. Cfr. Petrarca, sest. cit..
43-44: «Nessun visse giammai più
di me lieto; Nessun vive più tri-
sto e giorni e notti»; e 31-33:
« Chiaro segno Amor pose alle
mie rime Dentro a' begli occhi: ed
or r ha posto in pianto. Con do-
lor rimembrando il tempo lieto». —
28. Cfr. Petrarca , sest. cit. . 47 :
« Vissi di speme; or vivo pur di
pianto »; e 28: « Or m' è '1 pian-
ger amaro più che morte ». —
1 40 RIME
Et d' aspettar la desiata morte ,
Che speme non ho più di viver lieto. 30
Io non hebbi un sol di sì chiaro & lieto
Allhor, quando cantava allegri versi,
Che non mi fusse stata assai la morte
Più cara, che la sconsolata vita;
Ma non havea cagion d' eterno pianto,
Com'hoggi, ch'explicar no' '1 posso in rime. 36
Luna, ove ne vai? , che'n tante rime
Da me fusti cantata in canto lieto ?
Et hor ti taccio per soverchio pianto?
Deh, no' spregiar chi canta eterni versi;
Et pensa a questa breve & fragil vita,
Ch'altro non è eh' un gir dietro a la morte. 42
Se tu non temi la seconda morte,
Da le prose difesa & da le rime,
Perdona al meno a la tua cara vita.
Aspetta la stagion del tempo lieto,
Allhor che '1 roscigniuol canta i suoi versi :
Non partire hor , che '1 mare è pien di pianto. 48
Mentre eh' io imparo assuefarmi al pianto ,
Et fuggir lagrimando a l' impia morte ,
Deh, ferma un poco il corso al suon di versi.
Sol eh' abbian fin le cominciate rime.
Che collocaro in ciel l'onesto & lieto
Volto , per cui mi fu cara la vita. 54
Ma tu non vuoi di tua, né d'altrui vita
29. Cfr. Petrarca, sest. cit., 6: « 0-
(jiar vita mi fanno e bramar mor-
te ». — 30. Cfr. Petrarca, sest. cit.,
I : « Mia benigna fortuna e '1 viver
lieto ». — 35-36. Cfr. Petrarca ,
sest. cit., 8-9, 1 1 : « Cagion mi dai
di mai non esser lieto. Ma di me-
nar tutta mia vita in pianto... I
miei gravi sospir non vanno in
rime ». — 37. Virgilio, l. e, 429:
« Quo ruit?...». — 46. Virgilio, l. e,
429-430: «... extremum hoc mise-
rae det raunus amanti: Expectet
facilemque fugam ventosque fe-
rentis »; e Ovidio, Epist. vii, 41.
179: «Quo fugis? obstat hiemps!
Hiemis raihi gratia prosit... Dum
freta raitescunt et amor ». — 49-
51. Virgilio, !.. e, 434: « Dum me
mea victam doceat fortuna dole-
re»; e Ovidio, Le., 179-180: «...
dum tempore et usu Fortiter edi-
sro tristia posse pati ». — 55-56.
Virgilio, l. e, 369-370: « Num
RIME
Curarti, né del mio continuo pianto.
Pur te ne vai, mostrando il viso lieto.
Me, misero!, lasciando in certa morte.
Fuggite homai di noi , leggiadre rime ,
Continuate, o pianti, i vostri versi.
Per quello intero amor, che'n tanti versi
Mostrai, cantando la tua casta vita.
Per la fé che si lagna in varie rime ,
Per le lagrime mie , per l' aspro pianto
Dami, per premio, spatio, oud' io la morte
Possa sperar con l' animo più lieto.
S'io meritai di te risguardo lieto,
se mai ti fur grati li miei versi ,
Habbii pietà de sì dogliosa morte ,
Poi che non l'hai de l'angosciosa vita.
Tu pur mi fuggi & non ti move il pianto,
Né ti movesti mai per dolci rime.
Taccian le rime e'I suon del canto lieto.
Rinove il pianto i suoi penosi versi ,
Et la vita si mute in atra morte.
141
6o
66
72
75
SONETTO CXXIII.
Ai, NajDol bella, ai, seggio, in cui fé' nido
Nobiltà con bellezza & vertìi mista;
fleti! ingemtiit nostro? num lumi-
na flexit? Num lacrimas victus de-
dit aut miseralus amanlemst? ».
— 38. Virgilio , Le, 30S: « Nec
moritura teiiet crudeli funere Di-
do? 1). — 60 Cfr. Musco, iii, 8 ecc.:
"App^ìTE St/£).tzGà T'Tj ttìvSìo;, ào-
/szì JIoÌTsti; Virgilio, Ed. vm,
21 ecc.: alncipe Maenaliosmecura,
mea tibia, versus >>; e Sannazaro,
Ar-c., p. , 263 : « Rincominciate , o
Muse, il vostro pianto ». — 61-63.
Cl'r. Virgilio, JEn. iv, 307: « Nec te
noster amor nec te data dexiera
quondam ».— 63-66. Virgilio, l. e,
314, 316,433: «...Per ego has lacri-
mas dextramque tuam te. ..Per co-
nubia nostra , per inceptos hyme-
naeos.-Tempus inane peto, requiem
spathanque furori »; e Ovidio, l.
e. , 177-178: « Pro meritis et si-
qua tibi debebimns ultra, Pro spe
coniugii tempora parva peto ». —
67-69 Virgilio, l. e , 317-318: « Si
bene quid de te memi fuit aut tibi
quicquam Dulce meum , misere-
re...)). — 68. Cfr: Petrarca, II , e. i,
77: « Se gli occhi suoi ti fur dolci
né cari». — 71-72. Virgilio, l. e,
314. 438-439: « Mene fugis?... Sed
nullis ille movetur Fletibus ».
SoN. CXXIII.— Tit.: "Partenzsi
142 RIME
Hor devreste dar voi T ultimo strido,
Perdendo quel die mai più non s' acquista. 4
Io, che pili perdo & lagrimando grido.
Cacciar devrei quest'alma stanca & trista,
Sì come fé' la miserabil Dido,
Privata de la dolce, amata vista. 8
Né quella hebbe giamai tanta ragione
Di voluntariamente a morte darsi:
Che pur gli diede Amore il guidardone. u
Io, lasso !, a cui i begli occhi tanto scarsi
Pur sempre, ho di morir vera cagione:
Che duodeci anni indarno piansi & arsi. 14
SONETTO CXXIV.
Morte può far che'l corpo non si doglia,
Ma, ch'io non ame piìi, no"l può far morte;
Né che l'ardore io morto non comporte,
Che'n l'anima sent' io l'ardente voglia, 4
Però non priego morte che mi scioglia
Da queste membra, quasi, anzi già morte,
Ma che'n amore io sia sempre più forte,
Et viva per esempio in tanta doglia. 8
(iella S[ua] D[onna], amata da lui i Bidone (,'En. iv , 522 sgg.) imi-
12 anni " (Salv). — i. seggio. "Seg- tato nella sest. preced. Del quale
gio di Nido: nobile di Nido" (Salv); : cfr.; per i vv. 6-7 del n., F « infe-
e cosi anche il Caballero, Ricer- \ lix Dido » e T a Accipite liane a-
che , p. 15, nel proporre l'ipotesi j nimam nieque his exolvite curis »
che la donna de! n. sarebbe pò- {l. e, 596, 652). — 12-13. l^etrar-
tuta appartenere alla famiglia San- | ca, I, lxi, 3-4: « E "1 vago lume
chez de Luna, che era appunto di oltre misura ardea Di quei begli
quel seggio: ma vedi ì'Introd. — j occhi , eh' or ne son si scarsi ».
fa' nido. Far nido, nel senso di
* dimorare ', è in Dante, Purg. xs,
131, e nel Petrarca, I, e. vi, 7;
11, L, 9 ecc. — 3. Petrarca, I, con,
8: « In Grecia affanni , in Troia
ultimi stridi ». — 4. Cfr. Petrarca,
I, e. ili, 14: « se '1 perduto ben
mai si racquista ». — 6-1 1. Ac-
cenna all' episodio virgiliano di
SoN. CXXIV. — 1-2. Petrarca,
II, j.xxx, I -2 : « Non ■pvó far Mor-
te il dolce viso amaro; Ma '\ dolce
viso, dolce pjfó far ìnorte 11 •. e ib.,
sest.. 49-50: « Morte m'ha morto; e
sola può far Morte Ch'io torni a
riveder...». — 5. Petrarca, sest. cit.,
64 : « E yerò mi son mosso a pre-
RIME 143
Che, beuché'l foco, a nessun altro eguale,
Corra con tal furor per le mie vene.
Resister posso pur a tanto male. 1 1
Et s'altro amante vede in raagior pene
Sostinersi anchor vivo un cor mortale ,
In minor duci non perderà la spene. 14,
CANZONE XI.
Quest'è, s'io non mi inganno, il bel balcone,
Ch' era si cbiaro & lucido da prima ,
Hor con oscurità morte portende ;
Sotto '1 qual l'infelice Endimione
Solea, rivolto al ciel, cantare in rima 3
Quella beltà, ch'ai primo cielo splende.
Hor più non vi s' intende
Lyra, né voce alcuna.
Kotta giace e spezzata liomai la lira ,
La voce è morta, & l'ombra hor qui sospira io
Eternamente , & piange V aurea Lnna ;
Et con queste parole
Morendo laugue , si lamenta & duole.
Pianga ciascun di ciò che gli arde il core,
Che piangendo releva ogni dolore. 15
A' naviganti era oportuno il vento,
Tanto importuno a cui langueva ardendo.
5iar Morte «. — 14. " Quale è quel- 1 che fossero derivati da quelli del
della morte " (Salv). Petrarca (1, ix, 56-57) : « Là dove
Canz. XI. — " Partenza della 1 più mi dolse, altri si dole; E do-
Sfual Dlonna], che andava a ma- ' lendo addolcisce il mio dolore»;
rito in Ispagna "' (Salv). — 3 por-
tende, latin , ' mostra '. — 4. Endi-
mione. " Endimione Cariteo, per-
chè S[ua] D[onna] è chiamata Lu-
na "(Salv): cfr. la ?(. alla sest. IH,
31-33.— 9 lira. (ST) lyra - e sem-
pre cosi in mezzo del vs.,-corr.
in ER per la ritua. — 14-15 Questi
vv. si ripetono in fine di ogni stan-
za , eccetto che nell' ultima. Fare
e forse anche da quelli di Ovidio,
Trist. IV, m, 37-38: « Fleque meos
casus. Est quaedam Aere voluptas.
Expletur lacrimis egeriturque do-
lor ». — 15. releva, latin., 'alle-
via'. — 16-17. Da 0\\dìO , Eptst. ,
SUI, 9-[i : «... et qui tua vela vo-
caret, Quem cuperent nautae, non
ego, ventus erat. Ventits erat nau-
tu aptus, non aptus amanti ». —
<
144
RIME
Ond' era presso già la morte mia ,
Quando sentii di donne un tal lamento ,
Che redir non si può , se non piangendo , 20
Et pianger & parlar non si poria.
Vidi un' altra Orithia ,
Da Borea rapta in fretta ,
Che lagrimava d'una & d'altra stella,
E '1 pianger la facea parer più bella, 25
Che pose nel mio cor magior saetta;
Lasciando a la partita
Napol senza beltà, me senza vita.
Pianga ciascun di ciò che gli arde il core ,
Che piangendo releva ogni dolore, .jo
Sì veloce al partir ella si mosse,
Sol per me dar più dolorosa morte,
Ch'io non li diedi le saluti extreme;
Onde tal rabbia il petto mi percosse.
Che , volendo parlar, latrai sì forte, 35
Come cane che 1' onde fugge & teme.
Allhor, perdendo inseme
La speranza & la luce,
19. (ST) senti. — 21. Cfr. Dante,
Inf. V, 126: « Farò come colui che
piange e dice »; e xxxui, 9: « Par-
lare e lagrima!" vedra'mi insie-
me ». — 22-23. Orizia, figlia di E-
retteo , fu rapita da Borea, e dal-
l'Attica trasportata in Tracia (v.
Ovidio , Met. VI , 677 sgg.). —
Ovidio, Amor. I, vi, 53: « Si satis
es raptae , Borea , memor Ori-
thyiae»; Properzio, III, xxn, 51:
« Crudelem et Borean rapta Ori-
thyia negavit )>; IV, vi, 13: « In-
feiix -Aquilo, raptae timor Ori-
tyiae ». — 25. Cfr. Virgilio, ^En. v,
343-344: «... lacrimaeque decorae
Gratior et pulchro veniens in cor-
pore virtus m — 26-27. Petrarca ,
II, Lsvi. 1-5: « Lasciato hai, Mor-
te, senza sole il mondo Oscuro e
freddo , Amor cieco ed inerme ,
Leggiadria ignuda, le bellezze in-
ferme , Me sconsolato ed a me
grave pondo; Cortesia in bando
ed onestate in fondo ». — 31-34.
Ovidio, Epist. xni, 9, 13-14: « Ra-
ptus es bine praeceps...Linguaque
mandantis verba imperfecta reli-
quit: Vix iliud potui dicere triste
vale ». — 33. le saluti extreme.
Salute, femm. ' saluto ', è in Dan-
te, Vit.N. , cap. m, 13, xi, 2 ecc.,
nel Petrarca, Tr. I, 11, 129, e nei
rimatori trecentisti. — 35. Petrar-
ca, I, e. I, 62: IX Che volendo pat--
lar , cantava serapre ». — 35-36.
Ovidio (di Etuba, trasformata in
cagna), Met. xin , 568-369: «...
rictuque in verba parato Latra-
vit , coìtala loqui»: cfr. anche
Giovenale, Sat. x, 271-272; e Dan-
te, Inf. XXX, 20 : « Forsennata la-
RIME
Con furioso ardor dietro gli andai,
Gridando: — Ai, Luna, ai, Luna, ove ne vai?
Rivolge al men la desiata luce,
La luce ardente & chiara,
La notte e '1 giorno a me cotanto avara ! —
Pianga ciascun di ciò che gli arde il core ,
Che piangendo releva ogni dolore.
Ella pur col bel volto , irato & grave ,
Né si rivolse mai , uè mi rispuose ,
Et era giunta al mar, senza dimora.
Io possetti mirarla in l'alta nave
Con queste luci oscure &, tenebrose
Senza morire; e '1 ricordar m'accora.
Che di dolor si mora,
No' '1 creda mai vivente,
Che tal lo scrisse che'l debbe soffrire.
Ai, natura matrigna, hor che vuol dire,
Che subita allegrezza inmantinente
Uccide, & più vivace
E colui che'n martìri & doglia giace?
Pianga ciascun di ciò che gli arde il core,
Che piangendo releva ogni dolore.
Col nautico clamor già si partiva
La vela, che nel pelago volava,
Lasciando ombrose homai nostre contrade ;
Splendeva ovunque andava la mia diva,
Talché Neptuno intento la admirava ,
Dicendo: che giamai tanta beltade
145
40
45
50
55
60
65
tro si come un cane ». — 39. " Co-
me cane arrabbiato " (Salv). —
48-51. Cfr. Ovidio, Epist. xni, 17-
18: « Dum potui spedare virura,
spedare iuvabat: Sumque tuos o-
culos usque secuta meis ». — 51.
Petrarca, II, iv, 5 : « -E 7 rimem-
brar e 1' aspettar m' accora •». —
52-54. Dal Petrarca, II, iii, 34, « ...
né giammai tal peso Provai; né
credo c/i'uom di dolor inoragli. —
54. debbe , per ' dovette '? — 63.
Petrarca, I, e. iv, 31 : « E 'mbrunir
le contrade d'oriente». — 65-69.
Da Catullo, lxiv, i 1-15 : « Quae si-
mulac rostro ventosum proscidit
aequor , Tortaque remigio spumis
incanduit unda , Emersere freti
canenti e gurgite vultus Aequo-
reae monstrum Nereides admiran-
«9
146 EIME
Si vide in nulla etade
Passar l'ondante regno.
Tethide & tutte l'altre dee marine,
Uscendo de lor case ci'ystalline, 70
Disser: — Felice & glorioso legno,
Tu conduci un thesauro,
Che si bel no' '1 i^ortò mai Giove in tauro ! —
Pianga ciascun di ciò che gli arde il core ,
Che piangendo releva ogni dolore. 73
Di 230Ì ben augurando il suo viaggio,
ContinuJivan lor soavi accenti,
Cacciando fuor dal mar l'humido volto:
— Dimostre il sol più luminoso il raggio,
Et Eolo pona freno a gli altri venti, So
Euro sol temperato sia disciolto. —
Io ei'a si rivolto
Ne la mia Luna , & fiso ,
Che '1 i^arlar de le dee più non intesi.
Ma di desio la mente & gli occhi accesi 85
Seguevan lo splendor del chiaro viso ;
Che mille altre dolcezze
Disser, lodando il sol di sue bellezze.
Pianga ciascun di ciò che gli arde il core,
Che piangendo releva ogni dolore. 90
Ma poi che più mirarla io non potei
Per la distantia , homai fuor di misura ;
Et magior forza il desidei'io prese ,
Tutti eran ne la vela i sensi miei ,
Fin che la vista tenebrosa, oscura 95
tes ». Cfr. anche Mosco , 11 , 118
sgg. — 71. Felice, corr. la ER co-
me se fosse felic, ma in (ST) sta
beue. — 72. tesauro, latiu. , anche
nel Petrarca, li, u, 5; III, ix, 76.—
78. V. il vs. 14 del brano di Catullo
iun. ai vv. 65-69; e Mosco,/. e, 118;
80. Virgilio, ^n. 1, 52-54: «Hic
vasto rex Aeolus antro Luctantes
ventos tempestatesque sonoras Im-
perio premit ac vinclis et carcere
/>-e?iat ».— 80-Si. Orazio, Od. I, in,
3-4: <c Ventoruraque regat pater
Obstrictis aliis praeter lapyga ». —
91-96. Ovidio, Le, 19-22: a Ut
RIME 147
Altx'O che'l largo mar più non comprese.
Il foco , che m' accese ,
Allhor più che mai vivo ,
Come'l dirò, se '1 sentimento persi?
Ma ben so che tal doglia io non soffersi, 100
Poiché di libertade io vixi privo.
Così con lei partìo
L'alma, la gioventute e'I viver mio.
Pianga ciascun di ciò che gli arde il core,
Che piangendo releva ogni dolore. 105
Là, dove il sol s'asconde.
Gir ti conven , Canzon, per l'acque salse ;
Se pur arrivi iuanzi al mio cordoglio.
Non ti spavento il grave & duro orgoglio,
Contra'l quale humiltà mai non mi valse. no
Digli che un sol conforto
M' è rimasto, che 'n breve io sarò morto.
Già riposar devresti, ardente core,
Poiché, piangendo, più cresce '1 dolore. 114
SONETTO CXXV.
In sogno, men crudel ch'esser solea,
Mi vien colei eh' a lagrimar m'invita,
Et mi dice indignata: — Io son partita,
Et tu pur vivi: hor questo io no' '1 credea! —
te non poteram , poteram tua vela
videre, Vela diu vultus detinue-
re meos, At postquam nec te, nec
vela fugacia vidi , Et quod spe-
ctarem, nil nisi jìontus erat ». — 97-
103. Cfr. Ovidio, l. e, 23-24: « Lux
quoque tecum abiit , tenebrisque
exanguis oborlis Succiduo dicor
procubuisse meos ». — 106. Cfr.
Petrarca, I , e. iv, 4.4 : «... poi che
'l Sol s' asconde ». — La Spagna. —
108. al mio cordoglio, 'a colei
che m'addolora tanto'. — 109. duro
orgoglio. Cfr. Petrarca, I, e. xiv,
22; CLXXix, 8. — 111-112. Petrar-
ca, I, VII, 11: « Un sol conforto,
e della morte, avemo )>; II, lxxvi,
12: « Svi un conforto alle mie
pene aspetto ».
Son. CXXV. — Tit.: " Sogno "
(Salv). — I. Anche Laura vien in
sogno al Petrarca (li, lxix , 6):
« Piena si d'umiltà, vota d'orgo-
glio ». — 2. Dante, Inf. vi, 58-59:
«... il tuo affanno Mi pesa si che a
lagrimar m'invita ». — 3-4. Pe-
trarca. II, XXIV, 9 : « Ed io pur vi-
vo; onde mi doglio e sdegno », —
i 48 RIME
Io rispondo tremando: — Alma mia Dea,
No' mi vien da speranza d' altra aita ,
Ma non mi diede il ciel più breve vita,
Tanto la stella mia fu grave & rea !
Io senza voi devrei sentir la morte;
Ma negli sdegni assidua patìentia
Mi fé', contra '1 morir, un callo al core.
Né vivo io posso dirmi in questa sorte,
Che, chi sente il dolor di vostra absentia,
I Non vive, no, che di continuo more. —
14
SONETTO CXXVI.
Marchese, io mi ritrovo in mezzo al mare,
Dove ogni onda crudel nel cor mi frange ;
Amore è meco , che mi preme & ange ,
Et si pasce di mie lagrime amare.
Partita è quella che mi fé' cantare;
Hor la mia voce eternamente piange;
Hor conven che costume & vita io cange,
Et lasci il canto lieto a chi'l può fare.
Lei ne portò la lyra , il suono e '1 canto ,
Lasciandomi in lor vece angoscia & duolo ;
Di me non poi sperar altro che j)ianto.
Deh, fa cantare altrui , ch'io più non colo
5. Alma mia Dea. Cfr. Petrarca,
Tr. Ili, II, 19.— lo-ii. Cfr. Orazio,
Od. I, XXIV, 19-20: <( Durum: sed
levius fit patientia, Quidquid cor-
rigerest nefas »; ed il Petrarca,
III, XXI, 1 2 : « Ma sofferenza è nel
dolor conforto ». — 11. Petrarca,
Tt\ V, 79: « Non fate contra l
vero al core un callo ».
SoN. CXXVI. — I. Marchese.
Alfonso d'Avaios.— 4. Cfr. Petrar-
ca, II, e. VII, 59-60: «...non que-
sto tiranno, Che del mio duol si
pasce e del mio danno ». — 5. Pe-
trarca, II, XXV, 5: « Morta colei
che mi facea parlare ». — 9. Pe-
trarca , del suo cuore , dopo la
morte di Laura (II, xlii, 14; xlv.
9): (( Quella ch'ai ciel se ne porto
le chiavi », « Ella '1 se ne portò
sotterra e 'n cielo ». — io. Petrar-
ca , II , LUI , 9-10 : « E m' hai la-
sciato qui misero e solo. Tal che
pien di duol... ». — 11. Petrarca ,
II , e. VI , 34: « Ma io che debbo
altro che pianger sempre » ; e ib.,
sest., 24: « Or non parHo ne penso
altro che pianto y>. — 12. colo. Cfr.
RIME
La Musa , che ti piacque un tempo tanto :
Sol tacer m' è solazzo, e'I pianger solo.
SONETTO CXXVII.
149
Lascia del viver mio, lascia '1 governo
Al duro, illacrimabll fato, amaro.
Principe, d'arme & de vertù preclaro,
Et del fonte Dirceo liquore eterno.
Comportami che'n pianto sempiterno
Consume gli occhi, poi che'l meritaro,
Ché'l morir solo e'I pianger m'è sì caro,
Che'l suo contrario in mia salute asperno.
Come può questa voce homai piacerti ,
Se con la Ij^ra par che non s'accorde,
Né v' è più chi m' ascolte, chi m'intenda?
Le strade son per me boschi deserti ;
Et le fenestre, mute, oscure & sorde,
Mostran a gli occhi miei la morte horrenda.
14
SONETTO CXXYIII.
Marchese, del mio honor fermo custode,
Tra proceri il migliore e'I primo eletto,
Dov' è pianto m' invita , odio & dispetto ,
Et non dove Hymeneo s' allegra & gode.
Petrarca, II, lui, 11. — 14. Dante,
Purg. XIV, 124-123: «...ormi di-
letta Troppo di pianger più che di
parlare »; Petrarca , I, clxxi , 5:
« Lagrimar sempre è '1 mio som-
mo diletto ».
Son. CXXVII. — 2. illacrima-
ti. V. n. al son. LXXXIV, 6. —
3-4. Ferrandino: cfr. canz. VI,
284 n. — 4. fonte Dirceo, in Beo-
zia, pressoTebe. — 7. V. son. prec.
M. al vs. 14. — 8. asperno, latin. ,
'rifiuto'. — 12. Cfr. Petrarca, II,
XLii , 12, 14: « E cantare augel-
letti , e tiorir piagge . . . Sono un
deserto ».
Son. CXXVIII. — Ad Alfonso
d'Avalos che invitava il p. ad una
festa di nozze: quelle, forse, di
Beatrice, sua sorella, col celebre
Gian Giacomo Trivulzio (1487). —
2. proceri, latin. ' no-bili '. — il
primo eletto. Allude forse alla
1 50 RIME
Non sai tu, signor mio, che s'Araor ode.
Ch'io venga dove lui vuol dar diletto ,
Fulminarà quel foco in ciascun petto.
Che , vivo & morto , il cor sempre mi rode ? 8
lo'l veggio armato, & pien di sdegno & d'ira,
Col dardo, anchor del mio sangue cruento.
Ch'or più che mai da lunge mi martira. u
Ogniun fugga di me , che , dove il vento
Greve & mortai di miei sospiri aspira ,
Altera col veneno ogni elemento. 14
SONETTO CXXIX.
Qual ben poss' io sperar che mi conforte ,
Principe, de vertute al cielo eguale,
Se'l mio dolor non è cosa mortale,
Ma d'una eterna & infinita sorte?
Et miracol non è che non dia morte.
Che per natura è si superbo & tale,
Che si sdegna pugnar col corpo frale ,
Et combatte con 1' alma, invitta & forte.
se'l dolor de l'impia dipartita
Havesse accesi sol gli humani sensi ,
Ch'io sarei giunto al fin, tolto d'affanno!
Benché bramar la morte hor disconvensi ,
Che desiar si dèe piìi lunga vita,
Per pianger lungamente un sì gran danno.
>4
carica del D'Avalos di gran ca-
merleugo del regno. — 9. Anche
il Petrarca, - di Amore , - I . xci ,
3: « Talor armato nella fron-
te vene ». — " Amore armato
(Salv). — IO. cruènto, latin., 'in-
sanguinato '. — 12. fugga. (ST)
fuga: ma cfr. son. CVII, 6. —
" IjdestJ: fugga da me" (Salv). —
12-13 il vento... di... sospiri. Pe-
trarca, I, xm, 2 : « Con un vento
angoscioso di sospiri ».— 13. aspi-
ra, latin. , ' soffia'.
Son. CX.X:IX. — 2. Principe:
Ferrandino. — In (ST) dopo egua-
le un interrogativo, che ho trasfe-
rito in fine del vs. 4. — 7. corpo
frale. Petrarca, I, e. m, 26: a Si
gravi i corpi e frali )). — 9. l 'im-
pia dipartita. Petrarca, 1, e. 111,
5 : « Però che dopo V empia di-
partita ».
RIME
'5'
SONETTO CXXX.
Sempre eh' enbruna il dì l' aer gravato,
Et fa nel mare liorribil niovimeuto,
Procella dentro al cor si negra io sento,
Che'l sangue de timor riman gelato.
Era pur, Luna mia, nel tuo bel fato,
Che sajiessi, per vero experimento,
In qual guisa si volve il mar col vento ,
Quando Orion nel ciel si mostra armato ?
Puoi tu soffrir, si delicata & molle,
Tant' affanni col cor soiive & dolce ,
Benché fusse ver me crudel coraggio?
Ond'io priego colui che l'onde attoUe
Col vento, &, quando vuol, le tempra & molce,
Che'l mar tranquille, & guide il tuo viaggio.
14
SONETTO CXXXI.
Per qual parte del mar , per qual pendice
Move '1 vento soave il vago legno ,
Ch'a queste rive tolse il ricco pegno,
Onde fian sempre povere & mendice?
Ai, lasso!, riveder più non mi lice
Quella, che di bellezza opteune il regno.
SoN. CXXX.— I. aér gravato.
Petrarca , I , s. 111 , i : « L' aere
gravato, e rimporiuiia nebbia ». —
3. Procella... negra, " llat.| : atra
procella " (Salv). — 7-8. Cl'r. Vir-
gilio, ^n. I, 335-536: « Cura su-
bito adsurgens fluctu ninibosus 0-
rion In vada caeca tulit, penitus-
que procacibus austris ». — 8. 0-
rion... armato. Virgilio, jEn. m,
517: « Armatiimofie auro circum-
spicit Oriana)); e Petrarca, I, xxvi,
lo-ii: «...ed Orione armato Spez-
za a' tristi nocchier governi e sar-
te »: cfr. anche Virgilio, ^n. vii,
719, Orazio, Epod. x, 9, xv, 7, — •
1 1. coraggio, " i[dest| : cuore, sp.
coraQon'''' (Salv). — 12-13. Virgilio,
\jEn. ], 66|: «Et mulcere dedit
fluctus et tollere vento »: in parte
(Salv); e ib., 56-57: «... Aeolus...
moilit... animos et temperai iras ».
SoN. CXXXI. — I. Petrarca, I ,
cvni, I : « In qual parte del elei,
in quale ...)). — 4. Petrarca, Tr.
Ili , 1 , 81 : « Or son ignudi , pò-
1$2 EIME
Dov'è quella ira honesta e '1 dolce sdegno,
Che nel raartir mi fé' viver felice?
Io piango & penso & dico exanimato :
— La Luna mia di stelle un altro choro
Offusca, & altro cielo hor fa beato.
Et forse dice: si per suo ristoro
Fusse con noi hor quello sconsolato ! —
Et in questo respiro inseme & moro.
14
CANZONE XTI.
Quando ritorna a la memoria ardente
L'imagin di quel giorno oscuro & rio,
Che fu r extremo fin del viver mio ,
Partendosi il mio sol verso occidente ;
Son le virtù vitali allhor si spente,
Che già per lagrimar non dà vigore
A gli occhi il debil core;
Son per soverchio ardor chiuse le vie
De le lagrime mie:
Tra li segni mortali egli è ^1 più forte , 1
Non posser pianger l' huom la propria morte.
Non sento il ghiaccio, no, del dolce orgoglio,
Che, liquefatto dal continuo foco,
veri e mendiciy), — 9. exanìma-
to, latin., ' scoraggiato '. — 9-14.
Petrarca, I, e. xm, 57-65: «...e 'ri-
tanto lagrimando sfogo Di do-
lorosa nebbia il cor condenso, Al-
lor eh' i' miro e penso. Quanta aria
dal bel viso mi diparte, Che sem-
pre m'è si presso e si lontano. Po-
scia fra me pian piano : Che fai tu
lasso? forse in quella parte Or di
tua lontananza si sospira: Ed in
questo pensier l'alma respira ».
— 10-11. Cfr. Sannazaro, Are, p.
88: « Altri monti, altri piani,
Altri boschetti & rivi Vedi...». —
13. Petrarca, I, lxxxix, 17 : « Ver-
resti in grembo a questo sconso-
lato ».
Canz. XII. — Inviata al marche-
se di Pescara: cfr. il vs. 67. —
Tit.: " Lamento della partenza
della S[ual D[onna] " (Salv). —
I. Cfr. Ovidio, Trist.l, ni, 1-4:
« Cum subit illius tristissima no-
ctis imago. Qua mihi supremum
tempus in Urbe fuit, Cum repeto
noctem , qua tot mihi cara reli-
qui, Labitnr ex oculis nunc quoque
gutta meÌ3 » : il primo vs. sola-
mente (M-C).— 10. segni,' indizii,
caratteristiche " ; o dallo spagn.
lilMK
Si trausformava in pianto a poco a poco ;
Ma più che non solea , lasso!, mi doglio.
Vo sospirando d' uno in altro scoglio ,
Ove si sente il mar rotto dal vento,
(Conforme al mio lamento.
Ivi prendo solazzo in sì gran duolo
Di lamentarmi solo ;
Et più m'afHigo, che possa soffrire
Di mali il raagior mal senza morire.
Dov' è chi de hellezza &■ pudicitia
A le altre , & di candor tolse la palma ?
A me la lihertà, la vita & l'alma?
A Napoli ogni gioia, ogni letitia?
Empierò i monti & valli di mestitia
Le Nymphe , eguali a lei non di beltade ,
Ma di fiorente etade;
Et, di-sciogliendosi le treccie bionde.
Più salse & magior Y onde
Fér lagrimando, ond' io m' avidi allhoi'a
Che gì' immortali dei piaugon anchora.
Ella seguio volando il suo camino;
E '1 clamor de le misere sorelle
Penetrò l' aureo tempio de le stelle ;
Le stelle, a cui rincrebbe il lor destino.
Pianse Yesevo e '1 bel fiume vicino;
'53
35
30
33
signo ' sorte, destino '? — 16-18.
Petrarca, I, xliii, 1-2: « Del mar
tirreno alla sinistra riva, Dove
rotte dal vento piangon V on-
de ». — 21. 'E più m' affliggo pen-
sando come possa ecc.' — 23. In
(ST) dopo pudicitia un interro-
gativo, che ho tolto. — 23-24. Cfr.
Petrarca, II, xxxi. — 25-26. V.
in n. alla canz. XI, 26-27 un bra-
no del Petrarca, qui tenuto pre-
sente. — 27-33. Da Virgilio, Georg.
IV, 460-461 : « At chorus aequalis
dryadum clamore supremos Ini-
plerunt montis ».— 34-33- Da Vir-
gilio, ^n. n, 486-488 : « At domus
interior geraitu miseroque tumultu
Miscetur, penitusque cavae plan-
goribus aedes Femineis ululant;
ferit aurea sidera clamor ». — 38-
40. Da Virgilio, Georg, iv , 461-
4Ó3: (i.../?erM?if Rhodopeiae arces
Altaque Pangaea et Rhesi Mavor-
tia tellus Atque Getae atque He-
brus et Actias Orithyia». Cfr. an-
che Virgilio, Ed. V, 20 sgg.. Mo-
sco, III, 28 sgg., Bione, i, 32 sgg.,
Petrarca, III, xii, i sgg., Poliziano,
OrfeOyW, 158-160, Sannazaro, /4r'c.,
p. 90.— 38. '1 b. fìume vicino : ' il
1^4 RIME
Pianse '1 lito Baiano & l'acque amene,
Et le sulfuree vene, 40
Et quel dolce Baguiuol, che si rimembra
De le divine membra,
Disse plorando : — Hor non vedrò più quella ,
Ch'io vidi igniuda, sola al mondo bella! —
me infelice I , & io , che più perdei , 43
Pur vivo & taccio, essendo a tal condutto,
Che celar mi bisogna un tanto lutto ,
Io, che degli altri più pianger devrei;
Io, che no' spero più che gli occhi miei
Vedan quel chiaro & non mortale aspetto, 30
Quel bel tenero petto.
Candido latte & non calcata neve.
Che , s' un momento breve
Spera il voler, ragion paventa & teme;
Et vinta dal timor cade la speme. 55
No' spero più vedervi, o luci sante.
Che splendeti in quel volto intatto & sacro,
Di cui lo vivo & proprio simulacro
Hora non è che non mi sia davante ;
Ma sempre il mio voler sarà constante; 60
Et quel vostro splendore, al sole eguale,
Per sé fatto immortale ,
Sempre sarà da me più celebrato.
Et , se '1 tenace fato
Non è continuo in noi, qual hor sì mostra, 63
Sarà più chiara anchor la gloria vostra.
Al mio Marchese invitto
sole»; e cvii, 9-10: ((...quelle
Gli' i' vidi , eran bellezze al mon-
do sole ». — 46. V. in n. al son.
CXXV, 3-4 , un vs. del Petrarca,
qui imitato. — 50. Cfr. canz. X, 92
e n. — 51-52. Cfi'. canz. X, 90 e n. —
55. Da Ovidio, Epùt. xni , 124:
« Spes bona sollicito vieta timore
cadit ». — 67. Marchese , Alfouso
d'Avalos.
Sebeto '.— 39. Cfr. son. LXXII, 3
e n. — 41. Bagniuol, bagno di ;i-
cque termali , ancor oggi detto
' Bagnoli ', sulla spiaggia di Poz-
zuoli: V la n. al son. LXXII, 10. —
41-42. Petrarca, I, e. xi, 1-2, 5:
a. ..dolci acque, Ove le belle metn-
bra Pose... Con sosjiir mt rimem-
bra ». — 44. Cfr. Petrarca , I , cv,
2 : « E celesti bellezze al mondo
RIME
iSS
Ti mosti'arai , Canzon, senza paura;
Con lui parla secura.
Se spiasse di me , digli che vivo ;
S'un hiiom , che sempre muor, si può dir vivo, ji
SONETTO GXXXII.
Dicemi spesso Amore: — Hor non ti piace,
Poiché la sorte tua, tanto imjiortuna,
Ne fé' partir volando la tua Luna.
Che non t'habbia giamai concessa pace ? — 4
— Non so qual fu migliore, impio, fallace, —
Io dico, — ma so ben , che mia fortuna
Mi fé' servirti in vano, & pena alcuna.
Quanto sol questo mal, non mi disjDiace. — 8
Risponde: — Hor drizza i tuoi pensieri altrove,
Et condurroti al fin del tuo desio;
Che'n quella Luna io mai non hebbi imperio. — n
— Il tuo blandir, — dico io, — non me commove.
Che senza il core amar più non poss' io !
Tu sai chi ne '1 portò col desiderio. — 14
SOÌNETTO GXXXIII.
Spirto congiunto a la divina mente ,
Nudrito in quel perenne, Aonio rivo,
Di me, che son d'ogni speranza privo.
Di me dicesti : — Sol , misero, absente ! —
Lo misero son io veracemente.
In falsa libertà vero captivo,
Misero tanto più, quanto più vivo,
Son. CXXXII. — i. Ctr. Petrar-
ca, 11, Lsxxi, 1: « Dicemi spesso
il mio fidato speglio ». — 14. An-
che il Petrarca, - del suo cuore,
morta Laura, - H, xlii, 1 i : « Quel-
la ch'ai Ciel se ne portò le chia-
vi»; e XLV , 9: «Ella 'l se ne
portò sotterra e 'n cielo ».
Son. CXXXIII. — Pare diretto
a Costanza d'Avalos: cfr. il vs. 2
col son. XCVIII , 1-2. — 4. absea-
156 RIME
Non colei ch'innamora hor l'occidente. 8
Ch'ai tempo che la notte oscura tace,
Mi dice Amor: — Proserpina contenta
Col suo Pluton si gode in lieta pace. — n
Con altro foco poi arder mi tenta :
Non ventilasse lui l'antiqua face,
Che nova fiamma più non mi sj)aventa. 14
SONETTO CXXXIY.
Ben fu senza pietà quella alma ria ,
Queir alma iniqua , a Napol sì dannosa ,
Che la fé' negra , oscura & tenebrosa ,
Furando la sua luce, anzi la mia. 4
invidia pungente , gelosia ,
Di te stessa vendetta venenosa,
Per te la morte sento io più dogliosa,
Et veggio al fin del duol chiusa la via. s
Col mar, col vento &■ con la nebbia oscura
Combatto, & piango & chiamo chi non ode,
Et, per cui temo, forse è già secura. n
Quest'è '1 pensier che sempre il cor mi rode,
Sì come'l mar lo scoglio. vita dura!
Quella, per cui m'attristo, hor forse gode. J4
SONETTO CXXXV.
Poi che partìo la mia dolce nemica.
te, latin. , ' lontano '. — io. Pro-
serpina. "La sua Luna maritala "'
(Salv): cfi". anche sest. V, 6 e n. —
12. Petrarca, - di un suo nuovo a-
more, dopo la morte di Laura, - II,
in, 7: « E di nov' esca un altro
foco acceso «. — 13. Properzio, V,
III, 30; aHanc Venus, ut. vivat, ven-
tilai ipsa facem ». — 13-14- Cfr.
Petrarca, II, e. n, 102-104: « Certo
man nuove lerute. Indarno tendi
l'arco, a voto scocchi ».
Sox. CXXXIV.— 1-4. 'Colui che
sposando la Luna, la tolse a Na-
poli, conducendola in Ispagna \ —
5. Cfr. Petrarca, I, clxvhi, 7: « La
qual ne toglie invidia e gelosia ».
— II. 'E quella ecc. '.
SoN. CXXXV. — Tit.: " Partita
la S[ua] D[onnaJ non si vuole in-
omai non tem'io, Amor, della tua | namorare d'alcun'altra " (Salv)
RIME 15;
— Non dal mio cor, — non temo d'altro ardore,
Con lei ne portò '1 vento il mio furore .
Et la mia prima & ultima fatica.
Cosi'! credate , benché altro si dica.
Voi, donne d'honestà. pregio & valore;
Che se vedete in me segni d'amore.
Reliquie son de la mia fiamma antica.
Dove poss' io veder tanta bellezza ,
Senza difetto chiara <t luminosa,
Al vostro anchor, non solo al veder mioi'
Scender non potrà mai l'alto desio.
Che l'anima, al celeste lume avezza ,
Non sa , né può mirar terrena cosa.
14
SONETTO CXXXVI.
Se'n alcun tempo Amore il sacro petto
De le beate Muse havesse accenso.
Tu, diva, tu sapresti l'odio intenso.
Che suol venir da tema & da sospetto.
Conoscer puoi col chiaro, almo intelletto
Quanto può gelosia, ma non col senso;
Però che quanto imaginando io penso ,
Altro no' '1 può sentir che l' imperfetto.
Ond' io ti dissi il danno , che desio
Per quella, che conven ch'amando adore ,
I. Petrarca, I, e. viii, 29: «.. del-
la dolce mia nemica » ecc. ecc. —
3. Cfr. Petrarca, IL 1, i + : « Ma
7 vento ne portava le parole »;
e LVii, 8: « Quante speranze se ne
porta il vento ». — 4. fatica , la-
tin, (labor). 'dolore ': cfr. il bra-
no di Virgilio in n. al son. CXXU,
13-14. — 7-8. Virgilio, uE'i. IV, 23:
«... veteris vestigia flanimae « ;
Dante, Pi'vg. xxx, 48: «... i segni
dell'antica fiamma ».— g-ii. Pe-
trarca, II, cxc, 3-4: « Ch'è sola un
Sol, non pur agli occhi miei Ma
al mondo cieco , che vertù non
cura ».
Son. CXXXVI. — Lo credo an-
che diretto a Costanza d'Avalos:
cfr. son. XCVIII, n. — 2. accenso,
latin., ' acceso '.—8. l'imperfetto,
'chi non è perfetto", cioè il p. :
cfr. Petrarca. I, e. vii, 32-34: «E
credo, dalle fasce e dalla culla Al
mio imperfetto , alla fortuna av-
versa Questo rimedio provvedesse
il Cielo»: dai Psalmi, cxxxviii, 16:
I 58 RIME
Vedendola confusa in cieco oblio. n
Hor vedi quanto può l'irapio livore ,
Qual era, ai lasso!, & quale è'I pensier mio,
Che 'n tanto odio converta un tanto amore. 14.
SONETTO CXXXVII.
Somno , d' ogni pensier placido oblio ,
St de gli affanni human tranquilla pace ,
Perché fuggir di me tanto ti piace;
Vien da ragione , o vien dal furor mio ? 4
Lasso ! , che del mio cor fiamma son io ,
Ch' ardendo ne l' ardor son più vivace ;
Et del vegghiar cagione è l'impia face,
Accesa dal superbo , alto desio. g
forse il somno vuol da me fuggire ,
Temendo il foco mio, verace inferno.
Ch'arde & tormenta & non può far morire. n
Amor tu '1 fai; che chi sotto '1 governo
Vive del regno tuo, non può dormire,
Né riposar, se non col somno eterno. 14
SONETTO CXXXVllI.
Hor che '1 sileutio de la notte ombrosa
Gli homini & gli animali al somno invita,
Hor che gli augelli, in più secura vita,
Eiposan ne l'humil casa, frondosa; 4
« Imperfectmn meam vidernnt o-
culi tui >).— II. confusa in e. 0.
'Immersa nelTonile letee (oblio)' —
Son. CXXXVII. — Tit. : " Al
Sonno" (Salv). — 1-2 Cfr. San-
nazaro, s. LI, 1-2: <i sonno o re-
quie, e tregua degli affanni. Che
acqueti e plachi i miseri mortali » ; I dentia sidera somnos ». — 3-4.
e Della Casa, s. l, 1-3 : « Son- 1 Virgilio , uEn. viii , 26-27: « Nox
r?o, o della queta, umida, owjòrosa erat, et... alituum... genus sopor
Notre pìncìdo figlio, de* mortali
Egri conforto, oblio dolce de' ma-
li ». —
Son. CXXXVIII. — " Notte in-
quieta " (Salv) — 1-2. Virgilio.
yEn. I, 8-9 : « El iam nox humida
caelo Praecipitat suadentque ca-
RIMK
A me, lasso!, quest' liora è più noiosa.
Che , sentendo d' amor la fiamma , unita
Col morir de la dura departita
La vita piango , sola & dolorosa ;
Qual roscigniuol sotto populea fronde
Piange i suoi figli, che'l duro aratore
Gli ha tolti , insidiando al caro nido ,
Lui repetendo il raiserabil grido ,
Chiama la notte & nullo gli risponde ,
Empiendo i boschi e'I ciel del suo clamore.
SONETTO CXXXIX.
'59
Diva, antiquo splendor del primo cielo,
Liquida più che mai , più relucente ,
Tempra l' ardor de l' infiammata mente ,
Col notturno, soiive & dolce gelo.
Forse però ne vai senza alcun velo,
Che '1 proprio specchio hor vedi in occidente ;
Miralo auchor dentro '1 mio petto ardente ,
Ch'a te, che tutto vedi, io già no' '1 celo.
Contempla & mira ben l'alma figura,
Quegli occhi, che di mente mi privaro,
Et quella fronte in nulla parte oscura.
Vedi il solido petto, & bianco & chiaro:
allus habebat ». — 5. Cfr. Pe-
trarca, I, IV, 12-14: « Ma, lasso,
ogni dolor che '1 di m' adduce,
Cresce qnalor s'invia Per partirsi
da noi l'eterna luce». — 7. Pe-
trarca , I , cxcvi ,11: «... dura
dipartita ». — 9-14- Da Virgilio ,
Georg, iv, 311-513: « Qualis po-
pulea maerens philomela sub um-
bra Amissos quetitur fetus, qttos
durus arator Observans >ndu in-
plamis detraxit; at illa Flet no-
ctem, ramoque sedens miserabile
Carmen Integrai , et maestis late
loca questibus itnplet ». E il Pe-
trarca, II, xLiii, 1-6: «Quel rosi-
gnuol che si soave piagne Forse
suoi figli o sua cara consorte. Di
dolcezza empie il cielo e le cam-
pagne Con tante note si pietose e
scorte; E tutta notte par che m'ac-
compagne E mi rammente la mia
dura sorte ».
SoN. CXXXIX. — Tit.: " Alla
Luna ". — 1-2. Cfr. Orazio, Carm.
saec. , 1-2: « Phoebe silvarumque
potens Diana, Lucidum caeli de-
cus ». — 2. liquida, latin., ' pura,
i6o
RIME
Così bella saresti & così pura ,
S' havessi più del denso <^. men del raro.
14
SONETTO CXL.
A quei, che '1 ciel per sé creiir si suole,
Dà con fatica eterno movimento :
Il valor, la vertute & V ardimento,
Mentre vive tra noi, sempre si duole.
Non have il ciel più bel lume che '1 sole,
Et tu posar no' '1 vedi bora momento:
Non si hebbe gloria mai senza tormento ,
L'inferno spoglie pria, chi 'n cielo ir vuole.
Quant' è felice più quella ventura ,
Che co' r affanno dà chiara memoria ,
Che r altra che dà posa in fama oscui-a.
Aspetto centra morte eterna historia
Colui, che suffre, mentre al mondo dura:
Eterno danno per eterna gloria.
14
SONETTO CXLI.
Degno di triomj)hale , altiero seggio,
Di trophei carco & pien di spoglie opime.
Dal tuo Marchese aspetta altiere rime.
Me lascia lamentar, ch'altro non cheggio.
Quanto mutato, ai misero!, mi veggio.
Da quel che fui ne le speranze prime !
Allhora andava il mio pensier sublime,
AUhor meglio sperava, hor temo il peggio.
serena '. — 14. denso & . . . raro.
Anche della luna Dante, Farad,
II, 39-60: «...Ciò che n'appar quas-
sù diverso , Credo che il fanno i
corpi rari e densi »; cfr. anche ib.,
67, 146.
SoN. CXL. — 8. Cfr. Orazio, Od.
I, III, 36: « PeiTupit Acheronla
Herculeus labor ».
SoN. CXLI. — Forse a Ferran-
dino, che gli richiedeva dei versi
non amorosi ( cfr. vs. 3 ). — 3.
Marchese. Alfonso d'Avalos: v.
Introd. — 4 Petrarca, I, e. xiii,
39: «... altro non cheggio ». — 3-
6. Virgilio, ^n. n, 274-275: « Hei
BIME lOl
Credeva allhor di stato glorioso
Goder per guidardon seuz' altra noia,
Et dar i:»iù lieto fine a la mia historia. 1 1
Lasso!, lior ricovro affanno per riposo,
Continua pena per continua gioia,
Eterno danno per eterna gloria ! 14
SONETTO CXLII.
Vago, salubre, estivo & grato vento,
Che da 1' occaso hor vien per colorire
I prati, & fai li miei pensier fiorire,
Ond' io cordoglio & refrigerio sento ; 4
A r amoroso & dolce movimento
Par che la Luna mia da lunge aspire
Quella ambrosia soave, ov'io morire
Già desiai , de viver me n' contento. 8
Favonio , che con chiari & lieti giorni
L'oscure notti mie vai rinovando,
E '1 ciel di gioia & me di doglia adorni ; 1 1
Ricordati, ti priego, al tempo , quando.
Mutato in Euro , al bel luogo ritorni ,
De riportarne i miei sospir volando. 14
SONETTO CXLIIl.
Con lieta fronte Amor dal clima Hesperio ,
Per riuovar le fiamme al gran desio.
Ch'io non desperi anchor, m'accenna, ond' io
Nel foco sento quasi un refrigerio. 4
mihi qualis erat , quantum niu-
tatiis ab ilio... qui )). — 14. E ripe-
tizione del vs. 14 del son. preced.
SoN. CXLII. — 1-3. Cfr. Petrar-
ca, II, xLii, I, 5: « Zefiro torna, e
'1 bel tempo rimena... Ridono i
prati ». — aspire , latin. , ' aliti ,
spiri '; cfr. anche canz. Vili, 6. —
9. Favonio , o zeffiro , ' vento di
occidente '. — 9-10. Cfr. Petrarca,
n, xxiu , 12: (i Le mie notti fa
triste e i giorni oscuri ». — 13.
Euro, ' vento d'oriente '.
SoN. CXLIIl.— I. clima He-
sperio, ' regione occidentale', cioè
l62 RIME
Ai , pleiade ! , ai , dolore ! , ai , desiderio ! ,
Sarà giamai, ch'io, nanzi al morir mio ,
Riveggia il volto , in cui natura & Dio
Degno di lor mostraro il magisterio? s
Ch'Amor sia Dio , la terra e i cieli il sanno ,
Cosi si canta per antiqua usanza;
Io '1 credo: che 'n li dei non cape inganno. u
Ai, mente, errante in vana desianza,
Non ti fidar de lui, che quel tyranno,
Per non perderti, anchor ti dà speranza! 14.
SONETTO CXLIV.
Tra lieta gente io sol sospiro & ploro ,
Mischiando il pianto mio con l'altrui riso,
Vedendomi di lei tanto diviso.
Che sola di miei danni era ristoro. 4
Ai me , lucida fronte ! , ai , chiome d' oi'o ! ,
Ai, mane!, ai, chiaro petto!, ai, roseo viso!,
Per cui Napol fu prima un Paradiso;
So che più non vedrovi, & pur non moro ^ s
Donne soavi, & voi, honesti amanti,
Non vogliate mischiar vostro bel fato
Con r impietà di mia crudel fortuna. 1 1
Sapiatevi goder del lieto stato,
Continuando i balli e i dolci canti;
Me lasciate lagnar per la mia Luna. 14
CANZONE XIII.
Poiché sì breve, irre2>arabil tempo,
' la Spagna'. — 7-8. CtV. Petrar- i II, 1, i, sgg.: « Oimè il bel viso,
ca, I, cxc, 1-2: « Chi vuol veder ! oimè il soave sguardo ecc.». —
quantunque può Natura E '1 Ciel
Ira noi, venga a mirar costei ». —
14 (ST) spezayiza.
SoN. CXLIV. — 3 Petrarca, 7V.
II, 57: «E per non esser più da
lei diviso)}. — 5-6. Cfr. Petrarca,
7. CtV. Petrarca, II, xxiv, 7: « Che
solean far in terra vn paradi-
so ». — 13. canti. (ST) eanti, con-,
in ER.
Canz. XIII. — Diretta ad .alfon-
so d'Avalos (cfr. vs. 14), per la
RIME
163
Sì certo &: dubbio fine ,
Diede natura a nostra fragil vita,
Poiché , facendo morte aspre rapine ,
Qual tardo & qual per tempo,
Ogniuno arriva a l'ultima partita;
Alza la mente ardita
Al celeste valore, ond'ella prese
Origine, & vedrai, che 'n cosa humana
Ogni speranza è vana ;
Et sol da morte son 1' alme difese.
Magnanimo marchese ,
Se la più bella parte
Di quella, che tu piangi, eterna vive,
Ad che tanto attristarte?
Non sai che gode in ciel tra l'altre dive ?
Xon , (come alcun si crede ,) può chiamarsi
15
morte della madre, Antonella d'A-
quino. Poiché essa era tuttora viva
ai 3 di gennaio del 1491. quando
donava ai figliuolo Inico, Vairauo e
Presenzano (v. L. Geremia , Vai-
rano, p. 12, e Sigilli della Somm. ,
p. 13 r), ed era già morta al 13
marzo 149+ (Privil. della Somm.
voi. xxxu, p. 23 i".); dovette mo-
rire tra il gennaio '91 ed il marzo
■94.; ma probabilmente durante il
'93, se è vero che nei vv. 113-
119 , come abbiamo osservato a
suo luogo , si accenni ad un av-
venimento di queir anno. — Tit. :
" Consolatoria ad un Marchese
per la morte della madre di ca-
sa d" Aquino " (Salv). — i. Cfr.
Petrarca, I, e. vi, i: « Perchè la
vita è hì^eve ». — 1-3 Da Virgi-
lio, ^En. X, 467-468: tt Stat sua
cuique dies, breve et inrepm^a-
bile tempiis Omnibus est vitae «;
e Georg, ni, 284: «... inreparabile
teìnpì(sy>. — 4-5. Ovidio, Met. x.
32-34: « Omnia debentur vobis ,
paulumque morati Serivs av.t ci-
tius sedem properamus ad unam
Tendimus huc omnes»; Orazio,
Od. II, in, 23-27 : « Omnes eodem
cogimur , omnium Versatur urna
.terÌHs ocius Sors exitura ». — 5.
Cfr. Petrarca, Tr. Ili, n, 188: « Son
per tardi seguirvi, o se per tem-
po »; I, CLiii, 14: « Ella più tardi,
ovver io più per tempo ». — 6, Pe-
trarca, I, xxxvi, 13: <• Ch(! innan-
zi ai di de\['i(lti))ìa partita ». —
10. Cfr. Petrarca, I, 1, 6: « Fra le
vane speranze. ..^ì\ Tr. Ili, i, 129:
« umane speranze cieche e fal-
se ». — II. alme. (ST) ahue, corr.
in ER. — 12. Alfonso dAvalos. E
cosi anche il Sannazaro nella Vi-
sione per la morte di lui, vs. 57:
« Magnanimo gentil , mio gran
Marchese ». — 13. L'anima. — 14.
Antonella d' Aquino , figliuola di
Beiardo , marchese di Pescara e
conte di Loreto e di Satinano ecc. ,
e di Beatrice Gaetano , sorella del
conte di Fondi, sposò Inico d'.Ava-
los. gran camerlengo; il quale, poi,
per la morte del cognato, France-
sco Antonio d'Aquino (1478), ere-
ditò, oltre il marchesato ed i con-
164 RIME
Intento la morte,
Ma d'una in altra vita un commigrare;
Un salir d'una bassa in alta sorte;
Un dolce liberarsi
D'atra pregion, a l'anime preclare.
Dunque, se chiaro appare,
( Se '1 gran dolor non è cagion d' oblio ,)
Che r operatVon caste & leggiadre
De la tua santa madre
L' han riportata in cielo ond'ella uscio,
Lascia '1 flebil desio;
Et con allegri accenti
Attendi a celebrar la sua memoria ;
Che, se più ti lamenti,
Parrà eh' envidia porti a la sua gloria.
Pensa com'ella admira hor l'aurei lumi
Et la siderea sede,
Tra quei che son di sacrificio degni;
Et come sotto i piedi il mondo vede
Et li correnti fiumi ,
La terra e '1 mare e i perituri regni.
Vede i suoi cari pegni ,
Il suo candido parto, il proprio lionore.
De vertute & bellezza un sacro tempio.
Del ben divino exemj)lo.
25
30
35
tadi, anche il cognome dei D'A-
quino. — 18. Interito, latin., ' di-
struzione'. — 21-22. Dal Petrar-
ca, Tr. Ili, II, 34-35 : « La morte è
fin d'una 'prigione oscura Agli a-
nimi gentili ». — 25. leggiadre.
Petrarca, Tr. IV, m . 56: «...e
loro opre leggiadre »; Dante, Pur-
gai. XI, 61-62: «L'antico sangue
e l'opere leggiadre De' miei mag-
gior ». — 27. Petrarca, II, xxvii, 1 1 :
« Che tosto è ritornata ond'ella
uscio ». — 28. Cfr. Orazio, Od. II, ix,
9-10, 17-18: «Tu semper urguesfle-
bilibus modis Mysten ademptum,
...Desine mollium Tandem querel-
larum ». — 33-38. Da Virgilio, Ed.
V, 56-57: « Candidus insuetum
niiratur jimen Oiympi iìuh pedi-
busqne videt nubes et sidera Da-
phnis » ; Petrarca, III, xxx, 5-6:
« Or i^edi inseme l'uno e l'altro
polo Le stelle vaghe »; e il San-
nazaro, Are. , p. 88: a Ove con la
tua stella Ti godi inseme accolta;
Et lieta ivi, schernendo i pensier
nostri, Quasi un bel sol ti mostri
Tra li pili chiari spirti, Et co i ve-
stigli santi Calchi le stelle erran-
ti ». — 38. perituri regni. Vir-
RIM£
Vede in Vittoria sua non mon fulgore,
Che nel celeste ardore;
Onde tacitamente
Di gioia s'empie il cor; ma non del tutto,
Che vede la sua gente
In pianto & in meror funebre & lutto.
A r anime due vie dal ciel son date ,
Quando di corpi humani
Soglion partir col naturale affanno:
Quelle , che nei mortali error mondani
Si son contaminate ,
Per un devio camino errando vanno.
Et segregate stanno
Da dio , per quelle valli oscure & nere ;
Da' dei privatìon del bene eterno,
Da noi chiamate inferno.
165
45
50
55
gilio , Georg, u, 49S: u Noa res
Romanae pevituraqv.e regna ».
— 43. Vittoria sua. Non può es-
sere Vittoria Colonna, perché es-
sa solo dopo il 1495 , di tre an-
ni ajipena (nata nel 1492: cfr.
Giorn. stor. xiu , 402), fu fidan-
zata a Ferrante Francesco , pri-
mogenito di Alfonso d' Avalos ,
poteva esser considerata come ap-
partenente a questa famiglia; e
non già tra il 1491 ed il 1494,
quando Antonella mori, e quan-
do questa parentela fra le due fa-
miglie , favorita , come si sa , da
Ferrandino, non poteva ancora es-
ser stata nemmeno progettata, tro-
vandosi allora Fabrizio Colonna
tra i nemici degli Aragonesi. Io
credo, invece, che qui Antonella
per Vittoria sua intenda la sua fi-
gliuola Costanza: vera gloria del-
la famiglia, e perché imparentata
coi Del Balzo e con don Federi-
go, e perché tra le più celebri e
cólte dame del rinascimento; e
quindi carissima alla madre. E che
essa infatti dovesse avere per suo
secondo nome Vittoria , lo mo-
stra il vs. Il del Cantico per la
morte del fratello Inico, in cui il
n. , rivolgendosi proprio a lei , la
chiama : « Vittoria, alma duches-
sa , anzi regina»: e lo potrebbe
anche confermare un altro vs. del
son. CXII, anche in lode di Co-
stanza : « A cui vittoria Amor
vinto s'inclina »; dove il suo se-
condo nome sarebbe rappresenta-
to dal sostantivo , da cui era de-
rivato, proprio come altrove (son.
CXI , I e ìì.) il suo primo nome
dal sost. constantia. — 48. me-
ror, latin. , ' afflizione '. — 49-64.
Imita Virgilio, JEn. vi, 540-543:
« Hic locus est , partis ubi se
via tindit in ambas: Desterà quae
Ditis magni sub moenia tendit ,
Hac iter Elysiura nobis; at lae-
va malorum Exercet poenas et ad
impia Tartara mittit ». — 49. Cfr.
«JiTTat ).v;?si; twv ■^u;/&)y (Salv). —
54. devio, latin., 'fuori di ma-
no'. — 57-58. " Lingua dei dei:
lingua degli uomini : Omero "
(Salv). E infatti una locuzione co-
munissima ad Omevo, Iliad. xx, 74:
°0v iàvSov v.'/.'t.iojfSi ^tot , a-J^rjtq
oì 2y.«pi'5cvo|Jov : cfr. anche ib., 1 ,
l66 RIME
Ma quelle che, affrenando il mal volere,
Castissime & intere 60
Si son servate & pure.
Senza contagion del vii terreno ,
Per ampie vie, secure
Han felice il ritorno al ciel sereno.
Qual più syncera & pia, qual più pudica, 65
Qual più tranquilla & lieta,
Qual i^iù benegna, humìl visse di lei?
Qual morio più secura, più quieta,
A cui senza fatica
Fusse aperta la via per gli alti dei? 70
Dunque allegrar ti dei ,
Marchese, signor mio, fuggendo il pianto:
Pensa che '1 dì del tuo funereo velo
Fu fausto & lieto in cielo.
Era a veder quell' Aquinate santo 75
Lasciar lo studio alquanto,
Per recever la Dea ,
De l'antiquo, gentil sangue d'Aquino,
Che bella intrar vedea
Nel ciel , per vertù proj^ria & per destino. 80
Hor è contenta piii, (se dir: più, lice,)
Quell'anima beata,
Miglior di cui giamai non vide il sole:
Hippolyta Maria, di dei prognata
Et di Dei genitrice, 85
La quale il cielo honora e '1 mondo cole,
Hor con dolci jiarole
403, XIV, 291. — 73. funereo velo, [polita Maria Sforza, figlia di
"del bruno" (Salv). — 75. quell'. i Francesco, duca di Milano, e mo-
(ST)gjteZ.— Aquinate santo."San ! glie di Alfonso, duca di Calabria,
\^-*/:z — ' '"1 — "
Tommaso d'Aquino" (Salv). Nato
nel 1227 a Roccasecca, pi-esso Cas-
sino, da Landolfo, conte d'Aquino,
e signore di Belcastro e di Loreto,
e da Teodora de' Caraccioli , era
antenato di Antonella. — 84.. Hip-
era morta il 19 agosto 1488 ( v.
Passaro, p. 52).— "prognata, la-
tin. , ' discendente '. — 84-S3. ' Fi-
glia di sforzeschi e madre di prìn-
cipi aragonesi '. Ferrandino , I-
sabella , che sposò Gian Galeazzo,
RIME
167
Rinovaa lor pensier gravi & sottili ,
Pien d' honestade , & 1' una a l'altra ancora,
Come qua giù, sì honora 90
Con quei soiivi gesti & volti humìli ,
Con quegli atti gentili,
Degni d' excelso imperio ,
Fruendo eterna vita d*. gloriosa
Senza alcun desiderio; 95
Che nel cielo presente hanno ogni cosa.
gloria, o vivo honore , nova luce
Di chiara pudicitia,
Giunta con lo splendor del ciel profondo ,
Ciascuna di voi sia sempre propitia , joo
Et ferma & iida duce
A cui riman di voi nel labil mondo ;
Et con volto giocondo
Placate quella irata mia fortuna,
Che nel mio danno ognihora è più tenace, 105
Ch' ornai conceda pace
A l'alma, ch'arde anchor per l'irapia Luna
Senza speranza alcuna!
Che, qual turbo volgendo,
Da fanciulli battuto, corre in giro, no
Tal, lasso!, io vo furendo,
Et mi rivolgo in fiamme, & fiamme aspiro.
Se '1 mondo è già pacato
Dimostra, Caiizon mia, quant'io descrivo
duca di Milano (1488), e don Pie-
tro , erano figli suoi. — 109-112.
Da Virgilio, ^En. vii, 379-383:
«Tuiu vero inl'elix, ingentibus esci-
la monslris, Immensum sine more
fu7'it lymphata per urfjem. Ceu
quondam torto volitans sub ver-
bere tuì-bo,Q.\x^m pueì-i magno in
gyro vacua atria circiim Intenti
ludo exercent (ille actus habena
Curvatis fertur spatiis; stupel in-
scia supra Inpubesque manus, mi-
rata volubile buxum; Dant animos
plagae)»: cfr. Dante, Pa>'. xviii ,
41-42. È Tibullo, I, V, 3-4: K Nam-
que agor , ut per plana citus sola
verbere tuvben , Quem celer ad-
sueta versat ab arte puer». — 113.
pacato, latin., ' pacificato '— 113-
j 16. Nel giugno del 1493 Ferran-
te I, per far fronte all'ai l>^anza for-
matasi tra il papa, il Moro e Ve-
nezia , mandava negli Abruzzi il
duca di Calabria ed il principe di
1,68 RIME
A quel , di cui la fama homai si spande
Preclara, excelsa & grande.
Ma se '1 furor di Marte anchora è vivo ,
Fuggi dal ferreo Divo,
Che '1 nostro canto humìle ,
Tra r ai'me e '1 suon de la Mavortia tromba ,
Non men suol esser vile,
Che tra falcon la candida colomba.
•'5
CANZONE XIV.
Si quello ardor pungente
Di credula speranza
Non desse nutrimento al desiderio,
Forse quest'alma ardente,
Nel viver, che gli avanza.
Soggetta non sarebbe al duro imperio.
aura, o refrigerio
Del vivo incendio mio,
Non fingo , egli è pur vero ! ,
Ch' anchor vederti spero ;
Ma questo suol venir dal gran desio:
Che 'I miser sempre suole
Creder ciò, che pili vole.
Capua, pronti a qualunque avve-
nimento. Alfonso d'Avalos dovette
seguir certamente il suo signore,
Ferrandino ( v. Cipolla, St. delle
sign. Ual., p. 677 sgg ). A questo
continuo timore di una prossima
guerra, che non ebbe poi sègui-
to . pare che qui accenni il Ga-
reth. — 120 Dante, Inf. vi, 93:
« Di qua dal suon deli' angelica
tromba ». — 119-122. Da Vir-
gilio, Ed. IX, 11-13: «... sed
carmina tantum Nostra valent ,
Lycida , tela in ter Mania , quan-
tum Chaonias dicunt aquila ve-
niente columbas ». — 122. Petrar-
ca, I, cxxxv, 5: « Ma questa pura
e candida colomba ».
Canz. XIV. — Scritta dal Gareth
durante una sua infermità (cfr. vv.
78-80). Dal Fontano (^Egid., f. hii
v) e da Giano Anisio {Satyr. I, ix)
sappiamo eh' egli soffriva spesso
di podagra edi artritide: v. Ì^In-
trod. — Ebbe dinnanzi il Petrarca,
I, e. X, di cui serba anche la forma
metrica {abCabCcdeeDff). — 1-4.
Cfr. Petrarca, le, 1-2 e 4: «Se
'1 pensier che mi strugge, Com'è
2ìungente e s&\do... Forse tal m'ar-
de ». — 12-13. Da Seneca, Hercul.
fur.^ 317-318: ^...Quodntmis mi-
RIME
169
Anzi ciò, che desia,
Mai più veder non crede: 15
Quest'è più naturai de l'infelice.
Par che più prona sia
Nel raagior mal la fede;
Che sperar meglio al misero non lice.
Queste due gran neraice, 20
— Ferma speranza & tema, —
Il cor di danno in danno
Diviso & tratto m' hanno ;
Et ricondotto a doglia tanto extrema.
Che, volendo parlare, 25
Mi conven lagrimare.
Ai , versi più soavi ! .
Che 'n la passata etate
Vi doleste del mio dolce martire ;
Accenti longhi & gravi, 30
Perché m'abbandonate?
Onde '1 mio duolo è grave di soffrire ,
Ma più di proferire.
Ai , gemito mortale ! ,
Ai, lagrime!, voi siete, 35
Che '1 verso interrompete.
Lasso!, no' '1 posso dir, ché'l picciol male
Insegna di dolere.
Il grande di tacere.
seri volunt. Hoc facile credunt » ;
e cfr. anche Ariosto, Ori. fiir. I,
LVi, 7-S : « Questo creduto fu che '1
luiser suole Dar facile credenza a
quel che vuole » : e quest' ultimo
(C).— 14-15. Da Seneca, /. e, 318-
319: « Iiumo quod metuutit nimis,
Numquam moveri posse nec toUi
putant ». — 17. Seneca, 1. e, 320:
(( Prona est timori semper in peius
fidesìì. E il popolo dice tuttora: ' Il
male è presto creduto ', e ' Si crede
più il male del bene' (Giusti, Prot».,
pp. 168 , 169). — 20-21. Cfr. Pe-
trarca, II, XXIX, 1-2: « Due gran
nemiche insieme erano aggiunte,
Bellezza ed Onestà». — 24-25. Cfr.
canz. XI, 35 e n.— 27-33. Petrarca,
I, X, 27-31 : « Dolci rime leggiadre
Che nel primiero assalto D'Amor
usai, qiiaiid'io non ebbi altr'arme;
Chi verrà mai che squadre Que-
sto mio cor di smallo, Ch' almen,
com'io solea, possa sfogarme? ». —
37-39. Da Seneca, Phaed. ,615:
« Gurae leves loquuntur, ingentes
170 RIME
Hor, lasso!, io ben conosco, 4©
Che ho di morir paiira,
Poiché non so dar fine a l'aspra sorte;
Se non può febre, il tosco,
d' herbe altra mixtura,
Devria cacciar quest'alma invitta & forte. 4^
In ogni parte è morte :
Ogniun può morir, quando
Gli piace, pur che voglia
Et ose uscir di doglia.
Ma qual dolor saria , che , ritornando 50
Il mio fido conforto,
Mi ritrovasse morto !
Colui, che meglio spera,
Il viver non disprezza ;
Ma foco al foco giunge l'impia speme; 5,5
Et quando par più vera,
Di più grave durezza
E l'ardente martir, che '1 cor mi j^reme.
Chi no' spera , non teme.
Misero me ! , per darme 60
L'affetto del timore,
Mi die' speranza Amore,
Queste son del crudel l'horribili arme;
Che pigro, inerme, imbelle
Diventa senza quelle. 65
Poi de li soli ardenti
stupent »; e cfr. il proverbio: ' I
grao dolori sou muti ' (Giusti ,
Proi\,p. 246).— 44-46. Seneca, Oe-
dip. fragni., 149 e 151 : «... Herbas
quae ferunt letum auferes?... Ubi-
que mors est ». — 47-48. Cfr. Sene-
ca , Phaed. , 886: « Mori volenti
desse mors numquam potest ». —
50-52. Cfr. Petrarca, I,xi, 27-35:
« Tempo verrà ancor forse, Cli' al-
l' usato soggiorno Torni la fera
bella e mansueta: E là 'v'ella nii
scorse Nel benedetto giorno, Vol-
ga la vista desiosa e lieta , Cer-
candomi; ed, o pietà! Già terra
infra le pietre Vedendo, Amor l'in-
spiri In guisa che sospiri ecc. »;
e I , e. X, 37-38: « Lasso, cosi m'è
scorso Lo mio dolce soccorso ». —
51. Petrarca, II, evi, i :« Quan-
do il soave mio fido conforto ». —
58. Dante, Inf. xxxui, 5 : « Dispera-
to dolor che il cor mi preme ». —
59. Cfr. Seneca, Troad. 434: « Mi-
serrimum est timere cum speres ui-
hil ».— 6 1. affetto, latin., 'ansia'. —
RIME
171
La terra e '1 popò! tutto ,
Il bosco, il campo, e '1 sifiente prato,
Gli agricoltori, intenti
Al desiato frutto , 70
Grodon tutti d'autunno il lieto stato:
A me disconsolato
Ogni hora, ogni momento
M'è di dolor cagione,
Ma più questa stagione, 75
Che ne portò il mio ben col freddo vento.
Sempre mi sarai duro ,
Ai, negro tempo, oscuro!
Canzon, nata d'infermo, inferma & manca,
Tu vedi il tuo difetto:
Rimanti in questo letto. 81
SONETTO CXLV.
Un anno è, Luna mia, che sei partita,
Et tredeci che me di me togliesti,
Deh, rende col fulgor di rai celesti
A Napol la sua luce , a me la vita!
Io dissi: mia, ma fu voce mentita.
Ch'io non t' hebbi giamai, né tu m'havesti;
Io, lasso!, non potei, tu non volesti;
Ond'io misero son, tu non servita.
Duo gran duoni ti fece & rari il fato :
Beltà magior, che mai non vide il sole,
Et un servo fldel, mai non mutato.
Cosi ti diede anchor l' animo ingrato ;
68. sitìente, latin., ' secco '. — 76.
La Luna parti d'autunno, ai 19
ottobre: v. canz. XV, 27-29 e n. —
78-80. Petrarca , I , e. x , 78-80 :
« poverella mia, come se' rozza !
Credo che tei conoscili: Rimanti
in questi boschi ». — 79. V. la n.
in princìpio della canz.
Sox. CXLV. — Per l'anniver-
sario della partenza della Luna
(1493). — 2. Di modo che il Ga-
reth s' innamorò della Luna nel
1480. — 5. mentita, latin., ' menzo-
gniera '. — io. Petrarca, I, cvii, 13-
14: «..né lagrime si belle Di si
begli occhi uscir mai vide il So-
172
RIME
Privòti di pietà: che far non suole
Vivente sotto '1 ciel tutto beato.
H
CANZONE XV.
Crudele Autunno & vario ,
Gli' agli altri dolci frixtti
Da tuoi begli liorti dai con volto allegro;
A me tanto adversario
Sei , che d' acerbi lutti
Fai parte , & d' aere freddo , ombroso & negro.
Tanto , che l' animo egro ,
Per la contagi'one
Del duol, eh' ognihor rimembra,
A le meschine membra
D'incurabili morbi è già cagione.
Et hor più, che'n tal die
Partio '1 mio ben con le speranze mie.
Quest' è '1 giorno postremo
Del primo flebile anno ,
Nel qual tanto perdei, che più non posso.
Hoggi il mio male extremo
Rinova tanto affanno ,
Che più , che non solìa , mi son commosso.
In qualche oscuro fosso ,
grotta atra & funesta
Vuo' rinovare il pianto.
Venga '1 funebre manto ,
E spargasi di cenere la testa.
15
le ». — 13-14- Da Orazio, Od. IT,
XVI, 27-28: « ... nihil est ab omni
Parte beatian ».
Canz. XV. — Anche nel!' anni-
versario della partenza della Lu-
na. — La sua donna era partita
(conae si rileva dai vv. 27-29 , 40-
52 e nn. rispettive di questa canz.)
ai IO di ottobre del 1492. — i. Au-
tunno... vax'io. Orazio, Od. II, v,
10-12: «... iam tibi lividos Distin-
guet aiitumniis l'acemos Purpureo
varlus colore ». — 7. egro, latin.,
' afflitto \ — 8. conta g'ione, latin.,
' influsso \ — II. V. la prima n.
alla canz. XIV.— 14-15. 'Oggi fi-
nisce il primo anno': v. le nn. ai
RIME
173
Ai , infelice giorno ! ,
Sempre mi sera duro il tuo ritorno.
Decimo di del mese ,
Che la notte vittrice
Fa, poi de l'equinottio, anzi l'inverno:
Qual segno allhor t'accese,
Per me tanto infelice,
Che vivace mi fa nel pianto eterno ?
Hor , lasso ! , io ben discerno ,
Che naturai destino
Non mi fece soffrire
Tal duol, senza morire;
Ma fu potentia del voler divino:
Che d' una tal partita
Io ne son vivo: sol se questa è vita!
Amor, tu vuoi ch'io creda,
Che'l ciel fa movimento
Per memoria del pianto & morte mia.
Io '1 credo, & par che '1 veda:
Che 'n quella hora & momento,
Che parte il sol , la Luna si partia.
Sorte maligna & ria,
Che due volte in occaso
Hai voluto eclipsare
Le due luci più chiare ;
Ond'io de l'una son cieco rimase:
25
30
35
40
45
50
vv. 27-29 e 40-52. — 25-26. Cfr.
Virgilio, ^En. v, 49-50: « laraque
dies, nisi fallor, adest, quera sem-
per acerbum ... habebo »; e Pe-
trarca , I , evi , 1 : « Quel sempre
acerbo... giorno ». — 26. ritorno.
(ST) ritonro, corr. in ER. — 27-
29. Intende deirottobre, perché in
esso le notti son più lunghe dei
giorni e perché esso succede all'e-
quinozio che capita prima dell' in-
verno (22 settembre). La data del
IO ottobre, come anniversario del-
la partenza della sua donna , è
confermata dai vv. 40-52 (v. la
n.). —Cfr. Petrarca, Tr. I, iv, 130-
131: « Era nella stagion che l'e-
quinozio Fa vincitor il giorno ». —
30. segno, ' destino ', dallo sp. si-
gnoì — 31. In (ST) dopo infelice
un interrogativo, che ho traspor-
tato al vs. successivo. — 33-36. Cfr.
canz. XII, 21-22.— 40-52. Allude
air eclissi avvenuto ai io ottobre
del 1493 , visto in tutta l'Europa
meridionale (v. L'art de vérifier
les dates etc. Paris, m.dcc.lxx ,
sotto l'a.). — 45- (ST) paté. —
174 RIME
Cosa inaudita & nova,
Che per dolore humano il ciel si mova !
Ecco , che , per dolore
Di miei tormenti amari,
Quel, che col corso suo rivolge gli anni ,
Col volto pien di hoi'rore,
Ne mostra segni chiari
D'arme, di varie morti & varii danni.
Tanti passati afiPanni,
Tante doglie presenti
Da la mia mente oscura
Han tolta ogni patirà
Di fatali, celesti movimenti.
Togliestimi la Luna ,
Homai che jduo' tu farmi, impia fortuna?
Se '1 gemito e'I singulto non troncasse
Li versi & le parole ,
Tu potresti, Canzon, pianger col sole.
55
6o
65
68
SONETTO CXLVL
Quanto del proprio mal si duole & lagna
Napol, col gran dolor che '1 ciel gli diede.
Quando vide nel mar quel bianco pede ,
Che 'n magior mar di lagrime mi bagna;
Tanto s'allegra la felice Hispagna,
Se pur conosce il ben ch'ella possedè ,
Che '1 dì de la mia Luna hor sempre vede ,
Per cui perpetua notte hor m' accompagna.
56. Virgilio, - del sole, per la morte
di Cesare . - Georg, i, 467 : «... ca-
put obscura nitidura ferrugine te-
xit »; e cfr., ib., 451-452 : «. . iiara
saepe videraus Ipsius in voltu va-
rios errare colores ». — 57. Virgi-
lio, l. e, 439: «... solem rertissima
signa secuntur ». — 57-58. Virgilio,
Le, 464-463: «... Ille etiam cae-
cos instare turaultus Saepe mouet,
fraudemque et operta tumescere
bella ». — 64-65. Dal Petrarca, II,
c- "1 73-75 • " Che giova. Amor,
tuo' ingegni ritentare? Passata è
la stagion. perduto hai F arme Di
ch'io tremava: oìnai che puoi tu
farine? ».
SoN. CXLVI. — Fu scritto dopo
il eenn. 1494: v. la n. al vs. 9-10. —
-j^iì dì, 'il volto'. — S. Cfr. Ca-
RIME 175
Ondo '1 signor del regno iV: di fortuna,
Volando al ciel , lasciò là minor gloria ,
Poi eh' era Napol senza la mia Luna. n
Né tanto 1' altro Re de sua vittoria
Centra gente Africana, oscura & bruna,
Quanto d' una tal luce , hoggi si gloria. 14.
SONETTO CXLYII.
Quando più sovra noi si mostra il sole ,
Per la reflexi'ou di raggi ardenti
Dà tanta noia a le cose viventi ,
Che 'n vario modo ogniun lagnar si suole.
Ma chi sentire alcun remedio vuole ,
Ivicerca i luoghi excelsi & eminenti;
Che, quanto più s'appressa ai rai lucenti,
Tanto men del pungente arder si duole.
Così lei, che nel cor sempre mi splende,
Più da lunge infiammando il desiderio ,
Kefflette ne la mente & più l'accende.
Onde s'io non m'apjìresso al lito Hesperio,
Ove '1 suo sol più luce & meno offende,
Come posso sperar mai refrigerio ?
14
CANZONE XVI.
Fulgore eterno & gloria d'Aragona,
tulio , V , 6 : « Nox est perpetua
una dormienda ». — 9-10. Ferran-
te I era morto il 25 gennaio 1494:
la Luna era invece partita da Na-
poli il IO ottobre 1492. — 10. là
minor gloria. Cosi (ST), ma for-
se: minor la gloria. — 12-14. Fer-
dinando, re di Spagna, che nel 2
gennaio 1492 aveva vinto e scac-
ciati i Mori dal regno di Granata.
A Napoli « la nova dela presa » fu
portata da uà « messer Roccha »
{Cedole di tesar., voi. 146, p. 313);
ai 2 di febbraio. In quella occa-
sione furono fatte « luminane et
processioni per tre di w ( Notar
Giacomo, j). 172); e ai 19 feb-
braio altre feste (Passaro, p. 53).
Anche allora, al 4 e al 6 marzo,
furono rappresentate due farse del
Sannazaro (v. Torraca, Studi, pp.
76, 266-267).
SoN. CXLVII. — 2. Cfr. Dante,
Farad, xxni , 83: « P'ulgurati di
su di ra(jf/i ardenti ». — 3. vi-
venti. (ST) niventi. — 12. Virgi-
lio, -En. , VI, 6: « Litus in He-
speriiim... ».
Canz. XVI. — Per 1' esaltazione
al trono di Alfonso II, succeduto
176 RIMR
Hei'oe grantle iu fama, iu arme ingente,
Fautor sol, anzi autor d'ogni vertute,
Hor t'ha condotto a la real corona
La potestà de la divina mente, 5
Per conservarne in pace & iu salute.
Hor piace servitute
A tutti quei , e' han libei tade in pregio.
Per te , Re pio , magnanimo &■ perfetto ,
Et per natura & per ragione eletto , jo
La libertade lionora il nome Regio.
Che , tue vertù pensando & ripensando ,
Avegna che non fussi il primo figlio
Di quel divo Ferrando ,
Saresti Re , s'al mondo è buon consiglio. 15
Lo strenuo cor, clemente, altero &■ saggio.
Che da l'un sole a l'altro il nome spande.
In expettatione ha posto il mondo ,
Tal ch'io non so qual petto, o qual coraggio
Potesse superar la speme grande, 20
Salvo il tuo primo, a nullo altro secondo.
Tu grave, tu giocondo,
A cui piaccion gli affanni in opre sante,
Et ne r oprar consiglio. alma invitta ,
Sola difension di gente afflitta! 25
Nel pericol magior salda & constante ;
Ne le difiicultà d'arguto ingegno,
Et non di fero cor ne le vittorie ,
Ma pili dolce & beneguo:
Vertuti veramente Imperatorie. 30
Il tuo chiaro conspetto, allegro & grave,
a Ferrante I il 25 gennaio 1494, e
incoronato con grandissima pompa
e sfarzo da Giovanni Borgia, car-
dinale di Monreale, V 8 maggio di
quell'anno (v. Burcliard, Diarium,
voi. II, pp. 108 sgg , Passaro, pp.
56-60 e Arch. nap. xiv , p. 140,
sgg.). — ingente, latin., 'straordi-
nario". —3. Fautor, latin., ' pro-
tettore'. — 13-13. 'Anche quando
tu non fossi stato il primogenito di
Ferrante I, saresti stato sempre e-
letto re, per le virtù tue '. — 15. Cfr.
son. CI, 4.— 19. coraggio, ' cuore ',
dallo sp. corason. — 21. Ferrandi-
Do , primogenito di Alfonso II. —
RIME
177
Che più ch'altro mortai reluce e splende,
De le vertù favor, del vitio scorno,
Atterra col suo sol le genti prave,
Si come con suoi raggi Apollo offende
Gli augei , che van fuggendo il chiaro giorno.
Hor è nel suo soggiorno
Apollo con le nove alme sorelle:
Hor quella insigne, sacra, alta dottrina,
Chiamata humanitc\ , sola divina ,
Ferirà con la testa l'auree stelle;
Le selve Antiniane in varii canti
Eisonaran la gloria degli Alfonsi
Et d'inclj'ti Ferranti;
Et le valli daran dolci responsi.
Se l'un, più ch'altro human, fu liberale,
Et l'altro forte & pien di sapientia ,
Et come lano tien gemino viso ;
Hor vedemo in un solo , al sole eguale ,
De la vertù celeste experi'entia ,
Ch' agguaglia li mortali al paradiso.
Letitia, plauso & riso
Si celebre , eh' or tene il regno Ausonio
Un principe, anzi un dio tra gli altri humani,
Ch'Italia liberò da Turchi immani.
Hydrunto, Europa e '1 mondo è testimonio
Come costui, intrepido, animoso,
Vinse del cielo gli nemici rei ;
Poi venne glorioso ,
35
40
45
30
55
34. sol, ' splendore '. — 35-36. Cfr.
Petrarca, I, s. i, 1-2: « A qualun-
que animale alberga in terra, Se
non se alquanti e' hanno in odio
il sole «; e ib., csiv, 14: « Che son
fatto un augel notturno al Sole «.—
41. Orazio, Od. 1, 1, 36 : a Sublimi
feriam sidera vertice ». — 42. Le
selve Antiniane , 1" ' Accademia
del Fontano': v. la n. alla canz.
VI, IO. — 43-44. Alfonso I, Fer-
rante I, Alfonso II, Ferrandino. —
46. Alfonso il Magnanimo. — 47-
48. Ferrante I: cfr. anche canz.
VI, 162 sgg. — 48. gemino, la-
tin. ' doppio '. — 55-56- Impresa di
Alfonso, allora duca di Calabria,
contro i Maomettani rinchiusi in
Otranto (1480-1481): v. canz. VI,
146-150 e n. — 57. Cfr. canz. VI ,
33
178 RIME
Carco d' lionor , d' oxuvie & di tropliei. 60
Hor altrui t'apparecchia un'altra gloria,
Se cerca provocar i Galli, advcrsi
A la quiete Italica , imminenti ;
tu reportarai lieta vittoria,
tu unirai in pace i cor diversi , 65
Come natura accorda gli elementi,
Sì varii & differenti.
Chi non ritenerasi iutro le porte,
Vedendo uu lìe , degnissimo d' imjierio ,
Eeguar nel regno Hesperio ? ^o
Vedendo un novo Duca, invitto &, forte,
In forza & gagliardia altro Pelide ,
In arme & in amor novo Gradivo :
(luci mio Aragonio Alcide ,
Di cui l'inclyta fama io canto e scrivo? 75
Ne le sideree sedi
Volando andrai , Canzon , con bianche penne
Di quella verità, che ti conduce;
Vedraivi d'Aragon la nova luce ,
Ch' è ritornata in cielo , ond' ella venne. 80
Digli , che con ragion può rallegrarsi
D'haver sua parte nei celesti regni ;
Ma più dee gloriarsi
Di veder in houor suol dolci pegni. 84
259. — 60. È una ripetizione del
vs. 270 della canz. VI. — Sanna-
zaro , e. xvn , 120: (( Carco tor-
nar di spoglie e di trofei ». — 61.
altrui. Lodovico il Moro, che sin
dal 29 aprile 1493 s' univa in lega
con Cario Vili, concedendogli li-
bero passaggio per la spedizione
contro il regno di Napoli: v. Ci-
polla, Stor. p. 680 sgg.— 62. pro-
vocar, latin., ' invitare '.—63. im-
minenti, ' prossimi a venire in Ita-
lia '. — 69. Cfr. canz, VI, 242.— 70.
Hesperio, latin. , ' occidentale ', e
qui: ' Italico '. — 71-75. Ferrandi-
no: un Achille, un Marte, un Ercole
(v. 72, 73, 74). — 79. Aragon. Cosi
anche nel Petrarca, III, is , 36:
« Con Aragon lassarti, vota Ispa-
gna ». — nova luce. Ferrante I ,
allora morto (25 gennaio 1494).
Cfr. Virgilio, - di Cesare, dopo la
movie, - Georg. 1, 32: a...novt(ni
... sidus ». — 80. Da Petrarca, lì ,
xxvn , 1 1 : (( Che tosto è ritor-
nata ond' ella uscio ». — 84. I fi-
gli: Alfonso II e Federigo, ed il
nipote Ferraudino.
RIME
'79
CANZONE XVn.
Quale odio, qual furor, qiial ira immane,
Quai pianete maligni
Ilan vostre voglie, unite, lior si divise?
Qual crudeltà vi move, o spirti insigni,
anime Italiane,
A dare il Latin sangue a genti invise ì
Non siau homai sì fise
Le vostre menti , in voglie , in foco accese ,
D' esser superiori a vostri eguali.
cupidi mortali,
S' ardente lionor vi chiama ad alte imprese ,
Ite a spogliar quel sacro, almo paese
Di Christian trophei :
Et tu, santa, immortai, Saturnia terra,
Canz. XVII. — A' principi ita-
liani , e particolarmente a Lodo-
vico il Moro ( ctV. vv. 1 13-122),
perché, stieno tutti concordi con-
tro Carlo Vili , e ridiano cosi la
pace airitaiia. Dovett'essere scrit-
ta almeno dopo che Luigi d'Or-
leans con l'avanguardia di Cario
Vili scendeva in Italia ( 9 luglio
1494), ricordandosi qui il passag-
gio del Mongincvra, già fatto da
Annibale ora rifatto dai Francesi
(vv. 49 sgg.). — Imita principal-
mente il Petrarca, 111, xx,-la
celebre canz. diretta ai signori
italiani , della quale il n. man-
tenne pure la forma metrica, mu-
tando solo il dodicesimo vs. di
ogni stanza, di quinario in ende-
casillabo; - poi Orazio, Epod. vn e
Tibullo , I , X. — I. Orazio , l. e,
13-14: « Furarne caecos an ra-
pit vis acrior An culpa? ». — 1-
6. Petrarca, l. e, 52-37: « Or
par , non so per che stelle mali-
gne , Che '1 cielo in odio n' ag-
gia. Vostra mercè, cui tanto si
commise : Vostre voglie divise
Guastan del mondo la pili bella
jiarttì. Qual colpa, qual giudicio
o qual destino ». — 6. Latin san-
gue. Petrarca, l. e, 74: « Latin
sangue gentile ». — 9. Infatti Lo-
dovico Sforza non poteva soffrire
che gli Aragonesi fossero re , e
Ini duca: v. Delaborde, L' ea^pé-
dit. de Charles Vili, p. 217. —
10-13. Li incita alla liberazione
di Terra Santa. E di essa anche
il Petrarca, Tr. IV, it, 142-144:
« Ite superbi , o miseri Cristiani,
Consumando 1' un l' altro , e non
vi caglia Che "l sepolcro di Cristo
è in man di cani »; e 111, ix, 42:
« A l'alta impresa caritate spro-
na ». E cfr. anche III , xx , 106-
110: « K quel che 'n altrui pena
Tempo si spende, in qualche atto
più degno di mano o d'ingegno
la qualche bella lode. In qualche
onesto studio si converta ». — 12.
Petrarca, Le, 9: « Ti volga a '1
tuo diletto almo paese ».— 14-15.
Virgilio, Georjr. Il, 173-174: «Sai-
i8o
RIME
Madre d'huomini & dei, 15
Nei barbari converti hor l' irapia guerra.
mal concordi ingegni, da prira'anni
Et da le prime cune
Abhorrenti da dolce & lieta pace.
Perché correte in un voler comune 20
A li comuni danni,
Et in comune colpa il mal vi piace ?
Perché non vi dispiace
Tinger nel proprio sangue hor vostre spade?
Fu questo dato già dal fato eterno, 25
Quando '1 sangue fraterno
Tinse '1 muro di quella alma cittade
Con quella fera invidia & impietade?
Et hor qual morbo insano
Ha pollute le membra , giunte in uno : 30
L'una con 1' altra mano
Pugna, senza sperar triompho alcuno?
Se ciò che per vertù far si devria,
Si fa sol per argento ,
Et non per gloria mai guerra s'imprende, 35
Quanto mal può sperarsi ogni momento
Da liga o compagnia
Di cui lo proprio lionor vende & rivendo.
Io so che tal mi intende ,
Che per 1' orecchi tene un lupo inico , 40
ve, magna parens frugum, Satur-
nia tellus, Magna virnm ». — 16.
converti. V. 1' ultimo brano del
Petrarca in n. ai vv. 10-13. — 20-28.
Orazio, l. e. , 1-2, 17-20: «Quo,
quo scelesti ruitis ? aut cur deste-
ris Aptantur enses conditi ? . . . .
Sic est: acerba fata Ronianos a-
gunt Scelusque fraternae necix ,
Ut inmerentis tluxit in terram Re-
mi Sacer nepotibus cruor ». — 29-
30. Cfr. Petrarca, l. e, 36-38: « Ma
'i desir cieco e 'n contra '1 suo ben
fermo S' è poi tanto ingegnato ,
Ch' a '1 corpo sano ha procurato
scabbia ». — 30. pollute , latin.,
' insozzate '. — 37-38. ' Dall'allean-
za di chi ecc. '. Si allude qui a
qualcuno dei principi italiani, a
Carlo Vili, o a Massimiliano; o è
detto in generale? — 38. Cfr. Pe-
trarca, Le, 25: « Che 'n cor ve-
nale amor cercate o lede ». — 39-
40. Qui c'è un'allusione non mol-
to tacile a chiarirsi. E Lodovico
Sforza che tene per l'orecchi un
RIME
1«I
Che '1 lasciar né '1 tener non gli è securo.
petto immite & duro
Contra li tuoi, di tuoi nemici amico,
Come non ti soveu de l'odio antico,
Che col primo Parente
Nacque; perché no' aspiri ad un bell'atto?
Che con perfida gente
È perfidia servar promessa o patto.
Che maladetta sia di quel Sydonio
L' ombra perversa & sonte ,
Perfida alma, crudel, superba & dura;
La qual de l'alpe roppe il devio monte.
Et nel bel piano Ausonio
Scese per forza, & fé' sì gran palira!
45
50
lupo iniquo, - Carlo Vili, - il qua-
le egli può trattenere o lasciar
correre per T Italia, incerto però
che, facendo o l'una l'altra di
queste cose, gliene sia per venire
utile o danno (vv. 39-41)? Era egli
infatti cognato e principale nemico
di Alfonso: alleato dei Francesi,
e odiato da loro, perché essi , a-
vidi di possedere l' Italia e pre-
tendenti al ducato di Milano, -Lui-
gi d'Orleans, - non i)Otevan essere
né fedeli né duraturi amici suoi
(vv. 42-43). Ma qxieW odio antico
che nacque col primo Parente
(vv. 44-45), di cui il Moro si do-
vrebbe ricordare? Quello biblico
(Genesi, in, 14) tra l'uomo ed il
serpente, - Carlo Vili, il tentato-
re, lo spirito del male. - ? Ed an-
che a Lodovico Sforza ci riporte-
rebbero i vv. 46-48. Chi dei prin-
cipi italiani, se non il Moro, po-
teva, non mantenendo la promessa
fatta a Carlo Vili di lasciargli li-
bero il passaggio per Napoli . a-
spirare al bell'atto di riunire in
una lega tutti gli stati italiani, e
di ridare la pace all' Italia? E ci
<larebbero ragione anche i vv. 113-
122, che, diretti chiaramente allo
Sforza , dicono proprio lo stesso
di questi. — 49. Sydonio , latin,
(cfr. Virgilio, jEn. 1, 446: « Si-
donìa Dido » ecc. ecc.) , ' Carta-
ginese ', cioè Annibale.— 50. son-
te , latin. , ' funesta '. — 50-51. E
Orazio, Od. II, xu, 2: « Nec dirura
Hannibalem w; - cfr. anche III,
VI, 36; - e IV, IV, 49: «... perfidus
Hannibal »; Epod. xvi , S: « Pa-
rentibusque abominatus Hanni-
bal ». — 52. Cfr. Giovenale (di An-
nibale ) , Sat. X, 153: « Diducit
scopulos et montem rumpit ace-
to ». — devio, latin., ' inaccessibi-
le'. — 52-54. Annibale scese in I-
talia pel Monginevra, e per esso e
l'Orleans con l'avanguardia fran-
cese e poi Carlo Vili (29 agosto-
I settembre 1494): essendo quello
« le meilleur et le plus aisé passa-
gè» (Delaborde. p. 389). — 55-57-
Da Cicerone , De prov. consoli.
XIV, 34: « Alpibus Italiani mitnie'
rat antea natura non sine aliquo
divino numine »; e cfr. anche Pli-
nio (citato , con tutti i brani qui
riferiti, dal Carducci nelle Ritne
del Petr., p. 107): « Alpes Italiae
prò muris adversus impetum bar-
barorum natura dedit »; e Natur.
Hist., III, xxin; Giovenale, l. e,
j 52: «...opposuit natura Alperaque
l82
filME
Che già l'alma natura 55
Havea munita la bella planicie
Centra '1 superbo Gallico furore ;
Hor l'infinito ardore
D'imperio, hor le private iniraicitie
Han la via trita in publica pernicie. 60
Nulla cosa si mostra
Difficile a' mortali : il ciel tentanio
Con la stultitia nostra;
Fulmina Giove, & noi non paventamo.
Non parlo per cagion del proprio affanno, 65
Che 'n questa burnii fortuna
Riposo più, che gli altri in sommo imperio;
Né mi move a parlar paura alcuna
D'alcun privato danno.
Ma sol di pace ardente desiderio. 70
Che nel bel campo Hesperio
Di monarchia io veggio un Duca degno ,
De la preclara sterpe d'Aragona,
Ch' aspecta aurea corona
Non sol del proprio suo, ma d'altrui regno. 75
Et duolmi che tal è de pena indegno,
Che havrà dolor diversi :
Che '1 picciol sempre geme per discordia
Di grandi ; et non dolersi
nivemque ». — 55-60. Petrarca , l.
"• - 33-3S '■ « Bea provide natura
a'I nostro stato, Quando <Je l'Alpi
scliermo Pose fra noi e la tedesca
rabbia : Ma '1 desir cieco e 'n con-
tra 'I suo ben fermo S'è [)0Ì tanto
ingegnato, Ch' a '1 corpo sano ha
procurato scabbia ». — 36. plani-
cie. Vài. pian itics, ' pianura '; come
pernicie (vs. 60) , lat. pernicies,
'danno '—57. Cfr. Petrarca, l. e. ,
93: « Vertù cantra /^urore ». — 60.
trita, latin., ' consumata '. — 61-64.
Da Orazio, Od. I, 111, 37-40: « Nil
mortalibus arduist; Ùaelum ipsum
petimus stultitia^ neque Per no-
strum patimur scelus Iracunda
lovem ponere fulmina ». — 65-70.
Cfr. Petrarca, /. e, 63-64: « Io
parlo per ver dire. Non per odio
d'altrui né per disprezzo ». — 70.
Cfr. Petrarca, l. e, 122: « F vo
gridando: Pace... ». — 7>-75- Fer-
randino , ora (149+) duca di Ca-
labria. — 73. sterpe. V. canz. VI,
105 e n. — 76. tal, " qualcuno '. —
76-78. Cfr. Petrarca, /.e, 39-41:
« Or dentro ad una gabbia Fere
selvagge e mansuete gregge S' an-
uidan si che sempre il miglior
RIME 183
De' mal d'altrui , mi par somma vccordiu. 80
Ben fu senza pietà quel ferreo petto,
Quell'animo feroce,
Che fu inventor del ferro , borrendo & forte.
D'allhora incominciò la pugna atroce
La venenosa Aletto: 85
Et di più breve via per l'impla morte
Aperse le atre porte;
Ma non fu in tutto colpa di quel primo:
Che ciò, cbe lui trovò col bel sapere
In coutro a l'aspre fere , 90
Noi ne li nostri danni bor convertimo.
Questo adiven, (se '1 falso io non estimo,)
Di fame di tliesoro ,
Cb'ogni petto mortai tene captivo :
Che pria che fusse l'oro 95
Non era il ferro a 1' buom tanto nocivo !
Ai , pace ! , ai , ben ! , di buon sì desiato ! ,
Alma pace & tranquilla,
Per cui luce la terra e '1 ciel in'ofondo;
Pace, d'ogni cittade & d'ogni villa, 100
D'ogni animai creato
Letitia , & gioia del sidereo mondo;
Mostra il volto giocondo.
getne ». — 80. vecordia , latin. ,
' stoltezza '. — 81-96. Da Tibullo,
I, X, 1-8: « Quis fuit, horrendos
primus qui protulit enses? Quam
fervs et vere ferreus ille fuit!
Tion cnedes hominum srcneri, tum
proelia nata , Tum brevior dirae
mnrtis apeì^ta viast. A nihil ille
miser meruit! ìios ad mala no-
stra Vertimxis , in saiwas quod
dedit l'Ile feras. Divilis hoc vi-
tiumst auì'i; nec bella fuerunt ,
Faginus adstabat cum scyphus an-
te dapes ». — 85. Virgilio , ^n.,
VII, 341: « Exim Gorgoneis Alle-
rto infecta venenis ». — 93-94. Cfr.
Virgilio, ^n. ui, 56-57: « Quid
non mortalia xjectoya cogis, Auri
sacra farnesi ». — 97-102. bìiita il
Petrarca, III, xvi , 33-41: u Li-
bertà, dolce e desiato bene. Mal
conosciuto a chi tal or no '1 per-
de, Quanto gradita a '1 buon mon-
do essor dei! Da te la vita vien
fiorita e verde: Per te stato gio-
ioso .si luantene Ch' ir mi fa so-
migliante a gli alti dèi: Senza te
lungauioiiìe non vorrei Ricchezze,
onor e ciò ch'uom [)iù desia; Ma
teco ogni tugurio acijiu'ia l'alma ».
Cfr. Tibullo , l. e. , 45 sgg.: « In-
terea Pax arva colat. Pax can-
dida primum ». — 103-104. Da Ti-
bullo , l. e, 67-68 : « At nobis ,
184 RIME
Et, con la spica e i dolci frutti in seno,
D'Italia adombra & l'ima & l'altra riva
Con la frondente oliva ;
Et in questo amenissimo terreno
Di Napol , dove 'I cielo è più sereno ,
Ferma i tuoi piedi gravi ,
Facendone fruir quiete eterna,
Et con secure chiavi
Chiude la guerra a la j^regioue inferna.
Canzon, tra '1 Pado & l'Alpe,
Vedrai quel disdegnoso duca, altero,
Che di pace & di guerra in man le habene,
(Cosi il ciel vole,) hor tene.
Digli che voglia homai vedere il vero ,
E svegliar quel santissimo penserò
Di publica salute;
Che, per moderna & per antiqua historia,
S'acquista per vertute,
Et non per signoria, la vera gloria!
105
H5
SONETTO CXLVIII.
D' huomini & dei feconda , altera madre ,
Pax alma, veni spicamqne tenete,
Perfluatet pomis candidus ante si-
nus ». — 106. frondente, latin.,
' frondeggiante '. — 109-112. Cfr.
Lucrezio, 1, 29-32: « Ellice ut inte-
rea fera moenera militiai Per ma-
ria ac terras oinnis sopita quie-
scant: Nam tu soia potes tranquil-
la pace iuvare Mortalis d. — iii-
112. Cfr. Virgilio, uEn. 1, 294:
(i Glaudenlur Belli portae ». — 113.
Pado, latin. ' Po '.—In Lombardia.
— (ST) pado. ..alpe — 1 13-1 16. Lo-
dovico Sforza, (luca di Milano, ar-
bitro di tutti gli avvenimenti italia-
ni , negli ultimi decenni del sec.
XV.— 115. habene, latin., ' freni ':
cfr. Virgilio, u'En. vii, 600: «... re-
rumque reliquit habenas ». — 116.
Virgilio, yEn. v, 51 : «... (sic di vo-
luistis)... ». — 117. Petrarca, l. e. ,
15: « Ivi fa che '1 tuo vero ». —
120. (ST) Che 2)cr moderne éc per
antique historie, corr. poi in ER.
SoN. CXLVIII. — E diretto al
cardinale Ascanio Sforza, perché
egli e gii altri cardinali si manten-
gano uniti agli Aragonesi contro
Carlo Vili. Forse scritto dopo il 4
decembre 1494, quando, avendo
Carlo Vili occupata Viterbo ed ac-
cingendosi a marciare su Roma,
il papa indiceva concistoro il io
decembre, per stabilire il da far-
si; mentre Ferrandino nell' isles-
so giorno, tornando dalla Roma-
gna, entrava in Roma (v. Cipol-
la, Star., p. 710). Cfr. anche il son.
RIME 185
D'ogni città Regina, & d'ogni gente,
Et tu, sacrato Ascanio, & veramente
Non zio del mio signor, ma proprio padre; 4
Aspirate ad imprese alte & leggiadre,
Poiché Aragon vi fa veder presente
Cesare, d'eloquentia & d'arme ingente,
Sol vincitor de le feroci squadre. 8
Deponete il pensier tetro & acerbo,
Che dal cielo è disceso altro Camillo,
Che domai'à di Galli il lìe superbo. n
Voi lo vedrete a tempo più tranquillo
Recuperar non sol Sutri & Viterbo,
Ma spenger ultra l'Alpe il suo vexillol 14
SONETTO CXLIX.
Erano in me d'Amor 1' arme nocive
Un volto di bellezza & gratia adorno;
Hor mi punge con segni del ritorno
Di lei, eh' irradia anchor le Hesperie rive.
Da l'antiquo desio nove & più vive
Fiamme di speme aspirau d' ogn' intorno ,
A le mie notti oscure un chiaro giorno
Promettendo, onde'l foco eterno vive.
Chi spera ha più martir, che chi desia
CXIV, e nn. — 1-2. Saanazaro, s.
Lxxvi, 1-2 (di Roma): « Gloriosa,
possente, aulica madre. Che nel
tuo grembo albergiii uomini , e
Dei ». — 3-4. Ascanio Maria Sfor-
za era « zio carnale per parte de
niatre dello signore principe di
Capua »( Passare , p 53); perché
fratello di Ippolita Maria, madre
di Ferrandino (il mio signor del
vs. 4). — 5. V. canz. XIII, 23 e n. —
7. Cesare , ' Ferrandino ', come
Cesare, grande in dottrina e nel-
Tarte della guerra, e, pure come
lui , vincitore dei Galli. Anche
nella canz. XIX, 68, lo paragona
a Cesare. — 9. ' Di cedere a Car-
lo Vili, e di allearvi con lui'. —
10. altro Camillo, credo che sia
Alfonso II, qui vaticinato domato-
re di Carlo VIII, quale Camillo fu
davvero dei (^alli e di Brenno. —
13. Sutri & Viterbo. Quest'ulti-
ma già in potere di Carlo Vili ,
quando Ferrandino veniva in dife-
sa di Roma. — 14. spenger, ' spin-
gere '. — (ST) alpe.
SoN. CXLIX.— 6. aspiran, ' sof-
24
i86
RIME
Senza sperar, ma 1' uno & l'altro è folle :
Che, dove è grande amore, è gran follia.
Amor non sa trovar nido più molle,
Né più soave, eh' entro a l'alma mia.
Et per me cangia il dolce Idalio colle.
14
CANZONE XVIII.
Non l'Alpe l'Apenin, no' '1 vasto mare,
Non gli altri monti immensi ,
Non boschi oscuri & densi.
Non gelosia pungente & importuna,
Non le tenebre opposte a li miei sensi
Per le lagrime amare ,
Mi ponno homai vetare ,
Ch' io non ti veggia sempre, alma mia Luna.
Use pur la fortuna
Del suo voler l'extremo.
Che magior mal non temo;
Poiché nel core eternamente io guardo
Quel bel sereno sguardo ,
Che de beltà mi mostra il ben supremo;
Né togliermi 'i potrà 1' ultimo fato :
Così contento io son, così beato.
fiano. — 9-10. V. canz. XIV, 59 e
n. — 14 Cfr. Orazio, Od. I, xxx,
1-4: « Venus, regina Gnidi Pa-
phique , Speme dilectam Cvpron
et vocantis Ture te multo Glyce-
rae decoram Transfer in aedem » ;
XIX, 9-10: « In me tota ruens Ve-
nus Cyprum deseruit »; xvii, 1-
2: « Velox araoenum saepe Lu-
cretiiem Mutat Lycaeo Faunus ».
Canz. XVIII.— 1-7. Cfr. Pe-
trarca, I, xcvin, 1-6: « Noìi Te-
sin, Po, Varo, Arno, Adige e Te-
bro, Eufrate, Tigre, Nilo, Ermo,
Indo e Gange, Tana, Istro, Alfeo,
Garonna e '/ mar che frange, Ro-
dano , Ibero , Ren , Sena , Albia ,
Era, Ebro; Non edra, abete, pin,
faggio o ginebro Poria 'I foco al-
lentar che '1 cor tristo ange ». —
1. Petrarca, I, xcvi, 14: « Ch'^p-
penin parte, e '/ mar circonda e
l'Alpe 1). — (ST) alpe. — 5-6. ' Gli
occhi velati di lagrime '. — 9-10.
Cfr. Dante, Inf. xv. 95-96: a Però
giri fortuna la sua ruota, Come le
piace)). — 9-1 1. Cfr. Sannazaro,
s. Lxvi, 9-10: « Usin le stelle, e '1
Ciel tutte lor prove: Ch' a quel
ch'io sento, mi parranno un gio-
co )). — IO. Petrarca, II, Liv, 1-2:
« Or hai fatto l' estremo di tua
possa, crude! Morte )). — 1 1 . Cfr.
Petrarca, II, e n, 102-103 : « Certo
ornai non tem' io , Amor , delia
tua mau nove feruta ». — 12. guar-
RIME
Da che comincia l'alba uscir di fuore
Col suo purpureo volto ,
Ovunque io sia rivolto.
Veggio dispersa in ciel la rosea luce;
E '1 viso , che da me non fìa mai tolto ,
Conosco al bel colore
Et al celeste honore ,
Che ne le membra sue sempre reluce.
Ma. quando il sol n'adduce
Fulgor, che più s' extende.
La mente allhor s' accende
A contemplar nel lucido horizonte
La chiara, ingenua fronte,
Ch'ogni letitia, ogni dolcior transcende ;
Allhor yegg' io nei rai del flavo Apollo
Rutilare i crin d" oro intorno al collo.
Quando s'accende l'alta sommitate
Del celeste aureo tetto
Col fiammeggiante aspetto,
De la mia Luna appare il proprio viso.
Io gli occhi abasso & penso al latteo petto,
Che sì chiara beltate
Occhio mortai non paté,
Nel lume suo magior, mirar si fiso!
Veggio '1 fiorente riso.
Di nova gratia adorno ,
Fulgurar d' ogn' intorno ;
Veggio, come, movendo i passi gravi,
Volge gii occhi soiivi.
Che fanno al quarto ciel sovente scorno;
187
25
30
35
40
43
do, 'serbo'; è nel Vocab. — 17.
Cfr. Petrarca, I, s. i, 7-8: «Ed
io, da che comincia la beli' a/6a
A scuoter 1' ombrit intorno «Iella
terra ». — 31. flavo, latin., ' bion-
do '. — 32. Rutilare , latin. , ' ri-
splendere '. — 37. latteo petto. V.
canz. X, 95. — 38-40, Petrarca, 1,
CHI, 5-6: « L'opra è si altera, si
leggiadra e nova , Clie mortai
guardo in lei non s'assicura ». —
40. lume . ' splendore ". — 43-46.
Petrarca, I, cv, 5-6: « E vidi la-
grimar que' duo bei lumi, C han
fatto mille volte invidia ai So-
le ». — 46. quarto ciel; quello
RIME
Et parrai dolcemente udir parole,
Onde s'allegra il cor più, che non suole.
Né si perturba l' infiammata mente ,
Perclié '1 sommo pianeta 50
Questa parte men lieta
Lascie, quando s'invia per le sals'onde;
Anzi pili si conforta & più s' acqueta,
Vedendo cbe 'n ponente
Ogni stella splendente, 55
(Cosi fu destinato,) al fin s'asconde.
Et per far più gioconde
Le mie vertuti accese,
In quel dolce paese,
Volando, mena Amor lo spirto mio, 60
Con l'ale del desio.
Dietro '1 lume , che 1' alma e '1 cor m' accese ;
Ove più bello il vede, & più benegno,
Né fulmina homai più Y antiquo sdegno.
Poi torna inseme col notturno gelo, 65
Et par che mi favelle
Con soavi novelle
Di lei, eh' anchor da luuge mi governa.
Io respiro, &, mirando a l'alte stelle,
Veggio nel primo cielo , 70
Nuda senza alcun velo.
Di castità la diva sempiterna.
A la sua luce eterna
del sole, secondo il sistema tolo-
maico. —47-48. Petrarca, Le, 7-
8: « Ed udii sospirando dir pa-
role Che farian trir i monti e stai-e
i fiumi ». — 54. 'n ponente: in I-
spagna. — 61. l'ale del desio. l'e-
irarca, I, e. in. 30: k (]oI desio non
possendo mover l'ali )>; e Dante,
Purg. IV, 27-29: «... ma qui
convien eh' uom voli. . . con l'ali
snelle e con le piume Del gran
desio »; cfr. anche ib. xi, 38-39.—
63. notturno gelo. Cfr. Dante,
Itìf. II. 127 — 135-72. Cfr. son.
CXXXIX, 1-5.— 71-72. La Luna. —
73-79- Dal Petrarca, I, lxxx, 1-8:
» Pien di quella ineftabile dolcez-
za Che del bel viso trassen gli
occhi miei Nel di che volentier
chiusi gli avrei Per non mirar
giammai minor bellezza , Lassai
quel eh' i' più bramo; ed ho sì av-
i^ezza La mente a contemplar so-
la costei, Ch'altro non vede e ciò
RIlVtE
E l'alma tanto avezza,
Ch' ogni minor bellezza
Dispregian per costume i sensi miei.
Et, riguardando in lei,
Veggio da gli occhi suoi piover dolcezza
Tanta, che me di me stesso divido,
Et di letitia il cor piangendo ride.
Al mio Aragonio Marte ,
Canzou mia, dir ti lice
Del mio ben la radice,
Acciò che compassion di me si toglia,
Né più di me si doglia.
Che forse lui non sa, ch'io son felice
In queste vision sì gloriose;
Benché sanno sii dei tutte le cose.
i8g
75
80
85
CANZONE XIX.
Non scmpremai dal ciel procella cade,
Né di continuo scende irato Giove
che non è lei Già per antica u-
sanzaodia. e disprezzati). — 78-79.
Petrarca, I. cui, 7-8: « Tanta ne-
gli occìii bei Ibr di misura Par
cli'Anior e dolcezza e grazia pio-
va ». — 79. Dal Petrarca, li, xxiv,
3 : « Che jn'avean si da me .stesso
diriso ». — 80. piangendo ride.
Petrarca, I, xc, 12: n Pasconii di
dolor; piangendo rido » : cfr. an-
che F, e. ix, 76; in, IX, 1 14 ecc. —
81. Ferrandiiio. — 87-8S. Ovidio,
Pont. I, II, 73-74: « Nescit eiiim
Caesar, quamris deus Omnia no-
rie, Ultimus liic qua sit condicione
locus ».
Canz. XiX. — Ad Alfonso d'A-
valos , per la morte della mog-lie
(v. n. al vs. Il), avvenuta proba-
bilraonte nei primi mesi del 1494;
perché questa canzone fu scritta
quando il D'Avalos, col Trivul-
zio e col Pitigliano , era neh' e-
sercito di Ferrandino , in Roma-
gna, contro gli Sforzeschi e l'a-
vanguardia francese , comandati
dal conte di Caiazzo e dal D' Au-
bign}-: e cioè tra il iS agosto '94
- allora il marchese di Pescara
non era ancora giunto al campo
(v. Sanuto , Sped. , p. 68) , - ed il
IO dicembre di quell'anno, quan-
do Ferrandino ed i suoi capitani
si trovavano già in Roma (v. son.
CXLVIII, n.).— Imita Orazio, Od.
II, IX. — 1-15. Orazio, /. e. 1-12:
« Non semper inibres nubihus hi-
spidos Manant in agros aut mare
Caspium Vexant inaequales pro-
cellae L'sque, nec Armeniis in oris,
Ainice Valgi , stat glacies iners
Menses pei- omnes, aut aquilonibns
Querceta Gargani lahorarit Et fo-
liis viduaninr orni: Tu semper ur-
gues flebilibus modis .Mysten a-
demplum,nec tibi Vespero Surgen-
igo RIME
Contra Vesevo, Ehodope, Apennino;
Né sempre con furor Neptuno move
Quella inequale, horribil tempestade
Contra i legni, cbe'n mar trovan camino.
Et tu, Marchese , d' Avelo & d' Aquino
Progenie , honor d' Ausonia & de la Hispagna,
Pur semj)re ti tormenti in van piangendo.
Et senza fin lugendo
La perduta, fidel, casta compagna:
Che, se Hespero si vede in occidente.
Et se riscalda il sole ogni campagna,
Yede il tuo viso ondante in pianto ardente.
Dal cor profondo & sospirar ti sente.
Cessa d'esser in te tanto crudele:
Che ciò, che'n lungo spatio il tempo face,
Tu '1 puoi far con l'ingegno in tempo breve.
Concedi al flebil cor già qualche pace ,
Et converte le tue molli querele
In un più grave & piìi canoro accento ,
Cantando quello intrepido ardimento
15
te deceduiit Amores Ncc rapiilimi
fugiente snlem ». — 3. Rhodope,
iiioiUe della Tracia. — S. I D" A-
valos eran venuli diilla Spaicna in
Italia con Iiiico e Alfonso, fi.sli di
Ruy Lopez , gran conestahile di
Custiglia, e di Costanza di Gueva-
ra , - l'uno padre , l'altro zio di
Alfonso, marchese di Pescara, -
accompagnando Alfi)nso d'Arago-
na alla conquista del regno di Na-
poli — Hispagna. (ST) Hispaqn,
corr. in ER. — io. lugendo, latin.,
' deplorando '. — 11. Diana ili Car-
doiia, figlia di don Artale e di
donna Maria Ventimiglia, promes-
sa ad ,\lfonso d'Avalos nel 1483,
e divenuta sua moglie cinque aimi
dopo neir"88: v. Borreili, Appa-
rai., voi. I, p. 23S ; Siimnionte ,
Scoì\, P ni, p 506, e Passare, p.
51. Il quale ricorda che, ai 9 di
b'ennaio 1488, essa sbarcò al Ca-
stello dell'Uovo, venendo dalla Si-
cilia, e che fu accolta con molto
onore. Questo sponsalizio, o « festa
dela marchese (cfr. son. C.KIII, s e
n.) de Piscara », è ricordata anche
nel voi. 124. delle Ced. di tesar, (f.
524 v), del 1488; perché vi prese
parte « la illustrissima donna loan-
na d'Aragona, figlia del Signor
Re ». — 19-23. Orazio, l. <^., 17-20:
«Desine moLlium. Tandem querel-
lanim et potius nova Cantemvs
Augusti tropaea Caesaris ». — 22.
Da questo e da altri luoghi (son.
CXLl, 3 ecc.) si rileva che il D'.\-
valos facesse anche dei versi, forse
in volgare (v. Vlutrod.i — 22-23 q.
intrepido ardimento del Duca ,
dev' essere certamente il disegno
di Fei'randino - era stato pur di
Ferrante I (Delahorde. p^ 303) - di
venir incontro ai Francesi in Lom-
bardia, prima che questi s'impu-
RIME
Del tuo Duca, pensier sol de gli del,
D'Italia iiniversal muro constante;
Queste vittorie tante ,
Che vedi , & de le quai gran parte lior sei ;
La fuga de la gente transalpina;
Et li pronosticati, alti trophei
Da quella sacra voce Sibyllina:
191
dronissero della Toscana e di Ro-
ma, alleate degli Aragonesi : cosi
s' allontanava la guerra dal Re-
gno, - e in caso di vittoria questo
non avrebbe nulla sofl'erto, - e si
portava invece nelle terre dello
Sforza, principal nemico degli A-
ragonesi, e, allora, amico di Car-
lo Vili. — 23. Ferraudino. — 25.
Queste. (ST) Quesse. — vittorie
tante non si possono chiamare
quelle poche scaramucce , vinte
dagli Aragonesi nella Romagna e
ricordate solo dal San .ito, Sped.,
pp. 78, 79, 81, 94 ecc. L'unica vera
vittoria degli Aragonesi l'u la li-
berazione liei Pitigliano, ritenuto
in Cesena da Guido Guerra, par-
tigiano dei francesi; ed essa si do-
vette tutta al coraggio di Alfonso
d'Avalos (v. Giovio, Istorie, lib.
n , p. 50 ). A questa pare si ac-
cenni anche nei vv. 38-45. — 26.
Virgilio, ^En. II, 3-6 : d... quaeque
ipse miserrima vidi Et quorum
pars magna fui ». — 27. La fuga
dei Francesi , come la clade del
vs. 33 (v. la n.) , (lev' essere un
augurio del poeta degli Aragone-
si, non un fatto; che, com'è noto,
Carlo Vili passò e ripassò per l'I-
talia, pur troppo!, senza essere
molestato; se |)er essa non si vo-
glia intendere la fuga dei France-
si e dei partigiani di Guido Guer-
ra da Cesena (v. Giovio, Istorie,
l. e, pp. 50-51 e la n. al v. 25). —
29 q. sacra voce Sibyllina. Que-
sto religioso (clV. il sacra), profe-
tizzante trionfi agli Aragonesi, non
è Francesco di Paola, certo più be-
nevolo a Carlo Vili, - ei visse lun-
go tempo alla corte francese, - che
non ai re di Napoli (w.Acta Sancto-
rurn, i, pj). 1 14 sgg., e Delaborde, p.
313); né il Savonarola, che « a-
voit tou.sjours preselle en grande
faveur du Roy )> ( Comines , Mé-
nioires, p. 500). Dei quattro brani
della profezia di san Cataldo, ar-
civescovo di Taranto, riferiti dal
Notar Giacomo (pp. 173-174), -il
testo completo ò nell'inedita Mi-
sto) ia Senensiuìn di Sigismondo
Tizio (Delaborde, j). 317), -solo il
primo ed il terzo farebbero al caso
nostro: « Item quod veniet Ser-
peiis - Carlo Vili, come nella n. ai
vv. 44-43 della canz. XVH?-qui
multa veiieno efl'uudet, deinde ve-
niet angelus cum gladio in manu
multa mala minando Dicebat e-
tiain quod omiies isti reges-gli
Aragonesi? - regnaturi usque ad
uovam {sic) generationem ». Si
credeva anche allora generalmen-
te , - e lo ricorda Sigismondo dei
Conti , Storie , p. no , - che alia
impresa ed alla fortuna di Carlo
Vili avesse accennato, un secolo
prima, fra Tommasuccio da Foli-
gno, nella sua profezia. E, vera-
mente, in questi versi, p. es. (e-
diz. Faloci-Pulignani, in Misceli,
francescana, 1, p. 155): « La gal-
lica lancia Non varrà una palla;
Et lassarà in travaglia Ciasche-
uno suo aderente », ogni cortigia-
no aragonese poteva veder pre-
detto chi sa che triontì e vitto-
rie pei suoi re! Né in quella cor-
te era del tutto ignoto il povero
frate: il Fontano ,- suo concitta-
dino, -ne ricordava una predizio-
ne nel trattato In centum sen-
tent. Ptolemaeì, lib. i, f. aiiii. —
192 RIME
Gratie eh' a j^ochl il ciel largo destina. 30
strenuo, saggio & inclyto Marchese,
— Il cui valore hor Rubicone admira ,
E'I Rodano paventa, & non in vano, —
Fané sentir col suon di propria lira
La clade de l'exercito Francese, 35
E '1 trepido fuggir di quel luliano.
sempre invitta, inexpugnahil mano,
Di doppio lauro degna, & di corona
Castrense, fané udir da viva voce
Quella battaglia atroce, 40
Che, con gli ausiàcii sunti d' Aragona,
Movesti, & riportasti aurea vittoria:
Onde le sacre dive in Helicona ,
30. È preso tutto dal Petrarca ,
1, CLix , i: « Grazie eh' a pochi
'l Ciel largo destina ». — 32. Ru-
bicone, ora ' Pisciatene '; qui per
' Romagna ', come il Rodano del
vs. seg. per ' Francia ' : storici
fiumi, non i più grandi di quelle
regioni: cosi nel Petrarca (III, xx,
5-6) il Tevero, l'Arno, il Po, per
' Roma ', ' Firenze ', ' Lombardia '.
— 35. V. la il. al vs. 27. — 36.
luUano. Fra i capitani di Carlo
Vlil, venuti in Italia, vi fu un
« monsignor luliano » ( Saniito ,
Sped. pp. 103. 663: v. anche Co-
mines, Méin. , p. 495, Delaborde,
p. 524 ecc.); ma di lui non si ricor-
da nessuna fuga. Il trepido p'g-
gir mi fa pensare, invece, a Giu-
liano della Rovere, cardinale di
San Pietro in Vincoli, il futuro
Giulio II, l'acerrimo nemica di A-
lessandro VI. Si sa , infatti , che
egli, fino all'aprile del 1494 amico
di Alfonso II, quand'elibe sa[)Uto
dell'accordo tra costui ed il papa,
e si vide da essi minacciato: - il
Borgia aveva attentalo alla sua
vita (Sanuto, Sped. p. 42); Alfonso
mandava contro di lui, in Ostia, le
sue e le trujìpe del papa, - vestito
da monaco fuggi a Civitavecchia,
di dove, imbarcatosi per Savona ,
venne ad Avignone, suo arcive-
scovato. Carlo Vili - che lo voleva
in Francia ])er opporlo ad Ales-
sandro VI, - gli mandò incontro il
siniscalco di Beaucaire; ed a Lione
gli fece poi un'accoglienza trion-
fale. Il re infatti n' ebbe molto
aiuto neir impresa di Napoli, per-
ché il cardinale conosceva molto
bene V « intrinseco w d' Alfonso
( Delaborde , pp. 346 sgg.). — 38.
di doppio lauro d.: perché uomo
(lotto e poeta, e perché valoroso
guerriero: cosi nel Petrarca, I, ex,
6: «0 sola insegna al gemino va-
lore 0. — 38-39. corona Castrense,
davasi , presso i Romani , al pri-
mo che penetrasse nel campo ne-
mico. Qui e nei sgg. vv. s'allude
al fatto di Cesena, ricordato nella
n. al vs. 25. La città « già quasi
tutta . . . seguitava le insegne di
Guido [Guerra I , et de' Francesi,
quando Alfonso Danaio et il Li--
uiano... con una 'b;inda eletta di
caualli entrarono in Cesena per
la rocca, abbassando loro subito
i ponti Giovanni Caroccio castel-
lano » ( Giovio , /. e, p. 50). —
RIME 193
Et Marte , che uel ciel s'allegra & gloria,
Fan de le tue vertù chiara memoria. 4:,
fortunato te, s'hai pur notitia
Del ben, che'l ciel con mano liberale
Ti die', con sorte fixa & sempiterna.
Che, se perdesti la consorte, eguale
A l'alta tua vertute & pudicitia, 30
Hor in tua moglie hai presa fama eterna.
Non si ritrova ingegno , che discerna ,
Qual sia jdìù bello in te, luce del mondo:
Forte coraggio in membra agili & pronte ,
in severa fronte 55
L'alto intelletto, o'I ragionar facondo:
Ciò che non fu giamai in uno inseme,
Salvo in quel primo, a cui sei tu secondo:
Quel gran duca , che i monstri horrendi hor preme ,
Quel d' Hesperia tutela & sola speme. 60
Io dico quel di principi il magiore ,
di', onde esce il sol iusino ove discende,
Un altro eguale a lui non si ritrova.
Al fulminar del qual 1' Alpe tremende
Treman con paventoso & freddo horrore; 65
Che l'antiquo terror già si rinova.
Onde mi par che tal voce si mova:
— Cesare un'altra volta è sceso in terra,
Anzi altro Scipion con altro Lelio,
Vittori in ogni prelio. 70
44. Petrarca, II, liv, io: « Quasi
d'un più bel Sol , s'allegra e glo-
ria ». — 58. Ferrandino. — 59. i
monstri b., 'i Francesi'. — 59-60.
Cfr. son. Ili, 2-3. — 60. Hesperia,
latin., 'Italia'. — 61-62. Ct'r. 0-
razio, Od. IV, 11, 37-39: « Quo ni-
hil maius ineliusve terris Fata do-
navere bonique divi Nec dabunt «.
— 63. Orazio, Od. I, xxiv , 8:
« Quando ulium inveniet parem ».
— 64. AI f. (ST) Il f. , non corr.
in ER. — (ST) alpe. — 64-63. Vir-
gilio , - per la morte di Cesare , -
Georg, i, 475: «... insolitis tretnite-
rimt nioùbus Alpes ». A questo
terrore s'allude anche nel vs. seg.
— 67. Cfr. Dante, Vit. N., p. 149:
e E par che de la sua labbia si
ìnova Un spirito». — 68. Cesare:
cfr. son. CXLVIII, 7 e ?u— 69. P.
C. Scipione, l'Affricauo, ed il suo
25
1 94 EIMK
Quel Giove, & questo un fulgure di guerra,
Misso da lui con tai tuoni & sì forti,
Che i piani e i monti , e i gran giganti atterra ! —
Ferrando , per te l' irapie cohorti
Iraparan di temer l'horrende morti.
Canzon, quest' è la via per l'alto Olympo:
Che, 'n quante cose sono al mondo belle,
■ Sola vertù tien luogho intra le stelle.
73
78
SONETTO CL.
Qual fera incauta, in selva in prato herboso
Errando, di lontan punta si sente
D'una & d' altra mortai saetta, ardente,
Et fugge, ove piìx vede il boscho ombroso;
Et tal li dà quel colpo doloroso ,
Ch'ignora il suo ferir, perché V è absente,
Lei corre ardendo, & fixo fermamente
Se n' porta al fianco il dardo venenoso ;
Tal mi trov' io , ch'or più che mai mi tira
Da lunge la mia Luna, & lei non crede.
Ch'accende di lontan chi non la mira.
Da presso agghiaccia il cor de chi la vede :
Hor m'agghiacciasse, ove '1 bel gelo aspira,
Né sempre sol d' arder facesse io fede !
14
Caio Lelio: v. la n.al son. XCII,
12. — 71. Virgilio, ^En. vi, 842-
843: « . . . aut geminos , duo ful-
mina belli Scipiadas ». — Quel è.
— 71-72. Cfr. Ovidio, Metani. \,
154-155: « Tum pater omnipotens
misso perfregit Olympum Fulmi-
ne y>. — 72. lui, Giove. — 76. Seneca,
Octavia, 467 : « Haec summa vir-
tus, petitur hac caeium via ». —
(ST) qnest. — yS. Da Seneca, i/er-
citl. Oet. 1568: « Sed tocum rir-
tiis habet Inter astra ».
Son. CL. — 1-8. Da Virgilio ,
./ìJ/i. IV, 69-73 : «... qualis conie-
cta cerva sagitta , Quam procnl
incautam nemora iuter Cresia fi-
xit Pastor agens teiis liquitque vo-
latile ferrum Nescius, illa fuga sil-
vas saltusque peragrat Dictaeos ,
liaeret lateri letalis harundo ».
Ed il Petrarca, I, clv, g-n : « E
qual cervo ferito di saetta , Col
ferro avvelenato dentr' al fianco
Fugge , e più ducisi quanto più
s'affretta ». — 6. absente , latin. ,
' lontano': cfr. son. CXXXIII , 4
e n. — g-io. Cfr. Petrarca, l. r.,
8: « Ma com' più me n'allungo e
jiiù m' appresso ». — 11. Petrar-
ca , TV. I, III, 168: « Arder da
lunge ed agghiacciar da pres-
so)); e cosi anche I, CLxix, 12. —
13. aspira, latin., ' soffia'.
RIME
^95
SONETTO GLI.
Eime, versi, canzon, che dolcemente
Apreste il core a cui l'ha sempre in mano;
Soiivi accenti , un tempo sparsi in vano,
Tornate homai, ch'Amor già ve'l consente.
La Luna mia da 1' ultimo occidente,
(Come sentir mi pare hor da lontano,)
Lampeggiando col bel sembiante huraano.
D'amorosi pensier m'empie la mente.
Queir honeste accoglienze in dolce honore,
Dove splendea del ciel la vera gloria,
Negli occhi mi son sempre e 'n mezo al core.
Di ciò, ond'io fui beato in tanto ardore.
Non di crudeli sdegni, ho sol memoria:
Amor, tu'l fai per mio magior dolore !
14
SONETTO CLII.
Nel tempo, ch'accendea l'impio Mavorte
L'alto Aragonio Re centra '1 Francese,
Vide tra gli altri armato un gran Marchese,
Che de vertù vencea l'huraana sorte.
Son. CLI. - 2. Cfr. son. XXIII,
,. 2 _ 8. Petrarca, III, 11,12:
« D'amorosi petiseri il cor n'en-
gombra ». — 9. Dante, Pia-g. vii,
1: «Poscia che V accoglienze 0-
neste e liete ».
Son. CLII. — Per la morte di
Alfonso d"Avalos, ucciso a tradi-
mento da un moro, al servizio dei
Francesi, su di un muro del castel-
lo di Pizzofalcone (Passaro, p. 81 ;
Giovio,7s?or. lib.in,p. 1 19), la notte
del 7 settembre 1493. Il Gareth la
cantò anche in molle terzine ed in
un canto intero della sua Meta-
morfosigli, 94-18Ó, IH, i-i4>- E
pure per questa morte il Sanna-
zaro scrisse una Visione {Opere,
pp. 407-411); il Pontano un epi-
gramma {De Tumulis, i, p. 104
v); l'Ariosto dieci versi dell' Oì^l,
fur. XXXIII , XXXII , 7-S, xxxiii,
i-S. Alcune notizie sulla sua mor-
te, e molti brani di questi autori
nelle nn. ai cauti citat della Me-
tam.~ì-2. Nelle battaglie che
Ferrante II {V Aragonio Re), so-
stenne per riconquistare il Regno
contro i capitani dell'esercito fran-
cese , lasciati in Italia da Carlo
Vili. — 1. Mavorte, latin., ' Mar-
te ': cfr. canz. XIII, 120 — 3. Vi-
tgè RIME
D' invidia punto dunque, borrendo & forte,
Tre volte l'assaltò con arme accese;
Tre volte tornò indietro, & si difese
Con quello scudo, in cui non può la morte.
Ricorse allbora a l'arti fraudulente,
Et di notte il ferìo con duro strale ,
Credendo haverlo extinto eternamente.
Ma peggio fé' per sé ; che , dal mortale
Career disciolto , lior quel Marchese ingente
Lo vence in ciel: che 'n ciel fraude non vale.
SONETTO CLIII.
Mentre che d'Aragona il sommo honore
Tra Galli & Cymbri il suo destrier regira,
Quel volgo inconsueto il volto admira.
Invidiando al suo chiaro valore.
Confessa , o turba iniqua , il j^roprio errore ,
Che, se costui com' liuom vivendo spira,
Egli è pur dio, che con giustissima ira
Ha posto a terra il barbaro furore.
Fugge infelice, & le tue colpe emenda;
Fugge, come l'augel con gli occhi frali,
A cui del sole i rai son notte borrenda.
Non mirar più quei lumi , al cielo eguali.
de Marte. — 6-7.Cfr.il virgiliano ^ durò il regno di Ferrante II (vs.
{JEn. VI, 700-701): « Ter cena- j i).— 2. Cymbri. I soldati alemanni
tus ibi collo dare bracchia cir- ; mercenari dell'esercito di Carlo
cum, Ter frustra compreusa ma- i Vili, che conduceva con lui « stra-
nuseflugit imago ».— 12-13. mor- j niere generatione...Elemani, Sgui-
tale Carcere. Cfr. il petrarchesco j zeri, Picardi, Scozesi, Bertoni et
(II, e. IV, 101; Lxxvii, 9-10): «E ; simel zente barbare» ( Sanuto ,
da quel suo bel carcere teiTeuo »,
«...del terreno Carcere uscendo » ;
e cfr. XLV, 1 2 : « Cosi disciolto dal
-mortai mio velo ». — 13. ingen-
te, latin., ' sommo '.
SoN. CLIIf. — Scritto tra il gen-
naio 1495 e l'ottobre '96, quanto
Sped., |). 184). Il Delaborde li
chiama (p. 326): « lansquenets al-
lemaiids ». — 8. Petrarca, I, xxiii,
3 : <i Con le mie mani avrei già po-
sto in terra ». — barbaro, ' fran-
cese ': canz. VI, 279. — lo-ii. V.
canz. XVI, 33-36 e'n. — 11. notte.
(ST) morte, corr. in ER.
EIME
Che si fan sol veder, perché s'entenda,
Che centra un dio non ponno arme mortali.
197
14
SONETTO CLIV.
Vorrei cantando io misero allegrarme,
Et dir de la mia Luna in dolci rime
Le divine bellezze al mondo prime,
Di cui osai io primo innamorai'me;
Et rimembrar con alto, ornato carme
Del mio Aragonio sol, chiaro & sublime,
Il regno, li trophei, le spoglia opime ,
Recuperato con giustissime arme.
Potessi almen formare un flebil canto
D'absentia & morte; ond'io da gli occhi verso
Onde d'eterno & miserabil pianto!
Ma donde usuir può l'uno & l'altro verso,
S' un nimbo Occidental mi turba tanto ,
Ch'io son nel mar di lagrime sommerso!
14
SONETTO CLV.
Quando Minos d'Athene hebbe il governo.
Si fé' le sacre Muse tanto infeste ,
Che, benché meritasse il ben celeste,
Son. CLIV. — Scritto dopo l'ot-
tobre 1496: V. la n. ai vv. 7-8. —
3. Petrarca, I, cv, 2 : « E celesti
bellezze al mondo sole ». — 4.
(ST) inìiamnraviue . — 7-8, La ri-
conquista del rep-iio fatta da Fer-
randino (V Ara goni n noi del vs. 6),
tra il hiirlio 1493 e l'ottobre '96. —
IO. absentia , htlin. , ' lontanan-
za', della sua Luna: cfr. son. CL,
ó e n. — morte di Ferra nditio. —
10-11. Petrarca, L li. m, 12: k L'on-
de che gli occhi tristi versan sem-
pre )) ; li, XI. lo-n : « .. a che pur
verni degli occhi tristi un dolo-
roso fiume?)). — 13. É preso dal
Petrarca, - di Laura ch'era morta
di peste, - II, e. m , 20-21: « Poi
repente teniiiesta Orientai turbò s\
Y aere e l'onde »; e cfr. Ili , ix ,
io: « n'un vento occidental dolce
conforto )). — nimbo, hit., ' nube
piovosa '; e per essa pare che in-
tenda ' il dolore per la lontananza
della sua donna, ch'era in Ispa-
gna (cfr. occidental) \
SoN. CLV. — Diretto a Pier Gio-
vanni Spinelli: v. r>. al vs. ic. —
1-2. Cfr. Vir.ffiiio, Ciris, 1 10-1 11 :
« liane urbem ante alios qui tuni
198 RIME
Quelle pur lo mandaro al negro inferno.
Chi per chiara vertù l' infame Averne
Abhorre , hor prenda exempio, & non moleste
Con impia lingua, con opre inhoneste,
Chi sa le charte empir d'inchiostro eterno.
Ma tu perder non puoi V alta fatica,
Pier Giovanni Spinello, animo degno,
A cui la Musa sia verace amica.
Di ferro armato & di pietoso sdegno
Ti vidi, per servar la fede antica,
Quando al Re suo rendìo Napol il regno.
14
SONETTO CLVI.
Tempo fu già, eh' un ghiaccio er'io dappresso,
Hor son un foco, & più, (me misero!,) ardo,
Quanto più son lontan dal chiaro sguardo,
Che riveder mai più non m' è concesso. 4
florebat in armis Fecerat iufestam
populator remige Minos «. — 4.
Minosse era L;iudice nell" Inferno
(Yirfìilio, ^-Ea. vi, 432 ecc.). —
10. Pier Giovanni Spmello , fi-
gliuolo di quel Francesco, sopra-
stante delle mura di Napoli nel
14S4 , e neir '86 ambasciatore a
Venezia, e rimatore (v. Torraca,
BiòCKs., pp. 130-131): è ricordato
spessissimo nelle carte d' Arch. ,
dal 1480 in poi, come « criato »
e « cortesano » , o tra i « gentil-
homini et ofliciali della casa dei
Signor Re » (v. Ced. di tes. voli
78, 85, 124, 142, ecc.). Nel i4g2
in ambasciatore di Peritante I ni
Ispagna {Ced. di tesor., voli. 14Ó,
fi'. 74 V, 480; 147. ff. 87 V, 466);
e nei '97, di don Federigo a Ro-
ma (Ced. di tesar., voi. 162, f.
193 v). Nell'anno seguente è « re-
bostero magior del Re » (Ced. di
tes., voi. 164, f. 106). A lui ed al
fratello Blasco concesse Ferran-
te I la castellania del castello di
Trani (v. Minieri-Riccio , Biogr, ,
pp. 23-26, ove è riferito il son. del
n.). — 12. Petrarca, Tr. IV, i, 28:
« Gente di ferro e di valor ar-
mata ». — 12-13. Il G'tov'ìo (Tstor.
lib. ni, p. 114): ricorda che, nel-
l'entrata di Ferrandino a Napoli.
« Giovanni Spinelli... mise su una
pertica V arme di casa Aragona ,
che era lavorata all'ago in una
coperta di lana, & con grande al-
legrezza di tutti la poso alla fine-
stra à farla vedere a coloro che
passavano ». — 14. Nel giugno 1495
i Napoletani, stanchi dei Francesi
di Carlo Vili , si sollevarono, ri-
chiamando Ferrandino: il quale il
7 luglio sbarcando al ponte della
Maddalena rientrava in Napoli ,
a armato con una corazzina cher-
misina inchiavata d'oro, in mezzo
allo Marchese di Pescara da mano
destra, e da mano sinistra il Cha •
riteo poeta di quello tempo » (Pas-
saro, p. 77). Il n. era a quel po-
sto, perché segretario del re: per-
ciò il vidi del vs. 13.
SoN. CLVI,— I. V. son. CLVI,
RIME 199
Perché non son crudel contra me stesso ,
Ch' a veder lei , quando potei , fui tardo ?
Forse temea di sdegno il fero dardo ,
Che le spalle mi fé' voltare spesso. S
Iniquamente io parlo , — ai , occhi frali ! , —
Che non fu sdegno il suo, fu fallo il nostro,
Di mirar gli occhi , a noi tanto iuequali I 1 1
Alma mia dea, non fu disdegno il vostro,
Anzi pietà, soffrire occhi mortali,
Et mai non transformarli in qualche mostro ! 14
SONETTO CLVII.
Baro! ti tien , di Thermule gran duca,
II e n. — 8. Petrarca, I. e. i, 17-
18: « Ed un pensier, che solo an-
goscia dàlie Tal, eh' ad ogni al-
tro fa Voltar le spalle » : od an-
che HI , IV , 1 ; IX , 8. — 14. Al-
lude foise alla l'avola di Atteone,
che, avendo veduta nuda Diana,
fu da lei trasformato in cervo (0-
vidio, Metam, ni, 173 sirg.).
Son. CLVII. — Ad Andrea di
Capua, duca di Termoli: v. le nn.
sgg. — Scritto negli anni 1502-03 :
V. la n. ai vv. 1-2 — i. Barol. (hit.
Barolutn), ' Barletta'. — di Ther-
mule g. duca. Andrea di Capua,
figlio di Francesco, settimo conte
d'Altavilla, e di Elisabetta de'
Conti, per l'eroismo del fratello
Giovanni,- che nella, battaglia di
Seminara, cedendo il suo cavallo
a Ferrandino, cui era stato ucciso
il suo, salvò la vita al re, andan-
do lui incontro alla morte ( Pas-
savo, p. 75, Guicciardini, Stor. lib.
II. 207), - si ebbe da Ferrante II,
nell'anno istesso, la carica di ca-
merlengo { Ced. di tes., voi. 146,
f. 21), il casale di Marcianise in
perpetuo , le terre di Montagano
e di Serracaprioia col titolo di
conte ( v. Ammirato , Fam. nob.
nap., P. I, p. 79), e quella di Ter-
moli, in Capitanata, col titolo di
duca ; e , fra altre concessioni, a
Napoli una « massaria cum domi-
bus et Cunigliera site in loco ubi
dicitur a li Virgini » {Sigili, della
Somm., voi. 41, fi". 44 v-45 v; tutti
firmati: Chariteus). Caduti gli A-
ragonesi , segui le parti di Spa-
gna: nel giugno del 1502 difese
Atripalda dai Francesi , e nell' i-
stesso tempo si rinchiuse col gran
Capitano in Barletta, ove restò sino
all'aprile del 1503. Durante que-
st'anno, insieme a Consalvo, accom-
pagnò e andò incontro ad Ettore
Fieramosca ed ai suoi tredici com-
liagni, vincitori dei Francesi; e fu
alla battaglia di Cerignola (v. Pas-
sare, pp. 129, 131, 133, 134, 136).
('apitano di gente d'arme, sin dal
1503, del re cattolico {Ced. di te-
sor., voi. 168, f. 170 e voli, sgg.),
fu da lui inviato nel 15 io eoa
400 lance spagnuole in aiuto del-
l' imperatore Massimiliano, e da
Giulio II, eletto capitan generale
delle sue genti. Mori poi di « pe-
stifera infermità » a Civita Castel-
lana nel 1 312 (Guicciardini, Stor.
libh. Ili, 350, IV, 52; Ammirato,/, e).
Il Passaro (p. 17S), invece, lo dice
morto nel 20 dicembre 1511, forse
« intossicato ». La moglie, Maria
100
RIM£
Di perigliosi ailaimi in tanta mole ,
Che, centra '1 ben comune erra, chi vuole
Pai'larti d'opra fragile & caduca.
Io, benché affetto a scriver mi conduca,
Non però spargo in van le mie parole;
Voltesi il fato & varie, come suole,
Ch'ai mondo il nome tuo conven, che luca.
Veramente Giunone è la fortuna
Contra Hercole & Enea, vera noverca
Di quei, che '1 ciel per sé crear si volle.
Ma r ardente vertù fatica alcuna
Non fugge, né recusa, anzi la cerca;
Onde la irloria tua nel ciel s' extolle.
14
SONETTO CLYIII.
Come natura exempio al mondo diede
Del suo perfetto, angelico valore
Per mezzo del tuo volto , ove '1 fulgore
Di celeste beltà qua giù si vede;
Et come anchor, per te, dio ne concede,
Che, senza offender lui, si serve Amore,
Adorando ne l'opra il sommo auttore,
Che fa de la sua luce in terra fede;
Cosi vedendo Amor, ch'absente ardendo
d'Aierbo, gl'innalzó il sepolcro nel-
la Chiesa degl' Incurabili (1531Ì: v.
Filangieri, Docum. voi. tu, p. 36 —
1-2. Stette rinchiuso in Barletta dal
giugno 1502 all'aprile 1503: v. la
seconda n. a questo son. — 7. In
Dante la Fortuna (/"/'. vii , 96):
(( Volve sua spera », e gira ( xv,
95-96): «... la l'uota Come le pia-
ce ». ' La fortuna è veramente Giu-
none contro Ercole ed Enea, cioè
matrigna con i prodi '. — 9-1 1. Era
o Giunone, in Omero (Iliad. xiv,
254 sgg.) ed in Virgilio {JEn. i, 36
sgg.) , cerca di far perire in una
tempesta Ercole ed Enea persegui-
tati da lei ; ma ebbe forse presenti
quelle parole di Giunone presso Se-
neca (Hercul. fur. 110-112): « Me
me, sorores, mente deiectam mea
Versate primara, tacere si quicquam
apparo Dignum ìioverca ». Allude
forse alla morte del fratello Gio-
vanni (cfr. al vs. 1), ed a quella di
Ferrandino, valorosi e sfortunati. —
IO. noverca, lat., 'matrigna'.— 11.
E quasi ri[)etizione del vs. i del s.
CLVII.— 14. extolle, lat., 'innalza'.
SoN. CLVIIL— Forse a Costanza
d'Avalos. — 7. Cfr. son. I, 14. — 9.
RIME
201
Temo morir , per darmi aucho speranza ,
Di te mi mostra exemplo, a te servendo.
Io pasco gli occhi senza desianza
Ne l'imagine bella, & non ti offendo,
Adorando te sola in tua sembianza.
14
SONETTO CLIX.
Frondosa arbor , gentil , sempre fiorente ,
Sacrata a la celeste, eterna diva ,
Di cui la sapi'entia alta deriva,
Dove senza pentir gode la mente;
Quando fia mai , che '1 ciel benegnamente
Ne porga i tuoi bei frutti, bianca Oliva,
Et produca liquor, per cui reviva
Di vera carità la lampa ardente?
Quando fia mai, ch'io veggia l'alma, eterna
Vertù tener , nel suo supremo stato ,
Le chiavi in man de la magion superna?
absente, latin , ' lontano '. — 10.
CtV. son. I, 14.
SoN. CLIX. — Al cardinale 0-
liviero Carafa. Secondogenito di
Francesco e di Maria Orifrlia, fu
arcivescovo di Napoli (1438-64), -
poi vi rinunciò a favore di suo fra-
tello Alessandro; - presidente del
Sacro Regio Consiglio (1463-67) e
viceprotonotario, poi cariiinale nel
'67, legato di Sisto IV a Ferrante I
nel "71, legato e comandante del-
l'armata pontificia contro il Turco
nel '72; neir '82 fu paciere tra Si-
sto IV e Ferrante I, dal quale era
stimato e adoperato molto nelle
frequenti controversie co' pa|)i. Nel
'97 fu dei sei cardinali riforma-
tori della Chiesa. Ritornò , dopo
vent' anni a Napoli, nel 1498 ai
« 27 Aprile con molte Galee , e
sbarcò nel Castello dell'Ovo, e fu
ricevuto dal Re Federico , e dal
popolo con tanto applauso, e tanti
honori , che simili appena si have-
rebhero possati fare al Pontefice;
li 28 del detto mese entrò in Na-
poli, e fu accompagnato da grande
comitiva de' Baroni, Ofììcia li. No-
bili, e Popolo, con archi trionfali,
e superbo apparalo, fin al Palag-
gio Arcivescovale, per la benevo-
lenza , che li portavano , per le
sue rare virtù, & odore di santità,
che si sentiva per tutto » (Aldiraa-
ri , Ilist. d. funi, (arafa , ni , 8
sgg. ; V. anche Notar Giacomo ,
p. 221). A lui diresse il n. anche la
canz. XX. Forse in quella occa-
sione furono scritti questo ed il
son. seg. — I. arbor, lem alla la-
tin. — 2. e. e. diva : la Teologia.
— 6. b. Oliva. Allude al nome
del Carata: Oliviero: v. la n. al
son. CXI, 1. — In tìiie del vs. un
interrogativo, trasferito da me in
fine del vs. 8. — 9-1 1 . ' Quando ve-
drò fatto papa uu uomo virtuo-
so, come te? ' — chiavi. Cfr. Mat-
26
202
RIME
Sacro santo Oliver, volesse il fato,
Che fusse la tua mente in cui governa,
tu del mondo havessi il principato !
H
SONETTO CLX.
Liquor di quelle due feconde olive,
Vedute da quel Vate , al cielo intento,
Gli' a la lampa eternai dan nudrimento ,
Per te l'aline vertù son redivive.
Tu le sette lucerne ardenti & vive ,
Che di sette vertù son argumento,
Pasci col frutto tuo , medicamento
Salubre, onde lor lume eterno vive.
Olivero, il bel nome è chiaro segno ,
Che non indarno il ciel largo ti diede
Divina sapientia & alto ingegno;
Ch' io ti vedrò ne la Eomana sede
Et aprire & serrar di cieli il regno.
Che la salute fia di nostra fede.
H
SONETTO CLXI.
Corre '1 tempo con gli anni e' giorni in fretta,
teo, XVI, 19: « Et tibi dabo cla-
ves regni coelorum ». — 13. in
cui governa, ora, i crisliani: A-
lessandro VI?— 14. ' che fossi
tu il pontefice '.
Son. CLX. —Allo stesso cardi-
nalp. — 1-2. Allude al luogo ì\q\-
V Apocal. XI, 4: « Hi snnt duae
olivae et duo candelabra in coii-
spectu Domini terrae stanles)i;e
con Vate all'autore di essa, Gio-
vanni, evangelista. — 5-6. Apocal.
I, 12 : «... et conversus vidi septetn
candelabra aurea)). — 10-11 Cfr.
Petrarca, III , ix , 64-65 : « E che
'1 nobile ingegno, che da '1 cielo
Per grazia tien' de l' immortale
Apollo ». — 12-13. Il Carafa non
fu mai papa; moii a Roma il 20
gennaio 151 1, essendo stato qua-
rantaquattr' anni cardinale. — 13.
Dante, htf. xxvu, 103: a Lo ciel
poss'io serrare e disserrare )>: cfr.
Matteo, XVI, 19.
Son. CLXI. — Forse ad Andrea
di Capua , duca di Termoli , per
il quale v. il son. CLVII: anche
qui (vs. 5), come ivi (vs. i), è detto
G>'an duca. — i. e'. (ST) &, —
1-2. Tibullo, I, IV, 27-28: «... tran-
siet aetas. Quam cito non segnis
stat remeatque dies\ »; Ovidio ,
li' età velocemente al fin contende ,
Ma più corre verta, che, dove splende,
In pueritia mostra età perfetta.
Gran Duca, in cui natura si diletta,
Quanta perfettion di te s' attende ,
Che, se '1 bel fior salubre odor ne rende,
Qual dal pomo dolcezza il mondo aspetta !
Valore immenso io veggio in te raccolto,
Gravità nel parlar, beltà nei gesti,
Nel cor fortezza & maiestà nel volto.
Tu da i campi del ciel frutto cogliesti,
Che molti han seminato , & pochi còlto:
Sì rare in terra son gratie celesti!
H
SONETTO CLXII.
Gli occhi sitienti ai fonti Hispani invio
In nave di speranza & d'ardimento;
Per l'onde di pensier vola col vento
Di miei sospir la vela del desio.
Amor tiene il governo in mano, ond'io
Fast. VI, 771-772: a Tempora !a-
buntur, tacilisque senescimus an-
DÌs,Et fiipiunt freno non remorante
difis »; Meram. x, 519-320: « Labi-
tur occulta, fallitqiie volatilis ae-
tas\ Et nihii est annis velociv.s )i;
e cfr. la canz. XIII, 1-3 e n. — 13.
Cfr. Matteo, xx, 16: « Multi eniiii
sunt vocati; palici vero electi ». —
14. Cfr. canz. XIX, 30 e n.
SoN. CLXII. — Ali imitazione del
Petrarca, I, cxxxvn. — i-ii. Il p.
immagina: 'Che gli Occhi suoi,
desiderosi di veder la Luna, par-
tino nella nave della Speranza e
dell'Ardire, per la Spagna. La vela
è il suo Desiderio, che, mossa dal
vento dei suoi Sospiri e condotta
da Amore, corre sull'onde dei suoi
Pensieri. Ma un nembo, che viene
dallo sdegno della Luna, spezza la
nave contro gli scogli dell'oblio.
Gli Occhi sono salvati da Amore:
ma la nave della Speranza e del-
l'Ardire pei-isce '. E cioè: che gli
occhi suoi, per quanto sieno au-
daci, non hanno jìlìi nessuna spe-
ranza di veder la Luna! — 1. si-
tienti , latin. , ' bramosi '. — fon-
ti , latin., 'sorgenti', in rapporto
col s>cip»ti. — 2-4. Petrarca, l. e,
I : « Fassa la nave mia colma
d'obblio »; e 4: « A ciascun remo
un pensier pronto e rio » ; e 7-8:
« La vela rompe un vr'nto umido
eterno Di sospir, di speranze e di
dfsio ». — 5-8. Petrarca, l. e 3-4:
c(... ed al governo Siede '1 signor,
anzi '1 nemico mio »; e 6: « Che la
204 ^"^^^
Del turbido ondeggiar mai non pavento ,
Ma vien da sdegno un nimbo in un momento,
Che rompe il legno a le Syrte d' oblio. 8
Salvansi gli occhi, Amor in sé gli asconde,
La speme nel crudel gorgo di Lete
Cade, & l'ardir anchor vi si confonde. n
Ardon più gli occhi. — Ai, occhi! , in elèi vedrete
Volar delfìn , notar falcou ne 1' onde ,
Prima che disbramar la vostra sete ! — 14
SOiNETTO CLXm.
Fior d' Aragon , di cui la regia fronte
Circundan sacre, pie, purpuree bende.
Ove virtìi lampeggia, ardendo, e splende,
Come 'n tenebre fiamma in alto monte ;
Quando con penne altere, invitte & pronte,
Penne di carità, che '1 cor t'accende.
tempesta e 'I fin par eh' abbia a
scherno»; e 9-10: a Pioggia fli la-
grimar, nebbia di sdegni Bagna e
rallenta le già stanche sarte »; e
3: (( Intra Scilla e Cariildi ». — 8.
Syrte, latin., ' lianchi d'arena'. —
g-ii. Petrarca, /. r.. 12-14: i< Ce-
lansi i duo niifi dolci usati segni;
Morta fra l' onde è la i-agion e
l'arte: Tal ch'incomincio a dispe-
rar ilei porto ».— 10-11. V. il son.
LXVIII, 8 e n. — 13. Cose impos-
sibili. Da Orazio, Epist. Il, in, 30:
<( Didphinnni silvis adpin^it , flii-
ctibus aprimi ».
SoN. CrAIlI.-Al cardinale Lo-
dovico d'Aragona, in Is|)agna. Fu
scritto dopo il primo settetidire del
1499: V. ri. seg. — 1-4. Fior d'A-
ragon ecc. Lodovico , priniocreni-
to (n. 1476: cfr. F'ilangiei-i , Do-
ciim.. voi. I , p. 266) di don En-
rico, illegittimo di Ferrante I (Ar-
ch'v. stor. nap. xiii, p. 130 sgg.),
ebbe dal re nel '79, per la morte
del padre , il marchesato di Ge-
race; nel '92 sposò la nipote di
Innocenzo Vili , Battistina Cibi)
(Passare, p. 53, Notar Giacomo,
p. 175); nel maggio '94, rimasto
vedovo e senza figli, e rinunziato
il marchesato al fratello Carlo, fu
fallo protonotai io , e, nel 20 di
quel mese, cardinale d'Aragona
(Passaro, p. 59, Notar Giacomo,
p. 181). Tra il marzo e il mag-
gio del '96, insieme al gran Capi-
tano , riconquistò la Calabria a
Feltrante li (Passaro , p 92, 94,
93, 99). Il primo settembre '99 si
imbarcò al Molo grande di Na-
pidi, per accompagnare « jiietosa-
mente » - secondo il n. (cfr. vv. 5-
6) -in Isjiagiia Giovanna d'Arago-
na, la vedova di Ferrante l, presso
l'Vrdinando il Cattolico , fratello
di lei. (Passaro, pp. 120- 121) Nel
1 304 era di nuovo in Napoli. Mori
poi nel 1519 in Roma, ancor gio-
vine (v. Passaro, p. 281)- " Gareth
era molto inlimo del cardinale: v.
RIME 205
Volasti, ove la luna occidua scende,
Vedestila cader ne l'horizonte? 8
Non ti sdegnar, signor, di farmi aviso
Di lei, ch'envola il cor de chi la vede.
Se 'n occidente anchor declina il viso. n
Cosi ti veggia in quella altera sede
Serrare & disserrare il jiaradiso ,
E i IJe ti basen tutti il sacro pede, 14
SONETTO CLXIV.
In qual parte del mondo e , lasso ! , hor quella ,
Ch'ai partir mi lasciò più fiamme accese ?
Che , poi eh' a l' occidente impio discese ,
Non oso dimandar di lei novella.
Di lei, che'n Napol non minor procella
Che nel mio cor, lasciò. Ai, bel paese.
Dece anni hor son, & con lor giunto un mese,
Ch'a me, né a te non false amica stella!
Ma come Amor non ha vergogna scorno,
Quando, pur lusingando, ei mi suol dire.
Ch'io spere anchor felice & chiaro giorno;
So che m' inganna, & pur mi piace udire
VTntrod — 7-S. In Ispagna. ' Dove
la luna, tramontando, pare che
cada nell'orizzonte '. Intende quin-
di anche della sua Luna , venula
o tramontata in Ispa,?na — 7. (ST)
Luna. — occidua, latin . ' in tra-
monto '. — 8. In (ST) manca Tin-
terroffativo; invoco c'è ai vs. 11, di
doveì'ho tolto.— n. declina il v.,
latin., ' torce ecc. '; cioè: se è an-
cora altera. — 12-14- Gli auguia il
pontificato: cfr. sonn. CLIX.-CLX,
vv. 12-14. — '3- Diinte, Inf. xxvii,
103: cfr. son.'CLX, 13 e n.— 14.
basen, ' bacino ': dal vernac. na-
pol. vaseno.
Son. CLXIV. — Fu scritto il 10
novembre 1502: v. la n. ai vv.
y.g.— ,. Petrarca, I. cvui, i : a In
qnal pai-te del ciel...^).— 3. pro-
cella. CtV. Petrarca, II, e. viu ,
69: « Pon mento in chs terribile
procella V mi ritrovo ». — 7-8. Ai,
bel paese ecc. Cfr. Petrarca, lì,
X, 14: « Oh che bel morir era og-
gi è terz' anno! ». — 7. Poiché la
Luna parli ai io ottobre 1491 ,
dieci anni, i)iti un mese dopo, cor-
rispondono al IO novembre 1302. —
8. false, latin., ' risplendette'. —
12-14. Cfr. Ovidio. Epìxt. xni, 108:
« Dum careo veris, gaudia falsa
iuvant ».
206 RIME
Il falso più, ch'accenne il suo ritorno,
Che '1 vero, end' io piìi pianga & più sospire ! 14
SONETTO CLXV.
Hespero, ne l'Hispano & ne l'Ausonio
Cielo fulgente , al vespro & al mattino,
Gloria del nome d'Avelo & d'Aquino ,
D' Olj^mpo in terra & fede & testimonio ; 4
Per te si cangia ogni ampio patrimonio,
Margarita del ciel, regno divino;
Per te, Sol di vertù, scorta & camino,
Che guida al glorioso antro Heliconio. 8
Sidereo volto, in cui flagra il ])ìh vivo
Lume, che false mai ne gli elementi,
Di beltà sempiterna argenteo rivo; u
Non solo agli occhi spargi i rai lucenti.
Ma fulgi anchor nel viso intellettivo
Di tai , che non ti fur giamai presenti. 14
SONETTO CLXVI.
Summontio mio , dal summo Aonio monte
Sceso tra noi con gli occhi sì j^ossenti,
Che 2)U0Ì tenerli al sol fermi & intenti,
Quando più sparge i rai su 1' horizzonte. 4
Felice te, si satio al sacro fonte,
SoN. CLXV. — A Costanza d' A- j e della sera. — 3. V. la n. alla
valos; e su di lei v. la n. al son. I caiiz XIII, 14, n. — 4. ' Per te o-
CX ecc. — 1-2. Cfr. Virg-ilio, ^rt. | giii gran tesoro si trasforma ' ? —
vili, 589-3,91 : « Qnalis ul)i Oceani j 6. Margarita d. e. E cosi nel son.
perfusns Lncifer mula, Quem Ve- CXII, 6; da Dante (v. la n. ivi). —
mis ante alios astrorum dilieit i- ] S. ' Che sei inspiratricè dei poe-
gnis, Extulit OS sacrum caelo le- \ ti '. — 9. flagra, latin , ' arde \
nel)rasque resolvit ». — i. ' Splen
dorè delia Spagna e dell' Italia ':
i D'Avalos erano d'origine spa^
gnuola (v. la n. alla canz. XIX, 8)
viso, latin., ' vista '. — 14. ' Di
chi non ti ha mai veduta '.
So>i. CLXVI. — A Pietro Snm-
monte: su di lui v. V Introd. —
— 2. Espero è stella del mattino i 3-4. Cfr. canz. XVIII , 38-40. —
RIME
Che senza guidardon sol ti contenti
Volando andar per bocche de le genti ,
Et de myrti & corymbi ornar la fronte.
Se'n l'amicitia sei vero cultore
Molto più di vertù, che di fortuna,
Il so, che ti conosco & dentro & fuore.
Col ricco ingegno tuo vertù s' aduna ,
Et mostra di costumi il bel candore:
Kara felicità sotto la luna!
207
«4
SONETTO CLXVII.
Summontio, in dubbio sono, ove nascesti:
Nel colle irriguo del Pi'erio fonte ,
ver nel summo, iusuperabil monte,
Nel qual vertù diffunde i rai celesti.
Veggio arguraenti chiari &